IL MCMONDO E I NO GLOBAL DOPO L'ATTACCO DELL'11 SETTEMBRE

BENJAMIN BARBER

 

SENZA dubbio gli attacchi terroristici dell'11 settembre hanno cambiato il mondo per sempre, ma non sono riusciti a cambiare in modo significativo né la posizione ideologica della destra né quella della sinistra. I guerrieri unilateralisti della destra continuano a sostenere che la guerra condotta da un'America eternamente sovrana sia l'unica risposta appropriata al terrorismo, la sinistra invece ripete che c'è bisogno d'internazionalismo, d'interdipendenza e d'un approccio ai mercati globali che raddrizzi gli squilibri economici rendendo l'estremismo meno accattivante anche se, in un'atmosfera di patriottismo bellico, lo fa in un tono più sommesso rispetto al passato. La lobby internazionalista può però a buon diritto alzare la voce, perché quello che è cambiato a seguito dell'11 settembre è la relazione tra queste argomentazioni e il realismo politico (e il suo contrario, l'idealismo politico). Prima dell'11 settembre la realpolitik apparteneva principalmente alla destra che sdegnava i discorsi sui diritti umani e la democrazia considerandoli utopie senza speranza, il blaterare d'idealisti romantici di sinistra che preferivano vedere il mondo come volevano che fosse, piuttosto che come era in realtà.

Dopo l'11 settembre però la tigre realista ha cambiato pelle: l'internazionalismo "idealista" è diventato il nuovo realismo. Non ci troviamo di fronte ad un cambio di paradigma, ma all'occupazione di un vecchio paradigma da parte di nuovi inquilini. I globalisti democratici sono all'improvviso i nuovi realisti, mentre il vecchio realismo, soprattutto nel suo abbraccio dei mercati, appare sempre più un dogma totalmente irrealistico e pericoloso, opaco alle nostre nuove realtà perché inciso brutalmente sulla coscienza nazionale dai demoniaci architetti dell'11 settembre. Il problema non è decidere se perseguire una strategia militare o civile, perché sono entrambe chiaramente necessarie, il problema è come portarle avanti.

La dottrina del realismo storico aveva il suo fondamento nella politica internazionale degli Stati sovrani che perseguivano i propri interessi nell'ambito di alleanze mutevoli in cui i principi potevano solo impedire il raggiungimento di obiettivi sovrani definiti e serviti solo dagli interessi. I sui mantra, gli stereotipi di Lord Acton, Henry Morgenthau, George Kennan o Henry Kissinger, recitavano che le nazioni non hanno amici o nemici permanenti, solo interessi permanenti; che i nemici dei nostri nemici sono sempre nostri amici; che seguire gli ideali democratici o i diritti umani può spesso confondere i nostri reali interessi; che coalizioni e alleanze in guerra o in pace sono accettabili solo nella misura in cui noi conserviamo la nostra indipendenza sovrana in tutte le decisioni e le politiche determinanti e che le istituzioni internazionali vanno abbracciate, ignorate o abbandonate a seconda di come servono i nostri interessi nazionali sovrani, completamente separabili dagli obiettivi di tali istituzioni.

Per quanto accattivanti possano suonare questi mantra, nelle circostanze attuali non si può più dire che essi rappresentino una strategia, nemmeno plausibile, figuriamoci realistica. Per capire il perché dobbiamo comprendere in che modo l'11 settembre ha messo una volta per tutte il punto finale alla vecchia storia dell'indipendenza americana.

Predoni dal cielo, dall'alto e dall'estero, ma anche dall'interno e dal basso, gente che dormiva in mezzo a noi e che in qualche modo sfruttava i poteri della nostra tecnologia per sconfiggere la nostra potenza, si è fatta beffa della nostra sovranità dimostrando che non c'era più differenza tra interno e esterno, tra nazionale e internazionale. Ancora non abbiamo nozione autorevole di chi precisamente stia dietro agli attacchi dell'11 settembre o al bioterrore che ne è seguito. Chiaro è solo che non possiamo più attribuire la colpevolezza nei termini netti del diciannovesimo secolo, nazionale e internazionale. Anche se possiamo ancora cercare padrini sovrani per atti terroristici che di padrini non ne hanno, il mito della nostra indipendenza è ormai insostenibile. A chi agisce senza essere uno stato, si tratti di imprese multinazionali o di cellule terroristiche dall'organizzazione imprecisa, non si applicano i concetti di interno o estero, nazionale o internazionale, non si tratta né di entità sovrane né di organizzazioni internazionali. Dichiarare la nostra indipendenza in un mondo di interdipendenza perversa e malevola appioppataci da gente che ci disprezza si avvicina molto a fare quello che i duri delle scienze politiche avrebbero definito pisciare contro vento.

