QUANDO A MORIRE SONO I SOLDATI AMERICANI
ADRIANO SOFRI
UNA settimana fa, il 4 gennaio, i comandi americani hanno annunciato la morte del primo loro soldato ucciso dal fuoco nemico. Triste notizia, ma anche strana: proviamo a guardarla con lo stato d'animo dei giorni successivi all'11 settembre, quando si ripensò alla loro prontezza a morire e alla nostra. Ci sono equivoci attorno alla prontezza dei terroristi alla morte. Il discrimine era stato reso mirabilmente evidente da loro, dal mullah Omar: noi desideriamo la morte come voi siete attaccati alla vita. E' una discriminante da accettare intera, e scrivere sulla nostra bandiera. La nostra religione, e la loro la nostra morale e la loro. Ma prima di presentarla nella sua nitidezza morale o di qua o di là bisogna ripulirla dagli equivoci da ambedue i lati.
Dal lato dei terroristi. Essi non sono indifferenti alla morte. Non lo sono affatto. Indifferente alla morte è il suicida individualista cioè dolorosamente e sdegnosamente solo e nichilista dei Demoni, Kirillov. Usino pure la sua morte, gli spregevoli terroristi e odiatori e invidiatori sociali: a lui non importa, dunque
Ma i terroristi investono sulla propria morte. Ci tengono. Ne vogliono ricavare cento, mille volte tanto. Dell'investimento fa parte il premio paradisiaco, le 72 vergini eccetera una superlotteria. Dunque bisogna che sia una morte da martiri come la intendono loro. E almeno altrettanto investono in vanità: devono recitarla, la morte, e prima agghindarsi, vestirsi come un attore in camerino, fare le prove, profumarsi, filmarsi, semmai (i disgraziati attentatori con le scarpe grosse di Sarajevo 1914 andarono a farsi la fotografia, il giorno prima: ma loro per la storia, non per il cielo). Ammazzali fuori servizio, e ci rimarranno malissimo. Tengono alla loro morte come un avaro al proprio gruzzolo. Tengono alla loro morte come noi alla nostra vita, appunto: vogliono viverla, la loro morte, e farla fruttare non morirla. Il loro è un feticismo della morte. (Né bisognerebbe sottovalutare l'affinità di queste società di "martiri" con le sette suicide, e specialmente con le loro oscene combinazioni di suicidi e omicidi, e di esclusione dal suicidio del guru. Questo vale anche per il patto sacrificale collettivo, che contrassegna il terrorismo).
E dalla nostra parte? Anche qui c'è un equivoco. La "morte zero" è un feticcio recente. Un feticcio, perché riguarda solo la vita propria, dei propri: premura da viziati, dunque, da figli di papà. E non è l'attenzione al risparmio di vite quella che c'era già nell'esercito americano nella Prima o nella Seconda guerra, e imponeva la strategia dei bombardamenti protratti; e che non c'era nell'esercito italiano, che prevedeva la carneficina delle truppe. In questo senso supremazia tecnologica in cambio della sicurezza delle proprie persone, anche ai danni delle persone altrui, come nel Golfo la "morte zero" è recente, è successiva ai 63 mila morti del Vietnam (e alle migliaia di suicidi che vennero dopo). E' una ratifica dei tempi: che premio si paga a un'assicurazione per la vita di un cittadino americano e che premio per la vita di un afghano o uno della Sierra Leone? E poi la fiducia nella tecnologia, che promette di opporre uno schermo insuperabile fra la nostra umanità e quella nemica: è l'illusione dello Scudo stellare. Fatto sta che la "morte zero" è uno dei moventi più forti di odio e di disprezzo per gli Stati Uniti. E' l'idea di una prepotenza vigliacca, cristallizzata nei bombardamenti di alta quota e negli aerei invisibili. L'uomo scompare e resta un apparato schiacciante e stolido (intelligente) che colpisce da lontano e senza mira. Di qui l'umiliazione dell'americano nemico, il suo rimpicciolimento, la sua gogna, quando per accidente cade e viene catturato. E la sfida: il mullah Omar arrivò a sfidare a duello personale Blair, se non sbaglio. Il Golfo e il Kossovo hanno sancito l'odio e il disprezzo per la "morte zero". Si è osservato che il terrorismo suicida ha introdotto un'arma assoluta contro l'ideale della morte zero. Ma la morte zero è recente e revocabile. L'11 settembre quella strategia quella metafisica è stata due volte colpita. Perché il terrorismo ha fatto migliaia di morti nel cuore metropolitano dell'impero. E perché l'impero ha riflettuto su se stesso e su quell'odio, ha visto ridicolizzato il mito dello scudo spaziale, si è sentito impegnato a mettere a repentaglio le vite dei propri soldati.
