TERRORISMO E GUERRE DEL VENTUNESIMO SECOLO

ULRICH BECK

I gruppi terroristici hanno assunto di colpo il ruolo di attori globali in concorrenza a stati e istituzioni Agiscono come organizzazioni non governative della violenza

Con l'11 settembre si è registrata anche la sconfitta delle parole: i concetti di guerra o nemico ora sono fuorvianti Persino il termine "reato" risulta inadeguato

Per sconfiggere la nuova minaccia serve un accordo internazionale Così si offrirebbe una base giuridica alla caccia ai killer L'iniziativa dovrebbe partire dall'Europa

Ma non si tratta né di un'aggressione esterna né dell'aggressione di uno stato sovrano da parte di un altro stato sovrano. L'11 settembre non rappresenta neppure una seconda Pearl Harbor. L'attacco non ha riguardato l'apparato militare USA ma civili innocenti. Quell'atto parla la lingua dell'odio genocida, che non conosce "trattativa", "dialogo", "compromesso", e quindi in fin dei conti neppure una "pace". Persino il termine "nemico" è fuorviante, perché nasce da un immaginario in cui gli eserciti riportano in battaglia vittorie o sconfitte, suggellate da "armistizi" o "trattati di pace". Gli attentati terroristici non sono però neppure un "reato" di competenza della "giustizia nazionale". Altrettanto inadeguato appare l'uso del concetto e dell'istituzione "polizia" per delle azioni i cui effetti distruttivi sono equiparabili a scontri militari. La polizia non è peraltro in grado di fermare attentatori che apparentemente non hanno paura di nulla. Anche il concetto di "protezione civile" perde di significato e così via. Noi tutti viviamo, pensiamo e agiamo secondo concetti zombie, concetti cioè che sono morti, ma continuano a dominare il nostro pensiero e la nostra azione. Se però a rispondere sono i militari, prigionieri dei vecchi schemi, attraverso mezzi convenzionali, ad esempio bombardamenti a tappeto, allora c'è da temere che questa risposta non solo sia inefficace, ma anche controproducente: significa allevare nuovi Bin Laden.

Ma se di fronte a questa realtà il nostro linguaggio si arrende, che cosa è successo veramente? Nessuno lo sa. Non sarebbe allora più coraggioso tacere? All'esplosione delle Torri Gemelle di New York è seguita un'esplosione di silenzio che dice troppo e di azioni che non dicono nulla. Per citare ancora una volta Hugo von Hofmannstahl: "Non mi riusciva più di cogliere la realtà con lo sguardo semplificatore dell'abitudine. Tutto andava in pezzi, e i pezzi in altri pezzi, nulla si faceva più abbracciare da un concetto. Le singole parole mi galleggiavano intorno; si coagulavano in occhi che mi fissavano e che io dovevo a mia volta fissare." Questo silenzio delle parole deve essere ormai infranto, non possiamo tacere oltre.

Anche il concetto di "terrorista" in fondo inganna, al di là della novità della minaccia. Se finora i militari si concentravano sui loro pari, cioè su altre organizzazioni militari di stati nazionali e su come difendersi da loro, oggi a sfidare il mondo degli stati sono le minacce transnazionali da parte di individui e reti che agiscono a livello substatale. Come già prima in ambito culturale, viviamo ora in ambito militare la morte della distanza, sì, la fine del monopolio statale del potere in un mondo civilizzatore in cui in ultima analisi tutto può trasformarsi in un missile in mano a fanatici risoluti. I simboli pacifici della società civile possono essere trasformati in strumenti infernali. Questa non è, in principio, una novità, ma come esperienza fondamentale è ormai onnipresente.

Con le immagini terrificanti di New York i gruppi terroristici hanno assunto di colpo il ruolo di nuovi attori globali in concorrenza agli stati, all'economia e alla società civile. Le reti terroristiche sono in un certo senso "Ong della violenza". Agiscono come organizzazioni non governative (Ong) non territoriali, decentrate, quindi da un certo punto di vista locali, e dall'altro transnazionali. Si servono di Internet. Mentre ad esempio Greenpeace, sfrutta le crisi ambientali e Amnesty International le crisi umanitarie nei confronti degli stati, le Ong terroriste pongono termine al monopolio statale del potere. Da una parte questo significa che il terrorismo transnazionale non è vincolato al terrorismo islamico, ma può legarsi a qualunque possibile obiettivo, ideologia e fondamentalismo. Dall'altra, che bisogna distinguere tra il terrore di gruppi di liberazione nazionale, legati ad un determinato territorio o nazione, e le nuove reti terroristiche transnazionali, che non sono territoriali, agiscono cioè oltre i confini e di conseguenza annullano d'un colpo la grammatica dei militari e della guerra.

I terroristi del passato cercavano di salvare la pelle dopo gli attentati. I terroristi suicidi traggono dal sacrificio della loro stessa vita per un obiettivo una capacità di distruzione spaventosa. L'attentatore suicida è per così dire l'estremo opposto dell'homo oeconomicus. Dal punto di vista economico e morale egli è completamente disinibito e proprio per questo veicolo di assoluta crudeltà. L'azione e l'attentatore suicida sono singolari nel senso letterale del termine. Un individuo non può compiere per due volte attentati suicidi né ciò è necessario alle autorità statali per dimostrarne la colpevolezza. Questa singolarità viene suggellata dalla contemporaneità di azione, autodenuncia, e autoeliminazione.

