La
missione di ripulire il mondo
Esportare
Rony Brauman
Dopo la
caduta del muro di Berlino il diritto d'ingerenza
umanitaria è stato invocato spesso per giustificare interventi militari
occidentali, tanto che Colin Powell,
già segretario di stato americano, considerava le organizzazioni non
governative come «una parte importantissima della nostra squadra di
combattimento». Ecco che ritorna il vecchio discorso
coloniale sulla «missione civilizzatrice».
«Il paese
che ha proclamato i diritti dell'uomo, che ha contribuito brillantemente al
progresso delle scienze, che ha introdotto
l'insegnamento laico, che davanti alle nazioni è il grande campione della
libertà, ha (...) la missione di diffondere ovunque possibile le idee che hanno
fatto la sua grandezza. Dobbiamo considerarci investiti del mandato di
istruire, elevare, emancipare, arricchire e soccorrere i popoli che hanno
bisogno della nostra collaborazione (1)».
Queste
parole, scritte dal radicale Albert Bayet nel
Per
questa corrente umanista, la colonizzazione era fonte di benefici e di elevazione dei costumi: quindi un obbligo di coscienza,
in ragione dell'evidente superiorità della società colonizzatrice sui popoli
colonizzati. Tre secoli prima, ai tempi della conquista dell'America, il potere
dei conquistatori faceva appello alla cristianizzazione
piuttosto che alla modernizzazione, ma sempre insistendo «sui benefici portati
dagli spagnoli a quelle contrade selvagge». E non è
raro trovare testi in cui si dà credito agli spagnoli di aver «soppresso
pratiche barbariche quali i sacrifici umani, il cannibalismo, la poligamia e
l'omosessualità, per portare in quelle terre il cristianesimo e gli usi e
costumi europei, oltre a diversi utensili e animali domestici (2)». Bartolomeo
de Las Casas, prete domenicano difensore degli indios, che ha descritto in maniera particolareggiata i
disastri della Conquista e condannato lo schiavismo e i trattamenti crudeli, ha però difeso la colonizzazione, che a suo parere avrebbe
dovuto essere affidata non ai soldati ma ai religiosi. La fondazione della
Croce rossa - invenzione della moderna azione umanitaria - mostra chiaramente
come a quei tempi non si avvertissero contraddizioni
tra aspirazioni umanitarie e progetto coloniale. In Francia, l'era
dell'imperialismo coloniale si apre alla fine degli anni 1850, quando sta per
essere adottata
Gustave
Moynier, suo primo presidente, riteneva che la Croce
rossa fosse «ispirata alla morale evangelica»; ma al
tempo stesso, come la maggior parte dei suoi contemporanei, vedeva i popoli
colonizzati come antitetici alle nazioni civili. «La compassione - scriveva - è
sconosciuta a queste tribù selvagge che praticano il cannibalismo.
(...)
Per loro è un concetto talmente estraneo che la loro lingua non possiede una
parola per esprimerlo. (...) I popoli selvaggi (...)
fanno [la guerra] a oltranza, e si abbandonano senza ambagi ai loro istinti
brutali; mentre le nazioni civili, per il fatto stesso di cercare di
umanizzarla, confessano che quanto vi accade non è sempre lecito (3)». E inoltre, in L'Afrique explorée et civilisée,
afferma: «La razza bianca deve risarcire la razza nera
(...) e consentirle di beneficiare dei mezzi di cui dispone la civiltà moderna
per migliorare la propria sorte in maniera conforme ai voti della provvidenza».
Certo,
oggi nessuna Ong con fini di
solidarietà o di difesa dei diritti umani sarebbe disposta a sottoscrivere una
dichiarazione del genere.
Peraltro,
il più delle volte gli operatori delle organizzazioni di aiuti
internazionali sono reclutati tra i detrattori del colonialismo.
Ma le
pratiche di coloro che si percepiscono come agenti dello sviluppo
sono una chiara dimostrazione di quanto lo spirito della «missione di civiltà»
sopravviva alla scomparsa dell'imperialismo coloniale.
Secondo
la definizione di Jean-Pierre Olivier
de Sardan, la legittimazione di gran parte degli
aiuti internazionali si fonda su due categorie strettamente legate tra loro: il
paradigma «altruista» e quello «modernizzatore» (4).
