A WASHINGTON, UNA NUOVA PRESIDENZA IMPERIALE
La guerra in Afghanistan riuscirà a fornire al presidente repubblicano George W. Bush quel potere istituzionale che un'elezione assai contestata e la perdita della maggioranza in una delle Camere del Congresso sembravano aver messo in pericolo? Lo stato di rischio nazionale sembra già caduto a pennello per giustificare un rafforzamento dell'esecutivo, persino in settori senza alcun rapporto apparente con la condotta delle operazioni militari. In particolare, nel campo della giustizia e della polizia le prerogative dell'esecutivo sembrano aumentare in modo impressionante. Tanto da inquietare i sostenitori della "separazione dei poteri".
PHILIP S. GOLUB
Dalla fine della guerra del Vietnam in poi, la destra americana aveva sempre sognato una restaurazione imperiale. Al di là dei suoi risvolti economici e sociali neoliberisti, la "(contro) rivoluzione conservatrice" degli anni '80 si prefiggeva di ridar forza a un patriottismo ferito, di riportare in auge la gloria e l'onore militare degli Stati uniti e di restituire all'esecutivo una autonomia largamente perduta, dopo la caduta di Saigon e lo scandalo del Watergate, a favore dei contropoteri legislativo e giudiziario. Paradossalmente, nel paese dello "stato debole", sono spesso i critici più sprezzanti dello stato federale quelli che, una volta entrati nella stanza dei bottoni, rafforzano notevolmente i suoi poteri regali, e in particolare il potere di fare la guerra.
Araldo dello "stato minimo", Ronald Reagan (1980-1988) era stato il presidente della più ampia espansione militare in tempo di pace di tutta la storia degli Stati uniti, anche se il rilancio delle spese militari era avvenuto durante la presidenza del democratico James Carter (1). Abile geopolitico ma mediocre politico, il suo successore George H. W. Bush (1988-1993) aveva nel complesso portato avanti lo stesso programma di rimobilitazione dell'apparato di sicurezza nazionale nel contesto del dopo guerra fredda. Ma nessuno dei due era riuscito a spingere questa logica alle estreme conseguenze. Con un presidente che molti ritenevano destinato alla mediocrità e all'impotenza politica, la rifondazione di un potere esecutivo forte imperniato sull'apparato di sicurezza nazionale sembra invece ormai una realtà imminente. In seguito allo spaventoso attentato dell'11 settembre e alla guerra in Afghanistan, l'ultimo dei tre conflitti high-tech vittoriosi condotti dagli Stati uniti nel giro di dieci anni, l'ex governatore di provincia si è trasformato in un vero e proprio Cesare americano, impresa che non era riuscita né a Reagan né a Bush padre. "Gli attacchi dell'11 settembre e la guerra in Afghanistan - scrive il Washington Post - hanno notevolmente accelerato la dinamica di rafforzamento dei poteri presidenziali ricercata dall'amministrazione Bush (...). Il presidente gode di un dominio che lo pone al di sopra di tutti i presidenti successivi al Watergate, sfidando addirittura la supremazia finora incontrastata di Franklin D. Roosevelt" (2).
Dominio: è un termine scelto con cura. La guerra ha sempre avuto un volto bifronte, interno ed esterno. Già Aristotele, parlando del tiranno, aveva osservato che a volte egli faceva la guerra "per privare i suoi sudditi degli agi e dell'ozio, e per imporre loro il bisogno costante di un capo (3)". Un sistema giudiziario parallelo Bush non è certo un tiranno, ma più modestamente il vincitore risicato di elezioni contestate e contestabili. E, tra l'altro, non è stato lui a scatenare le ostilità. Ma la guerra, che egli annuncia come guerra perpetua, gli dà i mezzi per affermare la potenza americana e per rifondare il suo potere politico personale. All'esterno, gli permette di dimostrare una volta di più la supremazia militare-tecnologica degli Stati uniti, di sottolineare, come aveva fatto suo padre in Iraq, l'utilità permanente della forza nel dopo guerra fredda, e di ridisegnare il panorama strategico mondiale. All'interno, la guerra lo induce a riportare alla ribalta lo stato di sicurezza nazionale (National Security State) (4), a riaffermare la sua autorità e a giustificare l'emarginazione dei contropoteri legislativo e giudiziario.