Tuttavia la conduzione dell'intervento in Afghanistan ha ripetuto le vie consuete del bombardamento da lontano e dall'alta quota. E' difficile, probabilmente, che i militari cambino la loro mentalità. Al punto che la guerra di propaganda sulle perdite americane ha seguito la falsariga consueta della smentita e della negazione. L'America nasconde i propri morti, si vergogna dei propri morti come si nasconde il guasto o il difetto di funzionamento di un prodotto che è stato venduto sotto garanzia: e dovrebbe invece mostrarli, e rivendicarne il coraggio, quel modo di coraggio.
Qualcuno volle rivendicare polemicamente il "coraggio" dei terroristi. Rivendicazione superflua, se vuol dire la risolutezza estrema di persone disposte a sgozzare il prossimo e precipitarsi contro una torre alla guida di un aereo rubato; e fuori luogo, se misurata su quell'amore per la morte di cui i terroristi e i loro mandanti fanno la propria cifra morale. Noi misuriamo il coraggio anche quello tradizionale, quello ereditato dalle generazioni passate e dalle motivazioni delle loro medaglie sull'amore per la vita e il sacrificio a una causa più importante. La correzione della recente filosofia della "morte zero" sarebbe facile, in questo senso: perché è ancora vicina e sentita la panoplia di valori militari. Si può, al richiamo del pericolo, della vendetta, dell'orgoglio oltraggiato, tornare di colpo a quel valore antico. Riaprire gli arruolamenti alla guerra da vicino, alla guerra dei corpi. Occorre naturalmente suscitare una riscossa patriottica, e ricostruire una retorica patriottica di un qualunque patriottismo. L'America le si presta meglio, per storia e per gioventù. (L'Europa, soprattutto l'Europa continentale, molto meno, per storia e per vecchiezza estenuata. L'Europa è debole). Per questo, anche, la guerra si impone come la risposta prediletta delle vittime del terrorismo. Non la guerra della "morte zero" malgrado il riflesso condizionato dei generali ma la guerra tradizionale: quella che mette alla prova della vita coraggio ed eroismo.
I morti delle Torri non vennero mostrati: in parte perché non c'erano, erano fusi. In quel caso i corpi non ostentati non hanno celato i morti, ma li hanno esposti, li hanno fatti contare e raccontare, e ne hanno fatto immaginare la fine. Non visti, sono stati più incombenti e presenti. E' strano che non riconosca la necessità di dichiarare i propri morti giusti una civiltà che scende dal Crocefisso, e che è stata sedotta dall'immagine d'obitorio di un suo nemico morto oscuramente ammazzato, come il Che. Gli americani hanno sentito per un momento di dover tornare alla guerra coi morti alla guerra di terra, che ne è sinonimo. Prima ancora che per l'efficacia militare, per quella morale o della propaganda, che è lo stesso. Poi sono tornati all'antico: bombardamenti d'alta quota, immane sproporzione tecnologica. Vittoria molto più facile del previsto, anche: del previsto dai loro generali, che forse giocavano la loro propaganda, e del previsto dagli oppositori, che avevano disegnato catastrofi umanitarie e durate senza fine.
La vittoria è arrivata presto, e a un costo alto, ma enormemente meno che nelle reciproche paure e nelle opposte propagande. La "guerra" si è tradotta nella cacciata dei taliban e nel ripristino delle possibilità di un'esistenza meno indegna per donne e bambini afgani. Accantonando la riflessione critica sulla strategia della "morte zero" e dei bombardamenti schiaccianti dall'alta quota. Fino a che il 4 gennaio del 2002 i comandi americani hanno annunciato la morte del primo loro soldato ucciso dal fuoco nemico.
