Restare 50 anni in Iraq?

 

Teorema Fukuyama

 

Ieri, un’autobomba a Ramadi e un agguato a una colonna americana a Fallujah. Il giorno prima, il raccapricciante linciaggio di quattro ex Navy Seal passati alla Blackwater, una delle compagnie di sicurezza private che assicurano le scorte alle autorità della transizione in Iraq. Due giorni prima, cinque GI uccisi poco fuori la città, uno dei vertici del triangolo sunnita con Ramadi e Tikrit, il cuore della guerriglia ex baathista oggi alla ricerca di raccordi con la galassia del terrorismo. Il mese di marzo è stato il più sanguinoso per gli americani in Iraq dallo scorso novembre, con 56 caduti rispetto agli 82 che allora avevano segnato il picco. Dopo le perdite erano scese a 20 in febbraio, il generale Richardo Sanchez dichiarava che la guerriglia stava esaurendosi. Ma sul totale di 606 caduti americani e 3.457 feriti dall’inizio di Iraqi Freedom, ci sono state più vittime dalla cattura di Saddam a oggi, di quante non se ne fossero registrate da quando George Bush dichiarò terminate le operazioni militari "più massicce" sino a dicembre. Qualcosa si sta inceppando, nel contrasto alla guerriglia.

Esiste il rischio che la popolazione, in tutto l’Iraq centrale, riprenda a solidarizzare con i terroristi. Non a caso Francis Fukuyama sottolinea che è una pericolosa illusione che gli americani impacchettino il 1° luglio l’amministrazione transitoria e la consegnino al primo autogoverno iracheno, magari con un elenco trionfale di progetti di sviluppo già avviati. "Dobbiamo restare 50 anni", è la sua tesi, altrimenti in Iraq non nascerà una democrazia, si saranno solo poste le basi per un inevitabile nuovo focolaio di instabilità. Come stanno le cose? Il problema ha innanzitutto una sua valenza militare. Gli ufficiali che lavorano col generale Mark Kimmit spiegano dal Centcom che la recrudescenza a Fallujah è ciò che si temeva, per effetto della massiccia rotazione di truppe in corso che vede 14 brigate dell’Us Army avvicendare le 17 prima sul campo. E’ il benvenuto che i baathisti riservano alla 1a MEF dei Marines che da 5 giorni a Fallujah ha rilevato l’82aAirborne. Il generale James Conway è per le maniere forti, dopo il primo caduto appena arrivati, ha schierato i tank ai crocicchi, facendoli ostentatamente esercitare al tiro d’artiglieria in prossimità dei centri abitati. Le relazioni coi locali sono istantaneamente peggiorate, i baathisti ne hanno approfittato. Conway e i suoi non sono affatto convinti del tentativo di trasformare le unità combattenti in "angeli dello sviluppo". E’ un problema non da poco. L’Us Army tiene a Fort Leonard nel Missouri un maxi programma di trasformazione in polizia militare di migliaia di GI sin qui addestrati per combattere in unità corazzate o di artiglieria. Il generale John Batiste, che con la sua 1a Divisione di fanteria ha sostituito la 4a a Nord del triangolo sunnita, riporta che il morale dei suoi carristi è basso, ridotti al rango di polizia. Lo conferma anche il rateo

dei suicidi innalzatisi a 17,2 su 100 mila tra i GI in Iraq, sempre più basso di 22 che è il dato tra i civili americani, ma il doppio di quanto si registrava nell’Us Army. La scelta è politica Il punto, però, è politico. Fukuyama, chesulla guerra era tiepido, dice che gli States devono restare. Conservatori, come quelli del Cato Institute, ribattono che bisogna andarsene al più presto: "Restando, indeboliamo il radicamento delle forze politiche irachene, e diffondiamo in Medio Oriente l’impressione di volerci impadronire di quell’area, un autogol per battere il terrorismo", ci dice Cristopher Preble. Al contrario, l’Iraq Report del Council on Foreign Relations, organismo bipartisan più liberal che filo Bush, sostiene che gli americani devono restare a lungo. Tra i redattori del documento l’ex ambasciatore americano all’Onu Thomas Pickering, il cui nome è tra i possibili successoridi Paul Bremer a Baghdad da luglio, per dare appunto copertura bipartisan alla presenza americana. Restare, pensa anche Michael Clarke, direttore dell’International Policy Institute al King’s College di Londra, "gli europei vanno coinvolti ma un disimpegno americano non li vedrebbe in grado di sostituirli". Da Parigi è pessimista François Heisbourg, direttore della Fondation pour la Recherche Stratégique: "Gli americani stanno oggettivamente offrendo una straordinaria occasione al risentimento islamista, se restano è peggio e se partono alla chetichella pure". Ne sono convinti iperliberal americani come Joseph Cirincione, della Carnegie Endowment for International Peace, che chiede "una drastica revisione della presenza in Iraq, solo coinvolgendo in pieno Europa e Onu si esce dal pantano". "Ma quale Europa, quella che ha reagito a Madrid con la paura?", risponde polemicamente Gary Samore, dall’International Institute for Strategic Studies di Londra.

 

Fonte: Il Foglio 2/4/2004