Rodomonte dello stato dalle tendenze alquanto autoritarie, l'ex governatore di provincia sta costruendo un esecutivo forte, compatto, autonomo ed interventista. Grazie alla sottomissione volontaria delle due Camere del Congresso che, votando lo Us Patriot Act a fine settembre (5), si sono spogliate di gran parte delle proprie prerogative, Bush ha dotato l'esecutivo di poteri straordinari, quali la detenzione segreta e a tempo indeterminato dei non cittadini (aliens) in posizione "irregolare", o la costituzione, in base ad un decreto presidenziale del 13 novembre scorso, di tribunali militari speciali. Oltre 1.200 persone arrestate all'indomani dell'11 settembre erano ancora in carcere a metà dicembre, senza che si sapesse chi fossero o quali fossero le accuse a loro carico (6).
Né i detenuti né i loro familiari hanno accesso al materiale probatorio raccolto dall'accusa. Per quanto riguarda i tribunali militari speciali, creati senza consultare né il Congresso né la Corte suprema, saranno autorizzati ad incarcerare, giudicare e giustiziare "terroristi" e "criminali di guerra" identificati come tali soltanto dal potere esecutivo, e in base a testimonianze o prove segrete. Rimarranno segreti anche luoghi, procedure, accuse, deliberazioni, sentenze e composizione di tali tribunali. Contrariamente alle procedure dei tribunali militari comuni, gli imputati non avranno possibilità di ricorrere in appello, neanche nei casi di condanna a morte.
Come ha sottolineato il New York Times, queste violazioni dei principi fondamentali dello stato di diritto - principi che in teoria si applicano con criteri uniformi e universali a tutti coloro che rientrano nella sua giurisdizione - equivalgono a "costruire un sistema giudiziario parallelo (7)". Per i cittadini americani, compresi i terroristi della risma di Timothy McVeigh, autore della strage di Oklahoma City del 1996, ci saranno i tribunali normali. Per gli stranieri, residenti o non residenti negli Stati uniti, ci saranno i tribunali speciali militari. In sintesi, l'esecutivo avrà creato di sana pianta una istituzione di non diritto nello stato di diritto - istituzione dotata per giunta di poteri di indagine e d'intervento a tutto campo. In tal modo, il Pentagono farà la guerra, identificherà i colpevoli e somministrerà la giustizia.
Così facendo, l'esecutivo avrà ampliato notevolmente il suo spazio d'intervento nella vita pubblica americana: sottraendo di fatto alla Corte suprema il suo ruolo di giudice di ultima istanza e riducendo all'impotenza il Congresso, Bush infligge un duro colpo a quella separazione dei poteri che costituisce il fondamento stesso della democrazia americana. Si tratta di una deriva autoritaria senza precedenti nella storia recente degli Stati uniti. Neppure al culmine della guerra fredda l'esecutivo americano aveva mai osato tanto. Certo, aveva incoraggiato e sostenuto la caccia alle streghe, la censura, le liste di proscrizione, la repressione violenta dei movimenti per i diritti civili, il segreto e le menzogne di stato, i poteri esorbitanti dell'Fbi, le operazioni illegali in patria e all'estero. Ma né la guerra in Corea né la guerra in Vietnam, guerre pur sempre "limitate", avevano portato alla creazione di una giustizia parallela controllata dalla presidenza e dall'apparato di sicurezza nazionale. Secondo l'espressione forte di un editorialista libertario di destra, abitualmente entusiasta sostenitore dei repubblicani, si tratta di una "presa di potere dittatoriale (8)". Troviamo una constatazione analoga in Chalmers Johnson, saggista e ricercatore critico, che parla di "un colpo di stato militare in embrione, forse irreversibile che, come già avvenuto nell'ex Ddr, trasformerà il paese in un covo di delatori, in cui saranno al sicuro soltanto i mormoni bianchi" (9). Una guerra infinita Senza spingersi a tali estremi, pare comunque evidente che lo stato di massima sicurezza di Bush, così contrario alle tradizioni politiche americane, potrà istituzionalizzarsi soltanto se la guerra continuerà ad oltranza. È questo verosimilmente il senso recondito del discorso finora immutabile della nuova presidenza imperiale. Sostenendo che l'11 settembre segnava l'inizio di una guerra mondiale, che era la "Pearl Harbor" del XXI secolo, annunciava una lotta globale contro il terrorismo, senza limiti spaziali o temporali.
Senza limiti spaziali: una volta conclusa la campagna in Afghanistan è prevista una "seconda fase". Preannunciata fin dalla fine di settembre, potrà dirigersi inizialmente contro i paesi ritenuti complici perché accoglierebbero reti di terroristi clandestini, in Medioriente, in Asia, in Africa e in America latina (si legga l'articolo di Janette Habel, pagine 14 e 15). D'altronde, alcuni "specialisti" americani sono già all'opera nelle Filippine, dove danno il contributo della loro esperienza in fatto di interventi anti-sommossa, e giungeranno quanto prima in Somalia, paese con cui si sta stipulando un accordo bilaterale per consentire agli Stati uniti di utilizzare il porto di Berbera. Si passerà quindi ad una terza fase, in cui le operazioni avranno come bersaglio un nemico più pericoloso: l'Iraq.
