IL RITORNO DEL LEVIATANO

Gianni Ferrara

 

1.Netta, perentoria, possente è stata la risposta che, dopo l’11 settembre, lo Stato, come forma d’aggregazione umana e come soggetto, ha gridato ai tanti che ne avevano preconizzato la morte, creduta già scritta, ineluttabile, imminente, e, per molti, foriera, finalmente, di libertà e di giustizia. La ha data, questa risposta, col dire e l’agire della più ampia concentrazione delle sue determinazioni contemporanee. A quella che ne mette insieme 52 come membri di uno Stato solo, gli Usa, si è aggiunta la costellazione che gli si è raccolta intorno (dalla Russia alla Cina, all’India, a tutti gli Stati europei, a molti di quelli africani, agli arabi più o meno moderati). Una costellazione che si è formata non soltanto perché lo Stato che ne ingloba 52 è diventato da dodici anni la potenza assoluta nel mondo, ma perché si è eretto a emblema e a difesa della intangibilità del principio fondante la statualità. Un’intangibilità, ormai ferita, di un principio colpito sia nella raffigurazione della sua connessione al sistema economico-finanziario, le Twin Towers, che, nell’espressione più allusiva alla sua valenza militare, il Pentagono. Per di più, a opera di qualcuno o qualcosa che è apparso, ed è, ‘altro’ da Stato.

È del tutto evidente che il monopolio della forza (che diventa legittima a condizione d’essere tale) può ammettere che lo si discuta quanto si vuole, che lo si critichi e anche aspramente. Lo si potrà forse anche irridere, alludendo, ad esempio, al controllo del territorio, di alcuni mercati e anche delle procedure elettorali da parte della criminalità organizzata in varie regioni del mondo, ma colpire no. Incrinare la sua ragion d’essere è, per tutti gli interessi, le culture e le paure che lo sostengono, delinquere contro lo spirito, il suo, ovviamente.

Lo Stato, infatti, nelle tante e varie sue concrete soggettività, non ha alienato mai la forza legittima del patrimonio accumulato, pur nella diversa misura che ciascuna delle sue specifiche individualità ha saputo raggiungere. Né mai ha ceduto il monopolio che, connettendosi a quello della forza legittima, consolida questa forza, la razionalizza, la riproduce, attraverso l’esclusività statale della produzione del diritto, non importa se questa produzione sia, o possa essere, diretta, delegata, concessa o permessa. Così, dopo e a seguito dell’11 settembre, l’espressione eminente del ‘politico’, l’aggregazione umana che riesce a reggersi unitariamente anche mediante i soli vincoli del ‘giuridico’, la forma del potere che sa mediare con la ragione, che sa tollerare l’intrusione di fattori che tenderebbero a frantumarlo, che sa anche assicurare alcuni diritti umani, ha impresso il primo suo segno sull’immagine del XXI secolo, riaffermando la sua presenza imperiosa nella realtà della condizione umana.

Eppure, era sembrato a tanti che il soggetto-Stato si stesse ritraendo dalla scena del mondo, che stesse ripiegando su attività subalterne e su recessive funzioni. Non stava disertando ogni campo a favore del mercato, della tecnologia diffusa e incalzante, responsabile solo di fronte a se stessa, cioè al capitale committente? Non stava lasciando alla ingegneria istituzionale dei grandi giuristi d’impresa il compito di costruire l’ordo juris mercatorum? Non aveva deciso di astenersi dall’intervenire sul libero incontro delle domande e delle offerte, rifiutando anche di elargire la ricchezza del suo enorme sapere normativo; non si era convertito alla credenza che solo quest’incontro, solo lo scambio tra danaro e merce crea, assicura e riproduce l’insieme delle condizioni per la soddisfazione dei bisogni umani, non più costretti nei rigidi involucri, statualmente precostituiti, dei diritti di varia natura, di diverso contenuto, di costo economico differenziato sia quanto a percezione sia quanto a categorie di contribuenti chiamate a sostenere il prezzo di questi diritti? Insomma, lo Stato non stava abdicando a favore della ‘società civile’? E, allora, si è forse improvvisamente rovesciato il destino cui l’esito del ventesimo secolo sembrava che lo avesse condannato? O non si è capito, invece, che il suo ruolo storico si andava rinnovando, si rimodellava, e di trasmutazione, si trattava, non di altro?

