SENZA DIRITTO E CON LA FORZA
Il mondo perfetto, secondo Washington
Noam Chomsky
La guerra in Iraq non è finita. Negli Stati uniti il presidente Bush ha dovuto ammettere che le sue accuse contro Baghdad, a proposito di acquisti di uranio dalla Nigeria, erano false. In Gran Bretagna, il futuro del primo ministro appare più fragile, dopo il suicidio di David Kelly, che aveva denunciato le "esagerazioni" introdotte da Blair nel dossier sull'Iraq. Poco alla volta, il pubblico viene a conoscenza delle "bugie di stato" dei dirigenti della "coalizione". In Iraq, poi, si moltiplicano gli attacchi contro le forze di occupazione americane che subiscono quotidiane perdite. Il governo, messo in piedi dall'amministrazione diretta da Paul Bremer, non sembra in grado di far uscire il paese dal caos.
Noam Chomsky
Il settembre 2002 è stato segnato da eventi importanti e strettamente connessi tra loro. Da un lato, gli Stati uniti, la nazione più potente nella storia dell'umanità, hanno inaugurato una nuova strategia di sicurezza nazionale (1), dichiarando di voler mantenere la loro egemonia mondiale in modo permanente e di essere intenzionati a reagire a qualsiasi sfida con la forza, terreno sul quale, dalla fine della guerra fredda, non hanno rivali. Dall'altro lato, nel momento stesso in cui questa scelta politica veniva resa pubblica, i tamburi di guerra si mettevano in moto per preparare il mondo all'invasione dell'Iraq.
La nuova "strategia imperiale", come è stata immediatamente definita dalle più importanti riviste istituzionali, fa degli Stati uniti uno "stato revisionista, che cerca di utilizzare al massimo i suoi momentanei privilegi nel quadro di un ordine mondiale di cui detiene le redini".
In questo "mondo unipolare (...), nessuno stato e nessuna coalizione può contestare" all'America il suo ruolo "di leader, protettore e gendarme mondiale (2)". John Ikenberry, autore di queste citazioni, cercava di segnalare i pericoli che una tale scelta politica avrebbe comportato per gli stessi Stati uniti. Non è stato il solo a opporsi con fermezza a un tale disegno imperiale.
A livello internazionale, sono bastati pochi mesi perché la paura nei confronti degli Stati uniti e la diffidenza verso i suoi dirigenti politici raggiungessero vette mai toccate prima. Un'inchiesta internazionale, realizzata da Gallup nel dicembre 2002, e praticamente ignorata dai media americani, ha rivelato che il progetto di una guerra contro l'Iraq condotta "unilateralmente dall'America e dai suoi alleati" non incontrava pressoché alcun sostegno (3).
Bush intanto faceva sapere alle Nazioni unite che potevano rendersi "pertinenti" solo approvando i piani di Washington. Altrimenti avrebbero dovuto rassegnarsi a non essere altro che una sede di dibattito.
A Davos, il "moderato" Colin Powell informava i partecipanti al Forum economico mondiale, anch'essi contrari ai progetti bellicosi della Casa bianca, che gli Stati uniti avevano il "sovrano diritto di intraprendere un'azione militare". E precisava: "Ogni volta che saremo convinti di qualcosa, indicheremo la strada (4)". E poco importa se poi nessuno segue.
Alla vigilia della guerra, nel corso del vertice delle Azzorre, George W. Bush e Anthony Blair decidevano di mostrare il proprio disprezzo nei confronti del diritto e delle istituzioni internazionali. Il loro ultimatum, infatti, non si rivolgeva all'Iraq, ma alle Nazioni unite: capitolate, dicevano in sostanza, o condurremo quest'invasione senza preoccuparci della vostra insignificante approvazione. E lo faremo, sia che Saddam Hussein e la sua famiglia lascino il paese, sia nel caso contrario (5).
Il presidente Bush proclamava poi che gli Stati uniti disponevano "del potere sovrano di utilizzare la forza per garantire la propria sicurezza nazionale". La Casa Bianca, tuttavia, si diceva disposta a fare dell'Iraq una "vetrina araba", non appena la potenza americana si fosse saldamente installata nel cuore della regione che è la massima produttrice di energia del mondo. Una democrazia formale non avrebbe posto alcun problema, ma a condizione di garantire un regime sottomesso, come quelli che Washington reclama nel suo cortile di casa.