Per essere pignoli gli stati non avrebbero neppure bisogno di dare la caccia ai terroristi suicidi per incolparli dell'azione. Gli attentatori hanno già ammesso il reato e si sono giudicati. L'alleanza antiterrorismo non catturerà gli attentatori di New York e Washington, loro si sono polverizzati, ma i presunti "mandanti", i "burattinai", i mecenati statali. Ma dove i colpevoli si sono già giudicati da soli, le causalità si perdono, si volatilizzano. Si dice che non si può prescindere dagli stati per costruire reti terroristiche transnazionali. Che non sia invece proprio l'assenza dello stato, l'inesistenza di strutture statali funzionanti a offrire il terreno ideale per le attività terroristiche? Non potrebbe darsi che incolpare stati e mandanti continui a riflettere una forma mentis militare e che invece ci si trovi sulla soglia di una individualizzazione del conflitto, in cui la "guerra" non viene più fatta solo dagli stati contro altri stati ma da individui contro gli stati?

La potenza delle azioni terroristiche aumenta in presenza di una serie di condizioni: con la vulnerabilità della nostra civiltà, con la presenza mediatica globale della minaccia terroristica, con il presidente Usa che giudica gli attentati una minaccia alla "civiltà", con la disponibilità dei terroristi a autoeliminarsi. Infine, il terrorismo aumenta in modo esponenziale la sua pericolosità con il progresso tecnologico. Con la tecnologie del futuro, la tecnologia genetica, la nanotecnologia, e la robotica, apriamo "un nuovo vaso di Pandora" (Bill Joy). La manipolazione genetica, le tecnologie di comunicazione e l'intelligenza artificiale che possono essere anche portate a fondersi, sfuggono al monopolio statale del potere e, a meno che non venga messo un paletto efficace a livello internazionale, finiranno per spianare la strada ad una individualizzazione del conflitto.

Così chiunque potrebbe produrre senza troppa difficoltà in laboratorio una peste che, grazie a tempi di incubazione mirati, possa essere usata come minaccia nei confronti di determinate popolazioni, in pratica una minibomba atomica di tecnologia genetica. E non è che uno dei molti esempi. La differenza rispetto alle armi atomiche e a quelle biologiche è notevole. Si tratta di innovazioni tecnologiche basate su conoscenze, che possono essere facilmente diffuse e si modificano continuamente, sfuggendo a quelle opportunità di controllo e di monopolio da parte dello stato cui invece sono soggette le armi atomiche e chimicobiologiche, perché utilizzano determinati materiali e risorse (uranio utilizzabile per le armi, costosi laboratori). Delegare agli individui l'azione contro gli stati sarebbe come aprire politicamente il vaso di Pandora: non verrebbero abbattuti solo i muri oggi esistenti tra militari e società civile, ma anche quelli tra innocenti e colpevoli, tra sospettati e insospettati. Finora la legge ha fatto a riguardo una distinzione netta. Ma se incombesse l'individualizzazione del conflitto, toccherebbe al cittadino dimostrare di non essere pericoloso, perché in queste circostanze alla fine tutti cadrebbero in sospetto di essere potenziali terroristi. Ognuno di noi dovrebbe quindi accettare di essere controllato "per motivi di sicurezza" anche non avendo dato adito a nessun sospetto concreto. Così l'individualizzazione della guerra finirebbe per condurre alla morte della democrazia. Gli stati sarebbero costretti ad allearsi con altri stati contro i cittadini, per allontanare i pericoli che li minacciano da parte di questi ultimi.

Alla fine però verrebbe così a cadere anche una premessa ideale nel dibattito condotto finora sul terrorismo, e cioè la differenza tra terroristi "buoni" e "cattivi": nazionalisti da rispettare, e fondamentalisti, da disprezzare. Ammesso che nell'era moderna degli stati nazionali si siano trovate giustificazioni a questi giudizi e distinguo, nella prospettiva di un'eventuale individualizzazione del conflitto esse assumono l'aspetto di una perversione morale e politica.

È possibile una risposta politica a questa sfida? Vorrei richiamare un principio e precisamente quello di giustizia. Ciò che nel contesto nazionale contravviene al senso della giustizia del mondo civilizzato, il fatto cioè che le vittime degli attentati assumano contemporaneamente i ruoli dell'accusa, del giudice e del potere esecutivo, questo tipo di "autogiustizia" deve essere superato anche a livello internazionale. Anche se i rapporti tra gli stati non sono ancora arrivati a questo livello, l'alleanza globale contro il terrore deve fondarsi sul diritto. Ne consegue che deve essere redatta e ratificata una convenzione internazionale contro il terrorismo che non si limiti a chiarire concetti, ma offra una base giuridica alla caccia interstatale ai terroristi, creando uno spazio giuridico comune universale che tra l'altro preveda la ratifica obbligatoria dello statuto del tribunale internazionale da parte di tutti gli stati, Usa compresi. L'obiettivo sarebbe quello di rendere punibile il terrorismo come reato contro l'umanità. Gli stati che rifiutano questa convenzione dovrebbero fare i conti con il potenziale globale delle sanzioni imponibili da parte di tutti gli altri stati. Non sarebbe opportuno che l'Europa facesse propria questa istanza, alla luce della sua storia, per meglio definire il proprio profilo politico nell'alleanza globale e contribuire al successo della lotta al terrorismo, in controtendenza rispetto alle dinamiche militari?

L'autore insegna Sociologia all'università di Monaco e alla London School of Economics

Fonte: Repubblica 28 novembre 2001