I VERI PIANI DI GEORGE W. BUSH

alla vigilia dell'attacco all'iraq

Michael Klare*

 

Rinfrancato dalla schiacciante vittoria ottenuta alle elezioni di mid term del 5 novembre scorso e della maggioranza conquistata nelle due camere, il presidente degli Stati uniti George W. Bush sta imprimendo l'accelerazione finale al già pianificato intervento armato contro Baghdad. Subito dopo la vittoria elettorale, Bush ha presentato un progetto di risoluzione particolarmente duro sull'Iraq, lanciando un vero e proprio ultimatum ai membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Ma la ferma volontà del presidente americano di far approvare i suoi piani dalle Nazioni unite si scontra per il momento sia con l'opposizione dell'opinione pubblica europea e araba che con la resistenza della Francia e della Russia. Riusciranno questi due elementi a bloccare la marcia verso la guerra? Nulla di meno sicuro: la campagna contro l'Iraq si inserisce di fatto in una strategia globale imposta a Washington da una cricca di nostalgici della guerra fredda, che antepongono a qualsiasi altra cosa la loro particolare visione degli interessi strategici, militari, ideologici ed economici degli Stati uniti.

Dopo l'11 settembre, gli Stati uniti si sono lanciati nella guerra al terrorismo con tanto impeto da dare l'impressione che questo sia il solo obiettivo della politica estera dell'amministrazione Bush.

In effetti il presidente Usa ha ribadito più volte di vedere oggi in questa campagna globale la sua principale responsabilità. Ma anche se lo sforzo compiuto dagli Stati uniti in questo campo è enorme, non si può certo dire che la lotta al terrorismo sia l'unica preoccupazione del governo americano. Fin dal giorno dell'investitura di Bush, la Casa bianca ha dedicato un'attenzione non minore ad altre due priorità strategiche: la modernizzazione ed espansione dell'apparato militare americano e l'acquisizione di ulteriori fonti petrolifere all'estero. Benché inizialmente diversi, questi obiettivi hanno finito per fondersi tra loro dando vita a un unico disegno strategico, che orienta oggi la politica estera americana. Questa nuova strategia non ha un nome ufficiale, e non sembra che a Washington sia stata esplicitamente formulata o espressa in una dichiarazione di principi. Ma senza alcun dubbio sono quelle tre priorità, confluite in un unico piano, che hanno determinato un profondo cambiamento nel comportamento dell'America sul piano militare. Per meglio comprendere la natura di questo cambiamento sarà utile esaminare le recenti iniziative degli Stati uniti in alcuni settori critici.

L'Iraq e il Golfo Persico. Sembra ormai certo che l'amministrazione Bush stia preparando l'invasione dell'Iraq, con lo scopo ultimo di rovesciare Saddam Hussein e insediare a Baghdad un governo filo-americano.

Per preparare quest'operazione, il dipartimento della difesa sta rafforzando la sua presenza militare nella regione del Golfo. L'obiettivo dichiarato di questa prossima invasione è distruggere la capacità irachena di produrre armi nucleari, chimiche e batteriologiche. Ma, come appare evidente, Washington intende eliminare ogni possibile rischio o minaccia per la produzione e il trasporto del petrolio di questa regione. Gli strateghi americani vogliono inoltre garantirsi l'accesso alle ingenti riserve petrolifere irachene, e impedire che finiscano sotto il controllo esclusivo delle compagnie petrolifere russe, cinesi o europee.

L'Asia centrale e il Caucaso. Quando, poco dopo l'11 settembre, gli Stati uniti dispiegarono le loro truppe nella regione, dichiararono di avere un unico obiettivo: quello di sostenere le operazioni militari contro i taliban. Ma dopo la sconfitta di costoro, si è venuto a sapere che le truppe sarebbero rimaste nella regione per svolgere altre funzioni. Ora, visto che gli Stati uniti non fanno mistero del loro interesse per le ingenti riserve energetiche del bacino del Mar Caspio, tra queste funzioni c'è verosimilmente anche la sorveglianza delle vie del petrolio e del gas destinati ai mercati occidentali.

Tanto più che recentemente gli Stati uniti hanno inviato istruttori militari in Georgia - tappa importante del percorso dell'oleodotto che collega il Mar Caspio al Mar Nero e al Mediterraneo - e hanno annunciato l'intenzione di ristrutturare una base aerea nel Kazakistan, sulle rive del Mar Caspio.