Nei discorsi e nelle prassi di numerosi organismi - dalla Banca mondiale alle
Nazioni unite e alle Ong - questi due concetti si
ritrovano costantemente, sia pure in proporzione variabile, a
seconda dei casi e in funzione dei dati locali del mercato degli aiuti.
Peraltro,
la stessa definizione di aiuti allo sviluppo
reintroduce, in nome della solidarietà, le categorie gerarchiche ereditate dal
passato. E come potrebbe non essere così, visto che è oramai
consacrata - sia pure per le ragioni più lodevoli - la contrapposizione
tra «sviluppato» e «sottosviluppato», declinabile in numerose varianti più o
meno eufemistiche? I parametri economici in base ai quali si definiscono i
«paesi meno avanzati», così come i criteri antropologici adottati per indicare
l'«arretratezza» di certe popolazioni, appartengono invariabilmente al
vocabolario degli stati dominanti. Come la contrapposizione tra società
«tradizionali» e società «moderne», riferita alle dicotomie, care al pensiero
coloniale, tra comunità e individuo, tradizione e innovazione, solidarietà e
concorrenza, clientele e buona amministrazione.
«Evangelizzazione
sanitaria» Da decenni, migliaia di programmi di aiuti,
soprattutto nel campo delle tecniche agricole e delle campagne sanitarie, si
fondano sulla partecipazione e mobilitazione di introvabili «comunità» rurali.
Nel
migliore dei casi, questo immaginario esotico di una
società omogenea fondata sulla condivisione suscita nelle persone che ne sono
oggetto una cortese indifferenza, e nel peggiore un netto rifiuto.
Lo
dimostra ad esempio uno studio su un programma di aiuti
alla Cambogia: «Quando nei villaggi qualcuno arrivato da fuori comincia a
parlare di sviluppo comunitario, come viene compreso
dagli abitanti? Probabilmente i visitatori avranno esordito spiegando (...):
"Quello che vi chiediamo è di cooperare, di lavorare insieme". Ma a queste parole gli abitanti dei villaggi spalancano gli
occhi e chiedono, sconvolti: "Non avrete mica intenzione di riportarci
all'epoca di Pol Pot?" (5)».
Lo stesso
schema della «comunità», chimera onnipresente nelle raccomandazioni degli
esperti dell'Onu come nei discorsi dei volontari
delle Ong, si apparenta in qualche modo alle
rappresentazioni coloniali. Connotato dalla contrapposizione tra «loro» e «noi»,
tra ritardo e progresso, questo schema istituisce di fatto
gruppi di indigeni poveri, definiti da carenze e rischi specifici, che
coincidono precisamente con gli obiettivi dei programmi di aiuti. Per
definizione, la comunità parla il linguaggio dei «bisogni», proprio perché è
stata costruita sulla base e in funzione di quei bisogni, delle carenze che la mettono in pericolo. Carenze
che saranno colmate dai rappresentanti degli organismi di aiuto, venuti a
salvarla dalle sue debolezze.
Un campo
d'applicazione privilegiato per questa invadente
sollecitudine è fornito dai cosiddetti programmi per
Come dimostra l'esempio dell'inchiesta cambogiana sopra menzionata, gli
educatori tendono spesso a deplorare il peso delle tradizioni.
Ma solo
pochi si rendono conto che se non fosse per
l'imbarazzo, e soprattutto per le regole di cortesia e di ospitalità,
andrebbero incontro a reazioni molto brusche, data la rozzezza delle loro
intrusioni (8). Convinti di essere portatori di un
sapere liberatorio, non percepiscono il carattere offensivo dei loro
insegnamenti, che violano l'altrui intimità. La confusione tra pulizia, salute
e normalità da un lato, e sporcizia e malattia dall'altro, è la tipica
connotazione delle campagne di quest'evangelizzazione sanitaria, versione attualizzata della
«missione di civiltà» dell'Europa. Si ritiene che questi popoli
«sottosviluppati» debbano essere condotti da nuovi tutori alla maturità
sociale, traghettati verso il benessere e il progresso, destati alla coscienza
dei loro interessi da pastori che impongono la loro autorità nel segno della
lotta contro il «pericolo fecale».