Perché, dunque, si è tanto creduto prima alla crisi, poi al declino, e infine all’irreversibile esaurimento dello Stato? La risposta a questa domanda non può essere che quella classica. È bene riformularla. Da dieci anni e più, da moltissime parti e con ogni strumento di comunicazione, fino a produrre un senso comune, si è detto e si è scritto che il tempo della politica si era concluso. Che per coltivarla e anche solo per immaginarla non c’era più spazio né oggetto, che non soltanto nel suo senso forte ma in nessun senso era più credibile. Che era stata soppiantata dall’economia, quella capitalistica ovviamente, incontestata perché incontestabile, trionfante, assorbente ogni altro agire umano a valenza interindividuale, risolutiva di ogni problema che fosse posto nei suoi termini reali ed empiricamente risolvibili. Il Government era stato spodestato. Al suo posto si era assisa la Governance che avrebbe retto e salvato il mondo con la sua efficienza, con la sua neutralità a fronte delle ideologie e delle passioni e soprattutto delle pretese sociali eccedenti le compatibilità finanziarie da rispettare col rigore più intransigente. Quel rigore che offre bilanci statali sani alla Governance come condizione inderogabile e risultato virtuoso. L’alternanza come ‘compimento’ (sic) della democrazia che cos’altro suppone, implica, prescrive se non la concorrenza nell’amministrazione ottimale della ‘società civile’ (nel senso attualizzato, ovviamente, ma comunque bivalente che ha sempre avuto l’espressione ‘bürgerliche Gesellschaft’ intesa marxianamente)?

D’altronde, nell’orizzonte del mondo, a Ovest come a Est, a Sud, né vicino, né lontano da ciascuno Stato, nell’economia globale, non potevano esserci che concorrenti. Il nemico che dopo Yalta, e con Fulton, era apparso tale, e forse lo era, per gli Stati, per le classi dominanti e per il modo di produzione dell’Occidente, soprattutto per lo Stato egemone in questa parte del mondo, era imploso. Scomparso come nemico, non era neanche più temibile come concorrente. Si era dissolto, senza reagire all’incombenza della sua catastrofe, senza rimpianti e senza lasciti. Aveva trascinato nella sua dissoluzione un movimento imponente, complesso, ricchissimo di passioni, di interessi, di speranze, di ideali, di cultura, che già adulto, volle definirsi specificamente in virtù della sua carica rivoluzionaria; per una sorta di induzione provocata dalla Rivoluzione d’Ottobre – uso la metafora dell’induzione per brevità e molto approssimativamente – si era diffuso all’interno degli Stati, con l’obiettivo di delegittimarli, se non come monopolisti della forza legittima, certamente come garanti di quel modo di produzione che col calare del secolo avrebbe celebrato il suo trionfo. Senza un nemico esterno, senza antagonisti del sistema economico di cui era garante, lo Stato, come forma e come soggetto, sembrava effettivamente carente di una ‘necessità’, di un ruolo che potesse ambire a porsi alla stessa altezza di quella che lo aveva qualificato storicamente e che potesse avere la stessa forza cogente sui popoli di cui pretendeva l’appartenenza. Intanto, e non a caso, pulsioni centrifughe anche significative si avvertivano all’interno di alcuni aggregati statali, logorandone la compattezza. E non è certo da escludere che fossero alimentate soprattutto dalla scomparsa del nemico e dal conseguente affievolirsi di quel timore della violenza esterna che da sempre ha costituito la primigenia matrice della soggezione delle genti allo Stato.