La Colombia. Fino a poco tempo fa, l'impegno militare americano in questo paese aveva ufficialmente un unico scopo: la lotta contro il narcotraffico. Ma in questi ultimi mesi, la Casa bianca ha aggiunto al suo programma di assistenza militare due nuovi obiettivi: combattere la violenza politica e il "terrorismo" della guerriglia e proteggere gli oleodotti che collegano i giacimenti dell'interno alle raffinerie situate sulla costa. Per finanziare queste nuove priorità, l'amministrazione Bush ha chiesto al Congresso di approvare un aumento degli aiuti militari a Bogotà, che in buona parte (circa 100 milioni di dollari) dovranno servire alla sorveglianza dell'oleodotto.

Questi tre casi, al pari di analoghi sviluppi in altre parti del mondo, esemplificano chiaramente la recente evoluzione della politica estera statunitense. Ma l'aspetto più significativo è la fusione delle sue tre maggiori priorità in un'unica strategia. A questo punto, si può comprendere l'orientamento globale della politica estera americana solo alla luce delle implicazioni di questo processo integrativo.

Ma per maggiore chiarezza, è il caso di esaminare separatamente ciascuna di queste tre priorità, per poi analizzare le loro reciproche interconnessioni.

Esercito e petrolio del XXI secolo Il primo di questi obiettivi, già definito dal candidato George W.

Bush durante la sua campagna presidenziale, è assurto da allora a priorità assoluta del governo. Fin dal settembre 1999, in un importante discorso pronunciato a The Citadel, prestigiosa accademia militare a Charleston (Carolina del Sud), Bush aveva esposto il suo piano di "trasformazione" dell'apparato militare americano. Dopo aver rimproverato l'amministrazione Clinton di non aver saputo adeguare l'assetto militare alle nuove realtà del dopo-guerra fredda, il candidato repubblicano si era impegnato a intraprendere una totale revisione della strategia degli Stati uniti e ad avviare "la costruzione dell'esercito del XXI secolo". Questa trasformazione dell'apparato militare ha un duplice obiettivo: in primo luogo, assicurare l'invulnerabilità del territorio grazie a un efficace scudo antimissile, garantendo il mantenimento della superiorità americana nel campo delle armi a tecnologia avanzata; in secondo luogo, accrescere la capacità degli Stati uniti di invadere potenze regionali ostili quali ad esempio l'Iraq, l'Iran o la Corea del Nord.

Bush ha quindi ribadito il suo sostegno alla messa a punto di un sistema antimissile globale per la difesa dei cinquanta stati americani, così come alla cosiddetta "rivoluzione del pensiero militare", che renderà sistematico l'uso dei computer, di sensori altamente sofisticati, materiali invisibili ai radar e altre tecnologie belliche avanzate.

Secondo il presidente, questa politica garantirà la supremazia americana fino al più lontano futuro.

Per conseguire il secondo di questi due obiettivi, Bush ha prospettato lo sviluppo della capacità di "proiettare la potenza", o in altri termini, di dispiegare a grande distanza ingenti forze militari, in grado di annientare qualunque nemico: un piano che richiede un forte impegno tecnologico, ad esempio nel campo dei sensori e degli aerei teleguidati, e comporta inoltre lo snellimento delle unità combattenti per accrescere al massimo la loro mobilità. Bush ha infatti detto testualmente: "Le nostre forze armate dovranno essere facilmente dispiegabili, agili e letali, con esigenze di supporto logistico ridotte al minimo. Dobbiamo poter essere in grado di proiettare la nostra potenza a grande distanza non nel giro di mesi, ma di poche settimane o pochi giorni (...) Dobbiamo accrescere la mobilità delle nostre unità pesanti per le operazioni terrestri e la potenza letale di quelle leggere, e facilitare a tutti i livelli il dispiegamento delle nostre truppe" (1). Subito dopo la sua investitura, Bush si è affrettato a dare al Dipartimento della difesa il mandato di procedere all'attuazione di queste disposizioni.

Fin dall'inizio del 2001 ha dichiarato: "Su mia richiesta, il Segretario alla difesa Donald H. Rumsfeld ha avviato un'analisi approfondita delle forze militari statunitensi. Gli ho conferito un ampio mandato di revisione dello status quo, per portare avanti il progetto di una nuova architettura dell'apparato difensivo degli Stati uniti e dei loro alleati". Questa nuova architettura dovrebbe fondarsi in larga misura sulle tecnologie più avanzate, mirando però soprattutto a potenziare al massimo la capacità di proiezione della potenza militare.