La "strategia imperiale" del settembre 2002 autorizzava gli Stati uniti anche a lanciare una "guerra preventiva". Preventiva e non anticipata (6). Perché si trattava di legittimare la distruzione di una minaccia non ancora materializzatasi, forse immaginata o anche inventata. La guerra preventiva non ha niente di diverso dal "crimine supremo" condannato a Norimberga.
È ciò che hanno subito capito quanti, negli Stati uniti, hanno a cuore la sorte del proprio paese. Così, quando la coalizione ha invaso l'Iraq, lo storico Arthur Schlesinger ha sostenuto che la strategia imperiale del presidente Bush era "terribilmente simile alla politica condotta dal Giappone imperiale al momento di Pearl Harbor. Un giorno: "per sempre segnato col marchio dell'infamia", come aveva dichiarato all'epoca un altro presidente americano (7)". Nessuno stupore, aggiungeva Schlesinger, se "l'ondata internazionale di simpatia che ha sostenuto gli Stati uniti dopo l'11 settembre 2001, ha ceduto il posto a un'ondata mondiale di odio di fronte all'arroganza e al militarismo americano".
E all'idea che il presidente americano rappresenti "una minaccia per la pace più grave dello stesso Saddam Hussein".
A Washington, l'"ondata mondiale di odio" non ha posto alcun problema particolare. La scelta prioritaria era essere temuti, non amati.
Ed è stato con grande naturalezza che il segretario di stato alla difesa, Donald Rumsfeld, ha fatto sue le parole del gangster Al Capone: "Si ottiene di più con una parola gentile e un fucile, che con una parola gentile e nient'altro". I dirigenti americani sapevano anche che il loro comportamento avrebbe aumentato il rischio del terrorismo e quello di un proliferare delle armi di distruzione di massa. Ma la realizzazione di determinati obiettivi è per loro più importante di rischi di questo tipo. Essi mirano, infatti, da un lato ad instaurare l'egemonia degli Stati uniti nel mondo, e dall'altro, sul piano interno, ad attuare un programma che smantelli le conquiste progressiste strappate dalle lotte popolari nel corso del XX secolo. Meglio ancora, debbono riuscire a istituzionalizzare questa contro-rivoluzione per renderla permanente.
Una potenza egemonica non può accontentarsi di proclamare la sua politica ufficiale, deve imporla come nuova norma delle relazioni internazionali. Eminenti commentatori spiegheranno poi che la regola è flessibile quanto basta affinché la nuova normativa serva senz'altro da modello e sia applicabile immediatamente. Ma solo coloro che possiedono le armi possono fissare le "regole" e modificare così a loro piacimento il diritto internazionale.
Nella nuova dottrina americana, è necessario che il bersaglio scelto dagli Stati uniti risponda a diversi criteri. Deve essere indifendibile, abbastanza importante da giustificarne l'interesse, e apparire non solo come una "minaccia mortale", ma addirittura il "male assoluto".
L'Iraq rispondeva perfettamente a questi requisiti, e in particolare alle due prime condizioni. Quanto alle altre, basta ricordare le omelie di Bush, Blair e dei loro compari: il dittatore: "ammassa le armi più pericolose al mondo [per] sottomettere, intimidire o aggredire". Armi che ha "già utilizzato contro interi villaggi facendo migliaia di morti, feriti e handicappati tra i propri cittadini.
[...] Se questo non è il male, allora il termine non ha più senso".
