LA GUERRA D'INVERNO
GEORGE MONBIOT
La pace è stata dichiarata prima che iniziasse la guerra. Coloro che invocavano la cancellazione di Kabul e Baghdad hanno fatto marcia indietro di fronte a una complessità insostenibile. Molti di quelli che si opponevano all'aggressione tirano un sospiro di sollievo: la minaccia di bombardamenti a tappeto o del ricorso alle armi atomiche per ora sembra scongiurata. Oggi secondo l'opinione prevalente l'attacco a pochi bersagli militari e l'impiego di forze speciali non produrrebbe grossi danni.
Il nostro governo ha promesso, come altri governi, aiuti umanitari. Il governo del Pakistan ha iniziato a ritirare il proprio sostegno ai Talebani e preme verso altri leader con la speranza di architettare e mettere in atto un colpo di stato "silenzioso". Invece della tremenda carneficina promessa da una nazione ferita, la risposta all'attacco di New York inizia ad apparire generosa. Ora quasi tutti sembrano concordi: per soddisfare le esigenze occidentali di controllo sul terrorismo e le necessità del popolo afgano minacciato dalla fame occorre agire con calma e per passi successivi.
Ma il nuovo consenso ha trascurato qualcosa, un elemento facile da capire in tempo di pace, ma spesso dimenticato in guerra con effetti disastrosi. E' il fattore che aiutò a battere Napoleone e anche Hitler, un elemento capace di bloccare qualsiasi intervento umanitario: l'inverno. E l'inverno afgano, come quello russo, è inesorabile. Quanti si sono occupati di aiuti umanitari e conoscono l'Afghanistan raccontano che dopo la prima settimana di novembre tutto diventa impossibile. Un fattore che fa la differenza: l'inverno si trasforma in inferno.
L'uomo per sopravvivere ha bisogno di 18 chili di cibo al mese. Secondo le proiezioni dell'Onu gli afgani in fuga sono circa 1 milione e mezzo, dunque resteranno nel paese oltre 6 milioni di persone affamate. In altre parole, per consentire alla popolazione di superare l'inverno dovrebbero arrivare in Afganistan entro cinque settimane 580.000 tonnellate di viveri, oltre a tendoni, indumenti caldi, medicinali, attrezzature per la fornitura dell'acqua e apparecchi sanitari. Solo per i viveri occorrerebbero 21.000 camion o 19.000 aerei Hercules da trasporto. Il convoglio accolto ieri a Kabul con grandi acclamazioni copre sì e no la tremillesima parte dei bisogni del paese.
Anche se non ci fosse la minaccia della guerra, un'operazione di tali dimensioni è comunque ai limiti del possibile. Diventa senz'altro impossibile ora che l'Afghanistan si prepara all'invasione. La sospensione degli aiuti umanitari, durata 19 giorni e interrotta ieri, potrebbe avere già provocato migliaia di morti. A detta delle Nazioni Unite la ripresa è "sperimentale": se dovesse scoppiare la guerra, i camion si fermerebbero e in mezzo ai fumi dei combattimenti gli aerei civili rischierebbero di essere abbattuti. L'esitazione delle organizzazioni di aiuti umanitari è comprensibile, ma letale per gli afgani. Ogni attesa li uccide.
Al momento la distribuzione è difficile quanto l'approvvigionamento. L'Onu prevede una diaspora interna al paese di 2,2 milioni di afgani, che lasceranno le città per il timore delle bande di Talebani e delle bombe americane, ma anche i villaggi per paura di una guerra civile sempre più aspra. Questa dispersione è doppiamente tragica: non solo le persone saranno difficilmente raggiungibili, ma anche impossibilitate a seminare il grano che dovrebbe salvarle il prossimo anno.
Sembra che per ragioni militari gli Usa abbiano chiesto a tutti i paesi confinanti con l'Afghanistan di sbarrare le frontiere. Molti di quelli che non rischiavano la fame nell'immediato hanno venduto i loro beni per raggiungere il confine, ma sono stati obbligati a tornare a causa della sua chiusura illegale. Oggi anche loro muoiono di fame. Se gli Usa bombarderanno strade e aeroporti per battere i Talebani, quasi tutta la distribuzione degli aiuti si bloccherà.
Forse è possibile lanciare una campagna militare di successo tra oggi e il 7 novembre. Forse è possibile lanciare nello stesso periodo una proficua campagna di aiuti umanitari. Ma è senz'altro impossibile realizzare entrambe. A meno che l'Occidente non ritiri le armi in Afghanistan per annunciare un'immediata cessazione del fuoco, saremo responsabili di qualcosa che si avvicina al genocidio.