Bush ha infatti dichiarato, in termini quasi identici a quelli del suo discorso di The Citadel, che le forze terrestri americane dovranno avere "più mobilità e potenza letale", che quelle aeree saranno in grado di "colpire obiettivi distanti con assoluta precisione" mentre la marina "proietterà la nostra potenza a distanza, verso l'interno dei territori" (2). Questi obiettivi si riflettono negli orientamenti a lungo termine del bilancio del Pentagono. Donald H. Rumsfeld ha infatti dichiarato, al momento di presentare il bilancio della difesa per l'anno fiscale 2003 (con decorrenza il 1° ottobre dell'anno in corso), pari a 379 miliardi di dollari - 45 in più rispetto al 2002: "Abbiamo bisogno di forze armate pienamente integrate e preparate a un dispiegamento rapido, capaci di portarsi rapidamente su scenari distanti e di cooperare con le forze aeree e navali per colpire il nemico con velocità e precisione e con effetti devastanti (3)". Se è previsto un aumento delle somme stanziate per lo scudo antimissile e per la lotta al terrorismo, negli anni a venire la parte del leone spetterà allo sviluppo della "proiezione della potenza".

Dopo l'11 settembre, una nuova nozione è entrata a far parte della dottrina strategica americana: quella dell'intervento armato preventivo contro il possibile uso di armi di distruzione di massa da parte di potenze ostili. Azioni del genere - sostiene la Casa bianca - potrebbero risultare necessarie per difendere i cittadini americani dalla minaccia dei cosiddetti "stati canaglia". Quest'affermazione, oltre ad essere un chiaro segnale di un cambiamento radicale della strategia americana, appare perfettamente coerente con gli altri due obiettivi dell'amministrazione: assicurare l'invulnerabilità del territorio statuntense e potenziare la capacità americana di invadere e conquistare potenze ostili.

La seconda priorità dell'amministrazione, cioè l'acquisizione di nuove riserve di petrolio in territorio straniero, è stata esplicitata per la prima volta in un rapporto del National Energy Policy Development Group, pubblicato il 17 maggio 2001. Questo documento, redatto dal vicepresidente Richard Cheney, mette a punto una strategia destinata a far fronte al previsto aumento dei consumi petroliferi americani nel prossimo venticinquennio. Se è vero che il rapporto prevede alcune misure di risparmio energetico, le sue proposte sono però finalizzate in massima parte al reperimento di nuove fonti energetiche. Fin dalla sua pubblicazione, il rapporto Cheney ha suscitato reazioni polemiche su due punti: la proposta di nuove prospezioni petrolifere nel parco nazionale dell'Alaska e i rapporti con la Enron (ora fallita), che gli autori del testo avevano regolarmente consultato durante la sua stesura. Purtroppo però queste polemiche hanno distolto l'attenzione da altri aspetti, e in particolare dalle implicazioni internazionali del suo piano di politica energetica. Peraltro, è solo nell'ultimo capitolo di questo testo (intitolato "Rafforzare le alleanze globali") che appare in piena luce la reale portata del progetto di puntare sulle importazioni per far fronte all'incombente penuria di petrolio.

Sempre secondo il rapporto Cheney, il greggio importato, che nel 2001 rappresentava il 52% del fabbisogno complessivo, dovrebbe arrivare nel 2020 al 66% (4). Ma dato che è previsto anche un aumento del consumo totale, nel 2020 gli Stati uniti dovranno importare il 60% di petrolio in più, passando dagli attuali 10,4 milioni di barili al giorno a circa 16,7 milioni (5). Ora, per attuare questo piano esiste un unico mezzo: convincere i produttori esteri a estrarre più petrolio, e a vendere agli Stati uniti una quota maggiore della loro produzione. Ma si dà il caso che molti dei paesi produttori non dispongono delle risorse per i necessari investimenti infrastrutturali; e inoltre sono spesso riluttanti a consentire ai clienti americani di entrare da padroni nel loro settore energetico. Stando così le cose, il rapporto raccomanda alla Casa bianca di considerare l'aumento delle importazioni di petrolio come "una priorità della nostra politica commerciale ed estera (6)". A tal fine, il rapporto consiglia al governo una duplice strategia. Primo obiettivo: aumentare le importazioni dai paesi del Golfo persico, dove si trovano circa due terzi delle riserve energetiche mondiali. In considerazione del fatto che nessun'altra regione del mondo ha le stesse potenzialità estrattive, si incita l'amministrazione a intraprendere vigorosi sforzi diplomatici per persuadere l'Arabia saudita e gli stati vicini ad affidare alle compagnia americane la realizzazione di grandi opere per modernizzare le loro infrastrutture.