Pronunciata dal presidente Bush, l'efficace requisitoria suona giusta; coloro che contribuiscono al male non debbono restare impuniti. Ma tra questi ultimi vanno necessariamente inseriti anche l'autore dei nobili propositi, alcuni dei suoi attuali accoliti e quanti si sono associati a loro nel sostenere, tutti insieme, l'incarnazione del male assoluto, quando questo, già da tempo, aveva compiuto la maggior parte dei suoi terribili misfatti. Infatti, allorquando ribadivano in continuazione le atrocità compiute dal mostro Saddam Hussein, i dirigenti occidentali tacevano un'informazione cruciale: questi crimini erano stati compiuti con il loro appoggio, perché si trattava di azioni che in fondo li lasciavano indifferenti. Il sostegno si era poi trasformato in condanna non appena l'amico di ieri aveva commesso il suo primo vero delitto, quello di disubbidire (o forse, di mal interpretare gli ordini) invadendo il Kuwait. La sanzione fu terribile... per i sudditi. Il tiranno, personalmente, ne uscì indenne, anzi fu addirittura rafforzato dalle sanzioni imposte dagli ex protettori.
Washington rinnovò il suo sostegno a Saddam Hussein subito dopo la prima guerra del Golfo, quando il dittatore schiacciò le rivolte che forse avrebbero potuto rovesciarlo. Thomas Friedman spiegò all'epoca nel New York Times che agli occhi della Casa bianca, "il migliore dei mondi" sarebbe stato "una giunta irachena forte senza Saddam Hussein (8)". Siccome però l'obiettivo appariva irraggiungibile, bisognava accontentarsi della seconda possibilità. I ribelli, dunque, furono abbandonati una volta che Washington e i suoi alleati si ritrovarono "sorprendentemente unanimi nel valutare che, quali che fossero i peccati del dirigente iracheno, questi offriva all'Occidente e alla regione una garanzia di stabilità maggiore rispetto a coloro che avevano subito la sua repressione (9)". Tutto ciò è ignorato nei commenti a proposito delle fosse comuni contenenti quelle vittime del terrore utili oggi a giustificare la guerra. "Da un punto di vista morale" secondo Thomas Friedman (10).
La popolazione americana, non convinta, esitava: la si è fatta allora precipitare in uno stato di furore bellicoso. Fin dall'inizio del settembre 2002, è iniziato un bombardamento di notizie terrificanti, sia sulla minaccia imminente rappresentata da Saddam Hussein per gli Stati uniti, che sui suoi legami con al Qaeda, legami che suggerivano un'implicazione del regime iracheno negli attentati dell'11 settembre 2001. La maggior parte delle prove "proposte non potevano che provocare l'ilarità generale", come ha scritto la direttrice del Bulletin of Atomic Scientists, "ma più erano ridicole, più i media si davano da fare nel presentare come indice di patriottismo la nostra disponibilità a berle (11)." L'assalto raggiunge lo scopo. La maggioranza degli americani comincia a pensare che Saddam Hussein rappresenti una "minaccia imminente" per gli Stati uniti. Presto, quasi la metà di queste persone si convince che l'Iraq abbia contribuito agli attentati dell'11 settembre. Il sostegno alla guerra è ormai una logica conseguenza. E la campagna di propaganda si dimostra sufficiente per offrire all'amministrazione Bush una sia pur risicata maggioranza alle elezioni di metà mandato.
Gli elettori scelgono di mettere da parte le proprie preoccupazioni, per cercare rifugio sotto l'ala del potere contro il nemico demoniaco...
Il 1° maggio 2003, sul ponte della portaerei Abraham Lincoln, il presidente Bush organizza uno spettacolo per festeggiare la fine della guerra di sei settimane. Dichiara di aver appena riportato una "vittoria nella guerra contro il terrorismo [avendo] soppresso un alleato di al Qaeda (12)". In realtà non è stata prodotta nessuna prova che dimostri un legame tra Saddam Hussein e il suo nemico accertato Osama bin Laden. Quanto al solo effetto indiscutibile di questa "vittoria contro il terrorismo", l'invasione e l'occupazione dell'Iraq, un responsabile americano ammette che sembra aver provocato innanzi tutto un "importante passo indietro nella "guerra contro il terrorismo"", facendo aumentare il numero dei candidati al reclutamento nei ranghi di al Qaeda (13).