Solo l'assalto di attentatori suicidi ha risvegliato la nazione alle nuove realtà e alle nuove istanze imposte alla politica dall'interdipendenza. Ecco perché, dopo l'11 settembre, quanto meno c'è stata una debole finta in direzione del multilateralismo e di costruire una coalizione. Si sono finalmente saldati i conti da tempo aperti con l'Onu, è stato consultato il Consiglio di Sicurezza e alcuni funzionari repubblicani hanno persino pronunciato sottovoce le terribili parole marchiate Clinton, costruire una nazione, come possibile esigenza all'interno di una strategia postbellica in Afghanistan.

Ma resta ancora molta strada da fare. Il realismo, nella sua nuova forma democratica, suggerisce che l'America deve iniziare ad impegnarsi in un'impresa lenta e erosiva della sua sovranità, quella di costruire un'interdipendenza collaborativa e benevola in cui gli Usa si uniscano al mondo, invece di esigere che il mondo si unisca a loro, pena essere relegato dalla parte dei terroristi ("O siete con noi o con i terroristi", salmodiò il presidente nei primi terribili giorni successivi all'11 settembre). Questo realismo ammette che se è vero che il terrorismo non ha giustificazioni, ha delle cause. Il vecchio realismo seguiva il vecchio adagio "Tout comprendre, c'est tout pardonner" e evitava di indagare le cause profonde della violenza e del terrore. Il nuovo realismo sostiene che comprendere l'astio collettivo non significa perdonarlo, ma far sì che possa essere affrontato, proibito e forse persino fatto sfociare preventivamente. Ragionare in termini di i "seme cattivo" da peccato originale, di "malvagi" rende i colpevoli invulnerabili, soggetti unicamente a una lotta manichea in cui l'alternativa alla vittoria totale è la sconfitta totale. Definire Bin Laden e i suoi "i malvagi" non è per forza sbagliato, ma ci consegna ad un mondo oscuro di jihad e controJihad (quella che il presidente inizialmente ha definito la sua crociata) in cui le istanze della democrazia, del rispetto civile, e della giustizia sociale, lasciando perdere sfumature, complessità e interdipendenza, semplicemente svaniscono. Si può odiare la jihad senza amare l'America. Si può condannare il terrore dandogli tutti i torti anche senza pensare che i bersagli del terrore abbiano tutte le ragioni.

Questa è la premessa alla tesi dell'interdipendenza. Il contesto di resistenza della Jihad e la sua patologia di terrorismo rappresentano un mondo complesso in cui sono presenti interrelazioni causali tra la reazione della Jihad alla modernità e il ruolo americano nel dare forma a quest'ultima secondo la logica particolare della tecnologia Usa, dei mercati e della cultura pop all'insegna del marchio (quello che chiamo "McMondo"). Stabilire rapporti e collegamenti non è la stessa cosa che distribuire colpe. Il potere conferisce responsabilità. Il potere di cui godono gli Stati uniti pone loro l'obbligo di affrontare condizioni che possono anche non aver direttamente creato. In questa prospettiva la Jihad potrebbe crescere a dismisura e riflettere (tra l'altro) una metastasi patologica di giustificato malcontento circa gli effetti di un arrogante materialismo laico che rappresenta la sfortunata concomitanza dell'espansione del consumismo nel mondo. Potrebbe riflettere una preoccupazione dagli esiti distruttivi circa l'integrità delle tradizioni culturali indigene, mal equipaggiate a difendersi dall'aggressività dei mercati in un mondo di libero commercio. Potrebbe riflettere una lotta per la giustizia in cui i mercati occidentali sembrano ostacolare, piuttosto che facilitare il mantenimento dell'identità culturale.

Riuscirà il thè asiatico, e quella che è la cultura religiosa e familiare che ne accompagna il rito, a sopravvivere all'assalto della commercializzazione globale della CocaCola? Il pranzo in famiglia sopravvivrà al fast food, puntato al consumatore singolo, con abitudini alimentari da rifornimento di carburante, che si nutre a spuntini? Riusciranno le culture cinematografiche nazionali di paesi come il Messico, la Francia o l'India a sopravvivere ai colossal di Hollywood tarati sui gusti universali dei teen agers, radicati nella violenza e nel facile sentimentalismo? Dov'è lo spazio per la preghiera, per i riti religiosi comuni, per i beni spirituali e culturali in un mondo in cui l'economia globale gira grazie alla commercializzazione di beni materiali. Quei milioni di famiglie di Cristiani Americani che scelgono per i loro figli l'istruzione a domicilio, perché spaventati dalla cultura commerciale e violenta che aspetta i ragazzi fuori dalla porta di casa, non sono forse altro che Taliban americani? E i cosmopoliti laici delle città costiere americane si accontentano di essere nutriti dallo schermo, dagli onnipresenti computer, dalle tv e dai multisala?