Secondo obiettivo: accentuare la "diversificazione" geografica delle importazioni, per ridurre in futuro i rischi economici delle turbolenze di una regione cronicamente instabile. Nel rapporto si osserva infatti che "la concentrazione della produzione petrolifera mondiale in una sola regione rischia di aggravare l'instabilità del mercato". Di conseguenza, "una maggior diversificazione delle fonti di approvvigionamento rimane un obiettivo importante (7)". Il rapporto suggerisce quindi una stretta collaborazione tra i vertici pubblici e le imprese americane del settore energetico, per incrementare le importazioni dal bacino del Mar Caspio, (soprattutto dall'Azerbaigian e dal Kazakistan), dall'Africa sub-sahariana (in particolare dall'Angola e dalla Nigeria) e dall'America latina (Colombia, Messico e Venezuela). Ma il rapporto Cheney sorvola su una realtà evidente per qualsiasi lettore appena un po' informato: praticamente tutte le regioni segnalate come potenziali fonti di petrolio sono cronicamente instabili, e spesso caratterizzate da un diffuso sentimento antiamericano. Se le rispettive élites sono in parte favorevoli alla cooperazione economica con gli Stati uniti, vasti settori della popolazione la osteggiano, per ragioni che vanno dal nazionalismo alle motivazioni economiche o ideologiche. Perciò gli Stati uniti potrebbero scontrarsi con varie forme di resistenza, che rischiano di degenerare in comportamenti violenti o anche in attacchi terroristici. Ecco perché nel rapporto Cheney è implicita - anche se sottaciuta - una dimensione di sicurezza, di significato non indifferente ai fini della politica militare americana.

È qui che salta agli occhi il parallelismo tra la strategia militare e la politica energetica del governo Bush. In effetti, il progetto Usa di garantirsi l'accesso alle riserve petrolifere di regioni cronicamente instabili può essere realistico soltanto a condizione di possedere la capacità di "proiettare" in queste aree la propria potenza militare.

Greggio, bin Laden e famiglia reale saudita Anche ammettendo che i maggiori responsabili politici non siano giunti a questa conclusione, sicuramente gli stati maggiori delle forze armate non hanno tardato a farlo. Nel rapporto della Quadriennial Defence Review (Qdr) del settembre 2001, il Dipartimento della difesa ha constatato che "gli Stati uniti e i loro alleati continueranno a dipendere dalle risorse energetiche del Medioriente (8)", una regione di importanza vitale, ma esposta a rischi di vario tipo sul piano militare. A questo punto il Qdr specifica le caratteristiche delle truppe e degli armamenti che serviranno agli Stati uniti per far fronte a questi rischi: precisamente quelle enumerate da Bush nelle sue dichiarazioni sopra citate. Il rapporto del Qdr conclude infatti con la constatazione che la strategia militare americana "si fonda sulla capacità delle forze statunitensi di proiettare la propria potenza in tutto il mondo" (9). La terza, grande priorità dell'amministrazione Bush, la battaglia contro il terrorismo, è stata esplicitata dal presidente in un discorso tenuto davanti al Congresso il 20 settembre 2001, a nove giorni dagli attentati di New York e Washington. Questa lotta, ha detto Bush, non sarà limitata a une serie di operazioni punitive o a una battaglia campale, ma richiederà una "campagna prolungata", che dovrà essere estesa a diversi teatri operativi e protratta finché "anche l'ultimo gruppo terroristico di portata globale sarà stato scoperto, bloccato e sconfitto". Successivamente, il presidente Bush ha inglobato nella guerra contro il terrorismo anche l'Iran e l'Iraq, che rappresenterebbero una minaccia in ragione della loro intenzione di sviluppare armi nucleari, chimiche e batteriologiche. Una strategia del genere richiede un duplice impegno: sul piano dell'intelligence, per individuare le reti terroristiche, e su quello militare, per distruggere i covi dei terroristi e punire gli stati che li proteggono.

Sebbene questi due aspetti siano stati presentati come ugualmente importanti ai fini del successo dell'impresa, l'attenzione dei vertici dell'amministrazione si concentra soprattutto su quello militare, dove è più netta la convergenza con le altre due priorità dell'amministrazione.