Per il Wall Street Journal, lo show sul ponte dell'Abraham Lincoln "segna il lancio della campagna per la rielezione nel 2004". La Casa bianca spera che "sia centrata, per quanto possibile, sui temi della sicurezza nazionale (14)". Prima delle elezioni legislative del 2002, Karl Rove, consigliere elettorale di Bush, aveva già chiesto ai militanti repubblicani di focalizzarsi sulle questioni della sicurezza, per fare dimenticare agli elettori la impopolare politica interna della Casa bianca. Vent'anni prima, il presidente Ronald Reagan si era mosso allo stesso modo; l'invasione di Grenada nel 1983 era servita alla sua rielezione l'anno seguente...
Malgrado qualche successo, l'intensa campagna propagandistica non è riuscita a spostare l'opinione pubblica su alcune questioni di fondo. Gli americani continuano a preferire che le crisi internazionali siano gestite dalle Nazioni unite più che da Washington e i due terzi di loro ritiene che sia compito dell'Onu - e non degli Stati uniti - farsi carico della ricostruzione dell'Iraq (15).
Poiché l'esercito di occupazione non ha scoperto le famose armi di distruzione di massa, la posizione dell'amministrazione è passata dalla "certezza assoluta" che l'Iraq le detenesse, all'idea che le accuse lanciate fossero "giustificate dalla scoperta di attrezzature potenzialmente suscettibili di servire a fabbricare armi (16)." Responsabili di alto livello hanno allora proposto un "aggiustamento" del concetto di guerra preventiva che autorizza gli Stati uniti ad attaccare "un paese che possiede armi mortali in grande quantità". La modifica "propone che l'amministrazione americana agisca contro ogni regime ostile sospettato di volere e potere produrle (17)". Così, la principale conseguenza dell'infondatezza delle accuse invocate per giustificare l'invasione sarà l'allargamento dei criteri che autorizzano il ricorso alla forza.
Il più grande successo della campagna propagandistica americana è stato però il concerto di lodi per la "visione" presidenziale, quando Bush ha affermato di voler portare la democrazia in Medio oriente, nel momento stesso in cui dimostrava, nei fatti, il suo più totale disprezzo per questo concetto. Non si può infatti spiegare in altro modo la distinzione fatta da Rumsfeld tra "vecchia Europa" e "nuova Europa" - la prima vilipesa, la seconda lodata per il suo coraggio.
Per distinguerle, il criterio è chiaro: la "vecchia Europa" comprende tutti gli stati che hanno adottato la stessa posizione della maggioranza dei loro cittadini, la "nuova Europa" invece prende ordini a Crawford (Texas), senza preoccuparsi della propria opinione pubblica, spesso ancor più contraria alla guerra di quella degli altri paesi.
Sul versante democratico del panorama politico americano, si è trovato anche chi, come Richard Holbrooke, a suo tempo segretario di stato aggiunto nell'amministrazione Clinton, ha insistito su un "dato veramente importante": la popolazione degli otto membri della "nuova Europa" è più numerosa di quella della "vecchia Europa". Il che, secondo lui, prova che Francia e Germania sono "isolate". Di fatto, per sostenere il contrario, si sarebbe dovuto cedere a quell'eresia sinistrorsa secondo cui l'opinione del popolo svolge ancora un ruolo in democrazia.
Dal canto suo, l'editorialista del New York Times, Thomas Friedman, chiedeva a gran voce che la Francia fosse privata del suo seggio di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Si era infatti comportata come un bambino "all'asilo infantile" e "non sapeva giocare con gli altri (18)". A giudicare dai sondaggi, però, neanche i popoli della "nuova Europa" sarebbero ancora usciti dall'asilo.
Il caso della Turchia è stato ancora più istruttivo. Il governo di questo paese ha resistito alle insistenti pressioni degli Stati uniti affinché desse prova delle "sue inclinazioni democratiche" obbedendo agli ordini di Washington, senza preoccuparsi dell'opinione del 95% della sua popolazione. La sua caparbia indisponibilità ha reso gli osservatori politici americani così furiosi, che alcuni sono andati addirittura a rivangare i crimini commessi da Ankara contro i curdi nel 1990 - un argomento prima tabù, a causa del ruolo complice giocato dagli Stati uniti nella repressione. Ruolo che tuttavia è stato scrupolosamente passato sotto silenzio.