Gli aiuti
e la cooperazione internazionale non sono certo
prigionieri di questa divisione tra pecore a pastori, e il loro ruolo non si
limita alla diffusione della buona parola. Al di là delle
operazioni di soccorso che portano avanti, le Ong e
l'Onu giocano ormai un ruolo nel dibattito pubblico,
e contribuiscono a produrre nuove regole nello spazio politico mondiale. E in
questo modo divengono espressione di un movimento di fondo,
che può essere inteso come un arricchimento della democrazia in senso
partecipativo, nel momento stesso in cui le sue tradizionali forme elettive
sembrano esaurirsi, almeno nei paesi di più antica democratizzazione.
Ma
questa nuova legittimità, così come la popolarità che la sostiene, non è priva
di conseguenze. È stata utilizzata più volte, ad esempio, dal governo americano,
per presentare sotto una luce più favorevole le sue imprese belliche dopo gli
attentati dell'11 settembre.
«Vorrei
poter essere realmente certo - ha detto Colin Powell nell'ottobre 2001 - che abbiamo le migliori
relazioni con le Ong, tanto importanti per noi come
moltiplicatori di forze. Esse rappresentano una parte importantissima del
nostro assetto di combattimento (...) Siamo infatti
tutti impegnati nel perseguimento di uno stesso, unico obiettivo: quello di
aiutare l'umanità, di aiutare chiunque nel mondo si trovi nel bisogno o soffra
la fame (...) per dare a tutti la possibilità di sognare un futuro più radioso
(9)». Al di là del suo aspetto opportunista, questa
professione di fede è indubbiamente sincera. Di fatto, le Ong
non sono proprietarie o depositarie esclusive dei valori che promuovono. Ma è proprio questo il problema. Sono ormai innumerevoli le
organizzazioni impegnate a rendere operanti e a rafforzare una serie di
diritti, concepiti come valori: il diritto alla salute, all'educazione e allo
sviluppo, i diritti del bambino, i diritti delle
donne. Secondo la tesi di Hugo Slim,
direttore degli Studi presso l'Institute for Humanitarian Dialogue, visto che i valori di queste organizzazioni
«traducono la loro visione di una società moralmente giusta», esse dovrebbero logicamente sostenere la coalizione militare che
li incarna (10).
Più
chiaro di così! Certo, esiste una differenza non di poco conto tra l'intrusione
nel privato delle case in nome della salute, e l'ingerenza armata in nome dei
valori superiori dell'umanità; ma è evidente che l'una e l'altra rispondono a un principio unitario. In entrambi i casi si fa riferimento a una posizione d'avanguardia, all'impegno di
emancipare altri popoli da tradizioni o sistemi politici arcaici.
Come dimostra
la posizione di chi in Francia afferma il «diritto all'ingerenza umanitaria»,
schierandosi in favore dell'invasione dell'Iraq.
note:
* Cofondatore di «Médecins sans
frontières». Quest'articolo è un capitolo
di La fracture coloniale, la société française au prisme de l'héritage
colonial, opera collettiva
a cura di Pascal Blanchard, Nicolas Bancel e Sandrine
Lemaire, La Découverte, in libreria dal 15 settembre.
(1)
Citato da Charles-Robert Ageron,
France coloniale ou parti colonial, Puf, Parigi, 1978.
(2) Tzvetan Todorov, La conquista
dell'America. Il problema dell'altro,
Einaudi, 1997.
(3) Citato da Alain Destexhe, L'Humanitaire impossible ou deux siècles
d'ambiguïté, Armand Colin, Parigi, 1993.
(4) Jean-Pierre Olivier de Sardan,
Anthropologie et développement.
Essai en socio-anthropologie du
changement social, Karthala, Parigi,
1997.
(5) Soisick Crochet, «Cet
obscur objet du désir», in Rony Brauman
(a cura di), Utopies sanitaires, Le Pommier/Médecins sans frontières, Parigi, 2002.
(6) Voir Claude de Ville de Goyet,
«Stop propagating disasters
myths», The Lancet, vol. 356, agosto 2000,
http://pdm.medicine.wisc.edu/degoyet.htm.
(7) Georges Vigarello, Le
Propre et le Sale. L'hygiène du corps depuis le Moyen Age, Seuil, Parigi, 1987.
(8) Soisick Crochet, «Cet
obscur objet du désir», op. cit.
(9)
Conferenza tenuta a Washington, 26 ottobre 2001.
(10) Libération, 26 dicembre 2004.
Fonte: Le
Monde Diplomatique 09/2005