Molti aspetti della conduzione della guerra in Afghanistan illustrano ad esempio il concetto di "proiezione della potenza", esposto da Bush fin dal 1999, nel suo discorso a The Citadel. In preparazione della campagna, gli Stati uniti hanno organizzato ponti aerei per il trasporto di ingenti quantitativi di armi ed equipaggiamenti nei paesi alleati, e dispiegato un'imponente flotta nel Mare d'Arabia.

Per i combattimenti terrestri sono state impiegate truppe di fanteria leggera, appoggiate da bombardieri a lungo raggio dotati di armi di precisione teleguidate. Grande importanza è stata attribuita alla manovrabilità delle truppe a terra, così come all'uso di apparecchi d'osservazione molto sofisticati, in grado di localizzare il nemico a qualsiasi ora del giorno o della notte.

Un'operazione dello stesso ordine contro l'Iraq richiederebbe probabilmente il dispiegamento di decine di migliaia di soldati, con l'appoggio di massicci bombardamenti, in vari punti chiave del paese. "Non avremmo bisogno [a differenza del 1991] di occupare il territorio e di proteggerci i fianchi", ha spiegato al New York Times un alto ufficiale, "ma dovremmo piuttosto assicurare spostamenti rapidi di truppe per concentrarle su bersagli precisi (10)". E come in Afghanistan, l'invasione dovrebbe essere sostenuta dall'uso massiccio di forze speciali, affiancate da gruppi di dissidenti armati. La guerra al terrorismo è dunque ormai parte integrante dell'azione americana per salvaguardare le sue vie d'accesso al petrolio, in particolare nel Golfo persico e nel bacino del Mar Caspio. Vista in questa luce, la guerra in Afghanistan appare come un prolungamento di una guerra segreta in atto in Arabia saudita tra i gruppi radicali e la monarchia al potere, protetta da Washington. Da quando, dopo l'invasione irachena dell'agosto 1990, il re Fahd decise di autorizzare il dispiegamento delle truppe americane nel suo paese in vista dell'attacco all'Iraq, gruppi di estremisti sauditi, guidati da Osama bin Laden, stanno portando avanti una lotta clandestina per rovesciare la monarchia e cacciare gli americani dal paese. Lo sforzo degli Usa per distruggere la rete di al Qaeda in Afghanistan può quindi essere letto anche come un'azione volta a proteggere la famiglia reale saudita e assicurarsi così l'accesso alle risorse petrolifere di questo paese (11).

Sviluppi dello stesso tipo si osservano nell'area del Mar Caspio.

Durante la presidenza Clinton, il Dipartimento della difesa aveva stabilito rapporti con le forze armate dell'Azerbaigian, della Georgia, del Kazakistan, del Kirghizistan e dell'Uzbekistan, e iniziato ad addestrarle e a rifornirle di armi (12). Dopo l'11 settembre questa attività si è considerevolmente intensificata, tanto che le basi dell'Uzbekistan e del Kirghizistan vengono ora trasformate in strutture semi-permanenti. Inoltre, gli Stati uniti forniscono mezzi per ristrutturare una "base aerea di importanza strategica" nel Kazakistan.

Il Dipartimento di stato ha dichiarato che quest'ultima mossa ha lo scopo di "migliorare la cooperazione tra Stati uniti e il Kazakistan, installando nel contempo una base americana interforze in questa regione ricca di petrolio (13). Gli Stati uniti aiuteranno inoltre l'Azerbaigian a costituire una flotta militare nel Mar Caspio, dove recentemente si sono verificati incidenti tra imbarcazioni di prospezione petrolifera dell'Azerbaigian e navi da guerra iraniane. Queste iniziative, giustificate con la necessità di agevolare la partecipazione dei paesi interessati alla lotta contro il terrorismo, sono anche parte integrante del piano americano di sorveglianza delle aree di produzione e trasporto del petrolio. Il terrorismo si annida nei pozzi di Saddam Quali che fossero le intenzioni iniziali dei leader politici americani, le tre priorità del governo in materia di sicurezza internazionale - potenziamento dell'apparato militare, ricerca di nuove fonti di petrolio e guerra contro il terrorismo - si sono ormai fuse in un unico obiettivo strategico, tanto che sarà sempre più difficile analizzarle separatamente. Il solo modo per individuare chiaramente la tendenza globale della strategia statunitense è vederla come una campagna tesa a conseguire un unico obiettivo: in sintesi, una "guerra per la supremazia americana". Se è ancora presto per valutare le conseguenze a lungo termine di questa confluenza delle priorità strategiche, si possono fare fin d'ora alcune osservazioni.

