LA GIUSTIZIA E IL TERRORISMO

STEFANO RODOTÀ

 

Per un lunghissimo tempo, e fino a ieri, si è detto che l'assetto politico dell'Europa moderna trovava il suo fondamento nella pace di Westfalia del 1648. Ora si parla di "guerra costituente". Dobbiamo attribuire un significato simbolico a questo mutare delle parole, a questo passaggio dalla pace alla guerra come atto fondativo del sistema delle relazioni internazionali e dell'ordine interno degli Stati? È questo il bilancio istituzionale alla fine dell'anno segnato dall'attacco dell'11 settembre? Molti segni indurrebbero a non avere esitazioni, e a dare una risposta affermativa. Così agiscono i molti che, in campi opposti, sono presi dall'ansia di dare un'interpretazione definitiva della fase appena cominciata e, quindi, sono indotti a parlare di un nuovo sistema compiutamente delineato davanti ai nostri occhi. Il "nuovo inizio", datato 11 settembre, già avrebbe prodotto un insieme di istituzioni che, pur presentate con il carattere dell'emergenza e dunque di una tendenziale temporaneità, in concreto sarebbero destinate a consolidarsi.

Questa eventualità è certamente nelle cose. Il modo in cui viene presentato il nemico — non identificabile preventivamente o addirittura inconoscibile, ospite di Stati ma non rinchiuso in confini nazionali, molecolare e dunque capace d'identificarsi in chiunque, potenziato da tecnologie che possono rendere devastante anche l'attacco di singoli o di piccolissimi gruppi — descrive piuttosto una condizione permanente. La guerra è cominciata, ma la pace, come atto finale, non sembra possibile nelle forme tipiche delle guerre del passato. Con chi si dovrebbe sottoscriverla? Mancherebbe, quindi, la possibilità di quel termine formale che chiude la parentesi bellica e fa venir meno istituzioni e norme che l'accompagnano. Le istituzioni dell'emergenza s'impadronirebbero così, definitivamente, dell'ordine sociale.

Ma, si dice, il nuovo terrorismo ha cambiato la percezione che le nostre società hanno di se stesse, e sarebbe impossibile, o comunque puerile, pensare che esse possano essere accompagnate e governate dalle stesse istituzioni anteriori al Grande Cambiamento. Quali dovrebbero essere, allora, queste nuove istituzioni? E, soprattutto, a quale logica dovrebbero obbedire? Se il terrorismo non viene considerato come un problema da risolvere, ma come l'unica categoria interpretativa della realtà e l'unico riferimento della progettazione istituzionale, la sola logica ammissibile sarebbe quella della sicurezza e dell'ordine pubblico. La risposta istituzionale al terrorismo sarebbe così quella che fa nascere una società della sorveglianza, versione aggiornata dello stato di polizia. L'emergenza terroristica si trasformerebbe nel solo, legittimo "potere costituente".

Per chi ha conosciuto le vicende del terrorismo interno, questo modo di ragionare non riesce nuovo. Ma proprio quell'esperienza dovrebbe ammonirci sulla vanità e pericolosità di questa forma di riduzionismo istituzionale, che può indurre una sorta di cecità politica, destinata a produrre non solo paralisi di fronte al futuro, ma pure incapacità d'affrontare correttamente le questioni immediate e urgenti.

È vero. L'11 settembre ci ha brutalmente posto di fronte a problemi ormai ineludibili, anche se non inediti. La fragilità dell'ordine internazionale era davanti agli occhi di tutti, l'inadeguatezza di un governo delle relazioni globali da parte della sola logica economica era stata mille volte denunciata. La superbia del "pensiero unico" non è l'ultima tra le cause del disorientamento presente. Ma possiamo rassegnarci a essere stretti tra ordine di mercato e ordine di polizia, con la politica ancella ora dell'uno ora dell'altro?