Il terrore ovviamente non è una risposta, ma chi è davvero disperato può accontentarsi anche del terrore, in risposta al fatto che non riusciamo neppure a porci queste domande. Per i guerrieri annientatori della Jihad la questione si pone naturalmente oltre questi timori: implica devozione assoluta a valori assoluti. Eppure molti che inorridiscono di fronte al terrorismo ma restano indifferenti all'America, potrebbero vedere una dimensione assolutista nelle aspirazioni materialiste dei nostri mercati. La nostra cultura del mercato globale a noi appare sia volontaria che salutare, ma ad altri può sembrare sia forzata (nel senso di obbligatoria) che corrotta, non precisamente coercitiva, ma capace di sedurre i bambini introducendoli ad un materialismo laico determinato ma corrosivo. Che cosa c'è di male in Dysneyland e nelle Nike? Non facciamo altro che "dare alla gente quello che vuole". Ma questo sogno commerciale è una forma di romanticismo, l'idealismo dei mercati neoliberali, il comodo idillio secondo cui l'abbondanza materiale può soddisfare il desiderio spirituale così che la caccia al profitto può diventare sinonimo di conquista della libertà.

È il nuovo realista democratico ad accorgersi che se l'unica scelta che abbiamo è quella tra i mullah e i centri commerciali, tra l'egemonia dell'assolutismo religioso e quella del determinismo del mercato, né la libertà né lo spirito umano possono prosperare. Considerando i costi sia del terrorismo fondamentalista che del combatterlo, non dovremmo forse chiederci come mai quando vediamo che la religione colonizza qualunque altro campo della vita umana la chiamiamo teocrazia e sentiamo puzza di tirannia e quando vediamo che la politica colonizza ogni altro campo della vita umana la chiamiamo assolutismo e tremiamo alla prospettiva del totalitarismo, ma quando vediamo che le relazioni di mercato e il consumismo commerciale tentano di colonizzare ogni altro campo della vita umana li chiamiamo libertà e celebriamo il loro trionfo?

Ci sono troppi John Walkers che iniziano cercando rifugio dall'aggressivo materialismo laico delle loro vite di periferia e finiscono per scivolare nell'oscuro complotto di qualcun altro per distruggere il cuore degli infedeli materialisti. Se uomini così sono anche poveri e disperati, diventano eccellenti reclute per la Jihad. L'unica guerra che valga la pena di combattere è la lotta per la democrazia. L'insegnamento del novo realismo è che solo una lotta simile ha possibilità di sconfiggere i nichilisti radicali. È una buona notizia per i progressisti, perché esistono davvero delle opzioni per i realisti democratici in cerca di strategie civiche che affrontino i mali della globalizzazione e le insicurezze dei milioni di fedeli fondamentalisti che non sono né volontari consumatori della cultura commerciale occidentale, né volontari difensori del terrore jihadico. Ben prima delle calamità dell'11 settembre si intravedeva un significativo spostamento in direzione di un'interdipendenza costruttiva e realistica, ad iniziare dai movimenti dei Verdi e a sostegno dei diritti umani negli Anni '60 e '70, continuando con le Ong e i movimenti No Global degli ultimi anni.

Il giubileo del 2000 è riuscito a ridurre fino al 30 per cento i pagamenti di alcune nazioni in restituzione del debito del terzo mondo mentre la Comunità dei Democratici, avviata dal Dipartimento di Stato sotto Madeleine Albright è stata abbracciata dall'amministrazione Bush e continuerà a finanziare gli incontri tra governi democratici e organizzazioni non governative democratiche. Gruppi a favore di una riforma economica internazionale, come ad esempio il progetto per lo sviluppo degli obbiettivi del Millennium Summit, fondato dalle Nazioni Unite per dare risposta alla povertà, all'analfabetismo e alla malattia globali, come Inter Action, che punta ad aumentare gli aiuti stranieri, Global Leadership, una nuova alleanza tra imprese e organizzazioni di base, la commissione Zedillo, che sollecita i paesi ricchi a devolvere lo 0,7 per cento del loro Pil agli aiuti allo sviluppo (contro lo 0,2 per cento attuale, e lo 0,1 per cento degli Usa), stanno facendo di una seria riforma economica un tema per i governi.

È solo un inizio, e senza il sostegno esplicito di un governo americano con una mentalità più civica, queste istituzioni difficilmente riusciranno a dare nuova forma alle relazioni globali. Ci troviamo in una fase embrionale della nostra storia, una fase in cui un trauma spalanca la possibilità di nuove forme di azione. L'utopia di ieri è il realismo di oggi, il realismo di ieri la ricetta per la catastrofe di domani. Questo è il momento della democrazia, se mai ce n'è stato uno. Se il nostro governo saprà coglierlo non dipende da George Bush, ma da noi.

@AR~Tondo:Traduzione di Emilia Benghi

Fonte: Repubblica 29/1/2002