2. Ma, a New York, l’11 settembre, il nemico è riapparso. Lo si è avvertito, sentito, subìto. Non si è dichiarato, non ha usato parole, ma il fragore e l’orrore di un’arma irresistibile. È l’arma che ha convertito manufatti tecnologicamente avanzatissimi da pacifici strumenti di trasporto in ordigni di morte azionati da uomini rapiti dal più cupo fanatismo religioso. Miscelando alta tecnologia e fanatismo, quest’arma nuova si è dimostrata letale per tutta la serie di rapporti che formano il tessuto della convivenza statale e, operando all’interno di essa, può essere usata in qualunque luogo e in qualunque giorno da chi è in condizioni di disporne per qualunque altro disastroso misfatto. È considerata diversamente secondo le reazioni che ha suscitato. Ma se ne è rimosso il significato politico giudicandola come manifestazione esasperata di una chiara follia criminale, diffusa, organizzata, o credendo di essere di fronte a uno scarto della ragione tecnologica manomessa da un genio del male. Con ogni probabilità si tratta, invece, di altro e più raffinato strumento di lotta. Non è per nulla da escludere, infatti, che questa miscela riveli la costruzione sapiente dell’immagine di un nemico operante, vigoroso e irraggiungibile, da parte di chi (persone, interessi, movimento, organizzazione) sta provando ad assumere la leadership fondante di una nazione-Stato nella fase nascente. Un nemico che possa essere e apparire come capace di superare l’asimmetria di un confronto di enorme portata, di straordinaria tragicità e dagli esiti non scontati, un confronto da avviare clamorosamente per verificare l’attendibilità un disegno lucidamente progettato, da proseguire con lo stesso spietato rigore con cui è iniziato.

I termini del confronto sembrano quanto mai chiari. Una nazione e uno Stato che, l’una per riunirsi, l’altro per costruirsi, avendo rinunziato insieme alla via gandhiana all’identità nazionale e statale, poggiando sulla comunanza di una fede religiosa usata anche con empietà a fini esclusivamente politici, devono sfidare la potenza statale più grande della storia umana. Devono sfidarla ergendosi come il nemico di questa immensa potenza, non essendo possibile perseguire altrimenti il progetto di una nazione araba che conquisti per tutti gli arabi una sola forma statale, assolutamente non subalterna all’Occidente, non tributaria allo Stato che ne ha egemonizzato economia, cultura e politica e che aspira, con fiducia fomentata da risultati già conseguiti, a egemonizzare il mondo.

Ed era, forse, nell’attesa dell’occasione storica di poter riassumere tale Stimmung, il nemico individuato, misurato, scelto da chi ha lanciato la sfida primigenia e suprema per un soggetto nuovo sulla scena internazionale. Da tempo gli Usa covavano l’obiettivo di incrementare la propria potenza militare, per consolidare il potere imperiale di cui erano stati gratificati, ottenendo anche che fosse accettato questo ruolo con tutte le conseguenze che implicava sul piano della regolazione dei rapporti tra gli Stati e al loro interno. La propensione statunitense per la costruzione dello scudo spaziale, mai dismessa, cos’altro dimostra se non il disegno di disporre del sistema d’arma più adeguato al controllo del mondo? Quale occasione migliore che quella della sfida militare portata sul proprio territorio, sulla propria città-simbolo, sulla sede-monumento della sua potenza finanziaria e sul quartier generale della propria armata imperiale, per dimostrare agli altri Stati la necessità, per l’integrità di ciascuno e di tutti, di stringersi intorno allo Stato direttamente colpito come simbolo della sicurezza statale, esterna e interna? Quale occasione migliore per indicare nel pericolo del terrorismo la prova incontestabile della fondatezza della pretesa alla guida degli Stati nella lotta per la sicurezza del mondo con tutti i mezzi; intanto impegnando i propri, e chiedendo solidarietà, cooperazione, fedeltà alla causa comune, soprattutto alla guida dell’interesse comune?

Così, gli Stati Uniti d’America accettano la qualifica, il ruolo, la responsabilità di porsi come nemico. L’accettano, scegliendo la risposta militare alla sfida, dichiarando la guerra al terrorismo, chiamando vecchi (quelli della Nato sostanzialmente emarginata) e nuovi alleati a un’azione militare non formalizzata da Trattati, non irrigidita negli schemi tradizionali dei classici rapporti interstatali.