Senza limiti temporali: un giorno dopo l'altro, l'amministrazione Bush ripete incessantemente che sarà una guerra lunga, forse infinita.
Una volta eliminato Osama bin Laden, bisognerà occuparsi delle cellule di al Qaeda sparse da un capo all'altro del pianeta. Poi toccherà ai loro sostituti, visto che l'eliminazione dei sintomi non ha mai guarito la malattia. Se vogliamo credere a certe visioni da incubo, la guerra potrebbe durare cinquant'anni, e comunque "ben oltre la nostra vita", per citare il vice presidente Dick Cheney, che dall'11 settembre se ne sta nascosto in un bunker segreto vicino a Washington.
E, come si è visto nei quarant'anni della guerra fredda, saranno mobilitate "tutte le risorse della potenza di stato".
Questo discorso coerente e uniforme ha come destinatario l'opinione pubblica americana ancor più dell'opinione pubblica mondiale. Mira a suscitare e a legittimare una mobilitazione permanente del popolo americano, schierandolo al seguito di un leader attualmente incontestato ma che, quando sarà finita la guerra visibile - quella in Afghanistan - rischia di ritrovarsi ben presto alle prese con elettori scontenti di una situazione economica sempre più difficile.
Al momento, gli interventi dello stato sull'economia (in cui alcuni spiriti ingenui hanno creduto di percepire un "ritorno della politica" finalmente liberata dai vincoli dei mercati globali) hanno giovato esclusivamente alle grandi imprese e al complesso militare-industriale, pilastri tradizionali della presidenza repubblicana. Lo stato ha sborsato decine di miliardi di dollari sotto forma di aiuti diretti o indiretti: 15 miliardi di aiuti diretti alle compagnie aeree, 25 miliardi di aiuti indiretti a tutte le imprese, che hanno beneficiato di un regalo fiscale retroattivo, e 20 miliardi di stanziamenti diretti a favore del Pentagono (il cui bilancio attuale arriva a 329 miliardi di dollari).
In parallelo, non è stato fatto nulla a favore dei lavoratori dipendenti e dei disoccupati, il cui numero è in aumento (a tutt'oggi, il 5,6% della popolazione attiva). Come ha avuto modo di dire Richard Armey, presidente del gruppo parlamentare repubblicano alla Camera dei rappresentanti, i sussidi di disoccupazione "sono estranei allo spirito americano".
Ma allora, sulla spinta della recessione, numerosi americani si aggiungeranno alla massa di persone senza lavoro entro il 2002 (anno delle elezioni legislative) e il 2004 (anno delle elezioni presidenziali). A giudicare dalle sue azioni, Bush vorrebbe allo stesso tempo uno stato di sicurezza massimo e uno stato sociale minimo.
Se non ci sarà una mobilitazione costante, che può nascere soltanto dalla paura, Bush probabilmente faticherà non poco a mantenere la rotta. Forse la vittoria in Afghanistan è giunta troppo presto. L'America rischia di stancarsi presto della nuova presidenza imperiale.
note:
(1) Durante la presidenza Reagan, gli stanziamenti per la difesa sono saliti dal 23,5% al 27% del bilancio federale, tornando così ai livelli del 1975, e la Cia ha condotto le due più grandi operazioni clandestine del dopo Vietnam, in Afghanistan e in Nicaragua.
(2) Dana Milbank, International Herald Tribune, 21 novembre 2001.
(3) Aristotele, La politica, Laterza, 1993.
(4) Si legga Philip S. Golub, "La nuova strategia imperiale degli Stati uniti", Le Monde diplomatique /il manifesto, luglio 2001
(5) Si legga Michael Ratner, "Le libertà sacrificate sull'altare della guerra", Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre 2001
(6) Ad eccezione del francese Zacarias Moussuoi, accusato l'11 dicembre al cospetto di un tribunale civile di aver partecipato ai preparativi degli attentati dell'11 settembre.
(7) Editoriale del New York Times, 2 dicembre 2001.
(8) William Safire, "Seizing Dictatorial Power", New York Times, 15 novembre 2001.
(9) Intervista con l'autore.
(Traduzione di R. I.)
Fonte: Monde Diplomatique 01/2002