Le risposte istituzionali all'attacco terroristico sono state quelle prevedibili. Misure di polizia, ora necessarie, ora inutili, ora pericolose. S'è ripetuto lo spettacolo, ben noto, di governi e parlamenti che rispondono alle paure e alle emozioni collettive indicando nelle garanzie delle libertà l'ostacolo di cui sbarazzarsi. In molti paesi, gli apparati di polizia hanno cercato di sfruttare l'occasione per ottenere poteri anche in settori che nulla hanno a che fare con la lotta al terrorismo; e lo stesso hanno fatto alcuni gruppi economici, a esempio cercando di utilizzare le nuove forme di controllo su Internet per dare la caccia a chi viola qualche regola sulla proprietà intellettuale. Si enfatizza il ricorso alle tecnologie di controllo i cui limiti funzionali sono messi in evidenza, tra i tanti, da Simon Garfinkel su Technology Review, e che tuttavia possono alimentare una pericolosissima sindrome "securitaria" con effetti devastanti sulle relazioni personali e sociali.

Di tutto questo si discute sempre più intensamente, insistendo soprattutto sul rischio di ridurre il tasso di democrazia dei nostri sistemi politici, consentendo così al terrorismo di realizzare uno dei suoi obiettivi (lo ha messo in evidenza, tra gli altri, un recente documento dei Garanti europei della privacy). Ma la discussione istituzionale non può limitarsi alla pur sacrosanta difesa dei diritti fondamentali.

Un bilancio di questi mesi indica altre direzioni verso cui guardare. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu, con due risoluzioni del settembre scorso, ha assunto una posizione senza precedenti, legittimando la risposta militare degli Usa sulla base del "diritto naturale alla legittima difesa individuale e collettiva". Proprio questo intervento, tuttavia, impone di guardare alla Carta delle Nazioni Unite nella sua interezza. Non è possibile utilizzarne alcune parti quando fa comodo, e ignorarne altre, spesso le più rilevanti proprio per la sicurezza internazionale. Sono ancora inattuate le norme riguardanti la gestione diretta da parte dell'Onu degli interventi armati: per quanto tempo ancora si potrà eludere questo tema? Come devono essere definite le modalità d'uso della forza nel nuovo contesto internazionale, allo stesso modo devono essere chiarite le modalità d'esercizio della giustizia. Nel '98, a Roma, è stato creato un Tribunale penale internazionale, che in futuro dovrà giudicare i crimini rilevanti nella dimensione globale: iniziativa importantissima, anche se la convenzione istitutiva non è stata firmata da americani e cinesi. Ma gli Usa hanno avuto un ruolo determinante nella creazione del Tribunale di Norimberga per giudicare i criminali nazisti, il loro intervento è stato decisivo per la consegna di Milosevic alla Corte internazionale sui crimini nell'ex Jugoslavia. Non è forse il caso di chiedere che questa contraddizione venga sciolta e, intanto, accogliere le proposte d'affidare i nuovi terroristi a uno specifico Tribunale internazionale? Sono ipotesi poco realistiche? Forse. Ma sono proprio gli eccessi di realismo all'origine dell'attuale disordine internazionale. L'alternativa ormai è netta. O accettiamo che sia la pura logica di potenza a governare il mondo nel futuro prossimo o dobbiamo subito cominciare a progettare le istituzioni del mondo globale.

Fino a che punto sono utilizzabili istituzioni già esistenti, come il G8, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l'Organizzazione mondiale del commercio? Già prima dell'11 settembre, sotto la spinta delle critiche alle modalità attuali della globalizzazione, alcuni di questi organismi avevano cercato una nuova legittimazione, dichiarando un'inedita sensibilità per i problemi sociali. Ma questo modo di procedere, ammesso che porti a veri risultati, assomiglia troppo alla logica ottocentesca delle costituzioni octroyées, graziosamente elargite dai sovrani ai sudditi, mentre oggi v'è una richiesta di persone e di Stati d'essere protagonisti nella formazione delle nuove regole. Serve una trama di accordi e di convenzioni, che può essere promossa solo da una politica libera da miopi subalternità verso ogni forma di egoismo nazionale o economico.

Se non si ha consapevolezza di tutto questo, se non si avvertono l'importanza dei diritti fondamentali e i rischi d'un mondo unipolare, affidato alle cure di un'unica superpotenza, prepariamoci a un lungo tempo di conflitti.

Fonte: Repubblica 12/1/2002