3. È ‘azione militare’ o ‘guerra’ la risposta degli Stati Uniti e dei suoi alleati al massacro dell’11 settembre? E questo massacro va qualificato come ‘aggressione‘ o come ‘atto criminale‘? Non si tratta di questione terminologica, ma di un’enorme questione giuridica, altamente politica, quindi. Si sapeva, dai giuristi, che, alla stregua di quanto l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva stabilito con una sua risoluzione del 1974, per ‘aggressione’ si dovesse intendere "l’invio da parte di uno Stato o in suo nome di bande o di gruppi armati, di forze irregolari o di mercenari che compiano atti di forza armata contro un altro Stato à". I tre attentati (alle Twin Towers e al Pentagono) e quello solo tentato con l’aereo precipitato in Pennsylvania non sono riferibili all’azione di qualche Stato e non sono stati perpetrati in nome di un qualche Stato. Non rientrano perciò nella definizione che ne diede l’Assemblea delle Nazioni Unite. Che Osama bin Laden, il maggiore indiziato di essere l’ispiratore, l’organizzatore degli attentati sia ospite dell’Afghanistan non qualifica questo Stato come colpevole di ‘aggressione’, ma, sulla base di un consolidato principio di diritto internazionale generale, solo come responsabile di aver tollerato la presenza nel proprio territorio di agenti che operano contro la sicurezza di altro Stato.

E allora, quid juris? Il Consiglio di sicurezza dell’Onu con la Risoluzione del 12 settembre, n. 1368, ha affermato che considera gli attacchi terroristici dell’11 settembre "come una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale". Ha poi chiesto "a tutti gli Stati di lavorare insieme con la massima urgenza per giudicare gli autori, gli organizzatori e i mandanti" sottolineando che "chi si assume la responsabilità di aiutare, sostenere e ospitare gli autori, gli organizzatori e i mandanti di questi atti dovrà rispondere delle proprie azioni" e ha chiesto "alla Comunità di raddoppiare i propri sforzi per prevenire ed eliminare gli atti terroristici anche attraverso una più stretta cooperazione e una piena applicazione delle convenzioni antiterroristiche internazionalià". Con la successiva Risoluzione del 28 settembre (n. 1373), nel chiedere a tutti gli Stati di prevenire e di reprimere il finanziamento del terrorismo riafferma "il diritto alla legittima difesa individuale e collettiva à".

Il contenuto di queste risoluzioni non sembra dubbio. Qualificare gli attacchi terroristici come "minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionale", richiedere "alla comunità internazionale di raddoppiare i propri sforzi per prevenire ed eliminare gli atti terroristici anche attraverso una più stretta cooperazione e una piena applicazione delle Convenzioni antiterroristiche à ", quindi (e forse soprattutto) con i mezzi ritenuti più adeguati, e riaffermando poi "il diritto naturale alla legittima difesa individuale e collettiva à" che l’Art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite riconosce per l’ipotesi che "abbia luogo un attacco armato" contro un suo membro, significa che il Consiglio di Sicurezza:

a. ha qualificato l’azione terroristica come "attacco armato" contro un suo membro, quindi non più come un crimine da perseguire sulla base del diritto penale interno degli Stati; b. ha legittimato quindi lo Stato che ha subìto l’azione terroristica a esercitare il diritto di autotutela che, nell’ordinamento internazionale contemporaneo, comporta quella che viene chiamata facultas bellandi, e che sarebbe il jus ad bellum tradizionale degradato, quanto alle ipotesi che ne rendono lecito l’esercizio, proprio alla legittima difesa, oltre che all’intervento autorizzato dalle Nazioni Unite e alla tutela contestuale di un diritto statale offeso; c. ha sostanzialmente e formalmente legittimato l’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan.