Paul Wolfowitz, segretario aggiunto alla difesa, ha dato la chiave di lettura della nuova dottrina americana. Ha infatti accusato l'esercito turco di "non avere svolto quel ruolo dirigente che ci si poteva aspettare da lui", non avendo imposto al governo di calpestare la volontà dell'opinione pubblica. La Turchia dovrebbe dunque fare uno sforzo e ammettere: "Abbiamo commesso un errore. [...] Ma proviamo ora a vedere come possiamo renderci il più utili possibile agli americani (19)." Le parole di Wolfowitz sono tanto più chiarificatrici in quanto quest'ultimo viene presentato come uno dei principali paladini della crociata per la "democratizzazione del Medio oriente".
L'ira di Washington contro la "vecchia Europa" ha radici più profonde del semplice disprezzo per la democrazia. Gli Stati uniti sono sempre stati riluttanti nei confronti dell'unificazione del Vecchio continente.
Trent'anni fa, in un discorso su "L'anno dell'Europa", Henry Kissinger consigliava agli europei di esercitare le proprie "responsabilità regionali" nel "quadro globale di un ordine mondiale" determinato dagli Stati uniti. Ogni soluzione indipendente era dunque già condannata.
La stessa premurosa attenzione si applica oggi al Nord-est asiatico, una zona che, grazie alle sue notevoli risorse e alle moderne economie industriali, vanta la crescita economica più dinamica del mondo.
Anche questa regione potrebbe a sua volta accarezzare l'idea di contestare un ordine mondiale stabilito da Washington. Ma quest'ordine deve essere mantenuto. In eterno. Se necessario, con la forza.
note:
* Professore al Massachusetts Institute of Technology (Mit), Boston, Stati uniti. Autore di molte opere, tra cui Dopo l'11 settembre, Marco Tropea, 2003.
(1) George W. Bush, La Stratégie de sécurité nationale des Etats-Unis.
Une ère nouvelle, Washington, 20 settembre 2002. Si legga il documento integrale, in francese, sul sito: medias.lemonde.fr/medias/pdf_obj/docbuhstrategfra020920.pdf
(2) John Ikenberry, Foreign Affairs, New York, settembre-ottobre 2002.
(3) Sondaggio in 27 paesi. Cfr. "A Rising Anti-American Tide", International Herald Tribune, Parigi, 5 dicembre 2002.
(4) The Wall Street Journal, New York, 27 gennaio 2003.
(5) Michael Gordon, The New York Times, 18 marzo 2003.
(6) La validità giuridica di una guerra "anticipata" dipende dall'esistenza di prove materiali, che dimostrino l'imminenza del pericolo e la necessità di agire. La guerra preventiva poggia, al contrario, non sul timore di un'aggressione imminente, ma su una paura più articolata, su una minaccia strategica. Cfr. Richard Falk, "Le Nazioni unite prese in ostaggio", Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2002.
(7) Los Angeles Times, 23 marzo 2003.
(8) Thomas Friedman, The New York Times, 7 giugno 1991.
(9) Thomas Friedman, op. cit. e Alan Cowell, The New York Times, 11 aprile 1991.
(10) Thomas Friedman, The New York Times, 4 giugno 2003.
(11) Linda Rothstein, Bulletin of Atomic Scientists, Chicago, luglio 2003.
(12) Elisabeth Bumilier, The New York Times, 2 maggio 2003.
(13) Jason Burke, The Sunday Observer, Londra, 18 maggio 2003.
(14) Jeanne Cummings e Greg Hite, The Wall Street Journal, 2 maggio 2003; Francis Clines, The New York Times, 10 maggio 2003.
(15) Program on International Policy Attitudes, Università del Maryland, 18-22 aprile 2003.
(16) Dan Milbank, The Washington Post, 1° giugno 2003.
(17) Guy Dinmore e James Harding, Financial Times, 3-4 maggio 2003.
(18) Thomas Friedman, The New York Times, 9 febbraio 2003.
(19) Marc Lacey, The New York Times, 7-8 maggio 2003.
(Traduzione di G.P.) aa qq L'onda del caos
Alain Gresh
Fonte: Monde Diplomatique 09/2003