Innanzitutto, questi tre obiettivi congiunti sviluppano un dinamismo molto superiore a quello che avrebbero isolatamente. Uno dei motivi potrebbe essere la difficoltà di criticare una strategia che integra tanti aspetti cruciali della sicurezza nazionale. Sui suoi diversi aspetti si potrebbero forse esprimere perplessità, o magari tentare di porre limiti alle spese militari o al dispiegamento di truppe nelle regioni ricche di petrolio. Ma nel momento in cui tutto viene accorpato sotto l'insegna unica della lotta contro il terrorismo, ogni contestazione diventa quasi impensabile. Tanto che la Casa bianca otterrà probabilmente per questa campagna integrata non solo l'appoggio del Congresso, ma anche quello della popolazione americana.

Ma per le stesse ragioni, questa strategia comporta due pericoli non trascurabili: da un lato si rischia il ristagno, dall'altro la dispersione per eccesso. In effetti, gli Stati uniti potrebbero essere indotti a una serie di operazioni militari di durata indeterminata, sempre più complesse e perigliose, con la necessità di un impegno crescente di mezzi e di truppe. È precisamente contro questo tipo di strategia che George W. Bush ha messo in guarda l'America prima delle elezioni del 2000. Ma sembra che ormai l'abbia adottata senza riserve, quanto meno nel Golfo Persico, nell'Asia centrale e in Colombia.

E in ciascuno di questi tre casi, è proprio la fusione dei suoi tre principali obiettivi a ostacolare qualsiasi tentativo di porre limiti all'azione degli Usa. Sembra che a questo punto, il test cruciale per il disegno strategico generale della Casa bianca sia quello dell'Iraq. Il presidente Bush non ha fatto mistero della sua intenzione di rovesciare Saddam Hussein, e il Dipartimento della difesa sta già preparando i piani dell'invasione americana. Ma numerosi leader arabi hanno avvertito Washington che in questo modo si rischia di aggravare il disordine e la violenza in tutto il Medioriente. E anche alcuni autorevoli esponenti del Pentagono hanno espresso le loro riserve, a fronte dell'alto livello dei costi e dei rischi che l'America dovrà affrontare per mantenere, dopo il rovesciamento di Saddam, una massiccia presenza militare in Iraq. Ma a quanto pare, questi avvertimenti non hanno avuto alcun effetto sulla Casa bianca, che sembra determinata ad attaccare l'Iraq, qualunque cosa avvenga.

 

 * Docente all'università Hampshire, Massachusetts, autore di Resource Wars: the New Landscape of Global Conflict, Metropolitan Books, New York, 2001.

 

 

note:

(1) Documento disponibile a: www.georgewbush.com/speeches/defense/citadel.asp, 2 dicembre 1999.

(2) Allocuzione pronunciata alla base navale di Norfolk il 13 febbraio 2001. Cfr.: www.whitehouse.gov/news/releases/text/20010213-1.html.

(3) National Defense University, Washington, D.C., January 31 gennaio 2002.Cfr.: www.defenselink.mil/cgi-bin/dlprint.cgi.

(4) National Energy Policy Development Group, Washington, D.C., maggio 2001.

(5) U.S. Department of Energy, Energy Information Administration, International Energy Outlook 2002, Washington, D.C., 2002, pp. 183, 242.

(6) National Energy Policy Development Group, op. cit., cap. 8, p.

4.

(7) Ibid., cap. 8, p. 6.

(8) U.S. Department of Defense, Quadrennial Defense Review Report, Washington DC, 30 settembre 2001, p. 4.

(9) Ibid., p. 43.

(10) The New York Times, 28 aprile 2002

(11) "The Geopolitics of War". The Nation, 5 novembre 2001. Si legga inoltre "Line in the Sand: Saudi Role in Alliance Fuels Religious Tension in Oil-Rich Kingdom", The Wall Street Journal, 4 ottobre 2001.

(12) Per una lettura contestuale, leggere Michael Klare, Resource Wars: The New Landscape of Global Conflict, Metropolitan Books/Henry Holt, New York, 2001.

(13) US Department of State, Congressional Budget Justification: Foreign Operations, Fiscal Year 2003, Washington, DC, 2002, p. 309.

(Traduzione di E. H.)

 

 

 

Fonte: Monde Diplomatique 11/2002