4. Avrebbe potuto l’Onu agire diversamente? Avrebbe certamente dovuto. Lo Statuto delle Nazioni Unite non può essere applicato spigolando tra i suoi articoli e scegliendo le disposizioni che più convengono alla superpotenza mondiale, applicando la stessa disposizione che riconosce il diritto all’autotutelaà a metà:à omettendo di considerare che tale diritto può essere esercitato "fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza" e che, alla stregua di quanto dispone l’Art. 42, esauriti gli interventi di autotutela solo "il Consiglio di Sicurezza può intraprendere con forze aeree, navali o terrestri quelle azioni che siano necessarie per mantenere e ristabilire la sicurezza internazionale". Invece no. E così l’Onu ha continuato a scivolare sul crinale dell’abdicazione e della delegittimazione senza alcun segno di resipiscenza.

È del tutto inutile, ormai, insistere sul merito del quesito. Ma l’abdicazione dell’Onu, questa volta, è rivelatrice di una crisi molto più profonda e molto più ampia. Senza precedenti e senza somiglianze è stata la situazione determinatasi con l’attacco al World Trade Center. L’eccezionalità la si è constatata nell’arma, nel bersaglio; nel luogo, nell’autore non dichiaratosi e immediatamente percepito; nella incommensurabilità delle due parti del conflitto, una rete di persone sparsa in più di sessanta paesi (secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa) e la superpotenza mondiale; nell’effetto immediato del conflitto instauratosi che coinvolge la globalità dei rapporti internazionali e interni agli Stati, e, direttamente o indirettamente, persone e territori, culture ed economie, concezioni del mondo anche se non riferibili alle parti in conflitto. E l’eccezionalità ha prodotto quel che sa produrre: decisioni. Quella di Bush di rispondere con la guerra, chiamata all’inizio addirittura crociata. Quelle dei singoli Stati, di partecipare a una guerra mai prima configurata. Dall’altro fronte non ci saranno certo comunicate le decisioni dell’organizzazione responsabile dell’attacco, ma nessuno si illude che non siano state adottate.

Sappiamo invece quali sono state le decisioni assunte all’interno dei singoli Stati. Da Bush con l’Order del 13 novembre che istituisce i tribunali militari per processare i sospetti di terrorismo che non siano cittadini americani e per i quali nessuna garanzia costituzionale, proprio nessuna, è prevista. Dal Congresso degli Stati Uniti, che, con la Uniting and Strengthening America by Providing Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism, ha eretto un mostruoso monumento alla compressione e alla restrizione dei diritti costituzionali, alla estensione delle facoltà di polizia, alla proliferazione delle ipotesi di reato dalla più estesa indeterminazione. Altre leggi ispirate alle stesse finalità sono in discussione al Congresso. Lo sono state alla Camera dei Comuni, all’Assemblea nazionale francese, al Bundestag, anche se meno drastiche ma egualmente preoccupanti. L’Occidente abbandona i suoi princìpi, alle libertà preferisce la sicurezza. Non era questa la ragion d’essere primigenia del soggetto-Stato?

Lo stato d’eccezione sta facendo riemergere un sovrano che sembrava definitivamente sepolto dal costituzionalismo. Ma il costituzionalismo non vive e non afferma le sue ragioni, che sono quelle della libertà, dell’eguaglianza, della frantumazione del potere nei diritti di ciascuno e di tutti su beni che possono essere solo di tutti, se non è assunto come obiettivo da un soggetto storico. I diritti fondamentali non sono cirri graziosi disegnati dalla ragione astratta nei celesti orizzonti dei popoli. Sono conquiste mai definitive la cui garanzia risiede, in ultima analisi, nelle forze sociali che le hanno imposte e che vogliono mantenerle. Nel ventesimo secolo, a rifondare socialmente il costituzionalismo, a rendere credibili i diritti di libertà, civili, e politici assicurando a essi, con i diritti sociali, l’universalità storicamente possibile negli ambiti nazionali, provvide il movimento operaio. La cui dispersione, la dissoluzione dei suoi strumenti politici ha privato le Carte dei diritti non soltanto della forza propulsiva ma anche di quella necessaria per garantirla. Perché tra l’effettività delle norme giuridiche e gli elementi che compongono l’egemonia, anche se parziale, anche se condivisa a seguito di un compromesso, c’è distinzione ma non c’è differenza.

[Roma, 13.12.2001]

Fonte: La Rivista