Anche un altro coraggio si era manifestato, ed era stato riconosciuto con una sua propria retorica, nella reazione all'attacco alle Torri. Il coraggio dei non addetti ai lavori, a cominciare dal sesso non addetto, il coraggio civile e involontario il coraggio "per caso" e non per vocazione, e tanto meno per professione, dunque così diverso dal valor militare, pur richiamato in servizio dalla nuova condizione. Il suo modello è la reazione non so se avvenuta o no, e fino a che punto dei passeggeri dell'aereo precipitato nei paraggi di Pittsburgh. (Era stata nell'ebraismo la questione essenziale del rapporto fra sterminio e eroismo. Era stato il vecchio e invalido ebreo americano Leon Klinghoffer sulla Achille Lauro, che aveva, lui solo, dato un calcio a un sequestratore, ed era stato ucciso). Poi l'eroismo dei pompieri e i 350 caduti, a Manhattan. E via via i postini ecc. Colpita per la prima volta in casa sua, l'America riscopriva questo valor civile e militare insieme. Enrico Deaglio ha raccontato sul "Diario" un aneddoto delizioso e significativo, un'anziana signora americana all'aereoporto cui vengono sequestrate le forbicine, e protesta: "Se è contro i terroristi, invece di toglierci le forbicine ci diano un coltello a testa".
La "guerra" è speculare al terrorismo? La sua inefficacia supposta o sospettata rispetto al terrorismo, o l'avversione alla nozione di guerra, inducevano a fare appello all'"intelligence", parola diventata d'un tratto magica (per le possibilità che le si attribuivano) e morale, per le violenze e le sofferenze che dovrebbe sventare e sostituire. Ma l'"intelligence" è esattamente un antiterrorismo, un controterrorismo, che ne riproduce tal quale il meccanismo. Emulazione che rivela oltretutto la vera essenza del terrorismo: la licenza di uccidere, e di rifiutare qualsiasi regola. (In Italia tutti sembrano aver piamente dimenticato, per esempio, l'autorizzato ricorso alla tortura con le Br e le altre formazioni della "lotta armata"). I connotati del terrorista moderno disprezzo del rischio, maneggio delle risorse tecnologiche, copertura di simulazione e dissimulazione assoluta, assenza di regole, licenza di uccidere sono quelli dell'agente d'intelligence. La "guerra", quella che abbandoni la "morte zero" e torni in un certo modo all'antico, è dissimile dal terrorismo. L'ossessione della specularità e dell'illegalità dovrebbe preoccuparsi dell'"intelligence" quanto del frastuono bellico. Salvo che l'invocazione dell'intelligence sia appunto un mero alibi all'inerzia, e si dica "intelligence" per dire: niente.
Il mondo moderno, e presunto globale, dà l'impressione che ci sia il pulsante della fine del mondo, e che basti raggiungerlo, e che oltretutto non sia protetto dal minimo schermo, e sia al contrario offerto ed esibito alla vista: le Torri, appunto, non il Pentagono. Ma è vero? O è vero solo simbolicamente, e dunque si conferma la differenza cruciale fra realtà e simbolo? Simbolicamente, le Torri (più che immaginassero i terroristi, che ci avevano già provato, come i tanti film) sono l'ombelico del mondo, della sua distruzione. Realmente, no. Nel contraccolpo immediato, si è temuto che lo fossero realmente, che a quello i terroristi avessero mirato: il crollo della Borsa, i nervi recisi di un'economia mondiale troppo interdipendente. Non è stato così. Il programma dei terroristi si rivela, a posteriori, troppo poco ambizioso. Occorreva colpire ancora e ancora. Adesso, possiamo immaginare colpi enormi che diventino abituali, emergenze usuali. (Qualcosa di simile all'esistenza di Los Angeles, in attesa del Big One).
D'altra parte, quell'idea delle vulnerabilità estrema concentrata in un punto un'idea da arte marziale, il punto in cui premere con un pollice per uccidere contraddice globalità e rete. Se la rete fosse davvero distesa, ogni punto sarebbe mortale, il mondo finirebbe dappertutto. Sono un po' vere ambedue le cose, dunque ambedue un po' false. Il fatto è che la globalizzazione, che una pressione intellettuale dichiarava ormai compiuta e senza crepe, è semplicemente parziale e progressiva: è arrivata a un punto, può tornare indietro, può andare molto avanti.
Fonte: Repubblica 11/01/2002