La settimana scorsa ho suggerito che gli Usa raggiungessero i loro obiettivi strategici in Afghanistan attraverso la pace, invece che con la guerra. I Talebani sfruttano la paura dello straniero: evocano un mondo ostile sperando che la gente resti con loro per paura del peggio. Un intervento umanitario di grandi proporzioni minaccerebbe l'isolazionismo su cui contano e la popolazione sarebbe spinta a rivoltarsi contro di loro, gli oppressori. Ai deliziosi messaggi che sto ricevendo da due settimane e che mi paragonano a Hitler, Goebbels, Stalin, Chamberlain e Belzebù, si è subito aggiunta una nuova considerazione: io sarò pure un principe delle tenebre, ma anche irrimediabilmente idealista e ingenuo. Forse avrei dovuto essere più cauto nelle mie affermazioni.
Nessuna strategia in Afghanistan ha garanzia di successo, ma non c'è pensiero più ingenuo quanto quello di supporre che si può distruggere una tattica (quale è il terrorismo) o un'idea (quale è il fondamentalismo) per mezzo di bombe, attacchi missilistici o forze speciali. Infatti, anche il Pentagono ora elenca le sue scelte militari sotto il titolo Aos: All Options Stink (letteralmente: tutte le opzioni fanno schifo). Se l'intervento militare portasse alla consegna di bin Laden e alla distruzione dei Talebani, è difficile pensare come questo possa impedire di incoraggiare rappresaglie in tutto il mondo.
Né è evidente che un attacco all'Afghanistan porterebbe all'eliminazione dei feroci guerrieri che lo governano. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno bombardato l'Iraq per dieci anni riuscendo solo a rafforzare il dominio di Saddam. Molti a Washington riconoscono in privato che la permanenza in carica di Fidel Castro è stata prolungata dalle ostilità e dagli embarghi americani. Se gli Stati Uniti avessero ritirato le loro truppe dalla baia di Guantanamo, se avessero aperto i mercati e fatto investimenti a Cuba, avrebbero ottenuto con la generosità quello che non hanno mai ottenuto con l'antagonismo. Ci sono tutte le prove per suggerire che in caso di attacco all'Afghanistan, gli afgani saranno a fianco del piccolo Satana di casa loro contro il Grande Satana oltreoceano.
Al contrario, il governo conservatore rispose ai tumulti degli anni '80 ristrutturando le proprietà che avevano ridotto in cattivo stato, finché altre città lamentarono il fatto che il solo modo di ottenere il denaro era quello di scatenare la rivolta. Ma il governo capì che se da una parte i rivoltosi potevano essere incoraggiati dai residenti di aree depresse e in rovina, dall'altra incontravano la decisa opposizione della gente che vedeva qualche prospettiva di miglioramento.
Alcuni possono argomentare che lanciando cibo piuttosto che bombe sugli afgani si darebbe un incentivo ad ulteriori atti terroristici. Ma Osama bin Laden, se è realmente collegato all'attacco su New York, non è interessato al benessere del popolo afgano. Come i Talebani, utilizza miseria e insicurezza come armi sociali. Non cerca la pace, ma la guerra. Mentre l'aggressione occidentale guiderà gli afgani nelle braccia dei Talebani e dei loro ospiti, l'aiuto occidentale allontanerà la popolazione dagli sfruttatori.
Il Pakistan può continuare a negare il supporto al regime afgano e cercare di progettare un rovesciamento del regime senza spargimento di sangue. Gli Stati Uniti possono aumentare la taglia sulla cattura e la resa di bin Laden per processarlo in un tribunale internazionale. Ma se cerchiamo di costringere l'Afghanistan alla sottomissione perderemo la guerra del terrorismo, trucidando nel frattempo "distrattamente" milioni dei suoi abitanti. Possiamo scegliere, in altre parole, fra un futile genocidio e una pace produttiva. Non dovrebbe essere una scelta troppo difficile.
Scrittore, giornalista, George Monbiot è editorialista del Guardian e docente universitario a Keele, East London, Oxford, Bristol. Questo articolo è stato pubblicato su The Guardian, martedì, 2 ottobre 2001. Traduzione di A. Rocca e C. Maioli (Traduttori per la Pace)
Fonte: Manifesto 4 ottobre 2001