QUEI NEMICI SENZA VOLTO CHE MINACCIANO L'OCCIDENTE

Dopo la fine della Guerra Fredda agli Usa era venuta a mancare una ideologia ostile ben identificabile

Ora gli Stati Uniti hanno un avversario senza volto, e non si sentono più invulnerabili

JEAN DANIEL

SE SI fa solitamente coincidere la nascita del XX secolo con la guerra del 1914, gli ottimisti vorrebbero porre all'inizio del XXI la nascita dell'euro, la moneta comune a oltre 300 milioni di liberi cittadini: un evento storico senza precedenti, di enorme portata. Mentre per i pessimisti, gli attentati dell'11 settembre rivestono un'importanza ancora maggiore. Ma non sempre si deve essere sicuri del peggio; e non è escluso che persino da un male quale Bin Laden possa nascere un bene per tutti noi, e soprattutto per i musulmani.
Secondo Henry Kissinger, dopo la fine della guerra fredda, agli Stati Uniti e alla Nato era venuto a mancare un nemico. E a conclusione del suo grande libro, "Diplomazia", Kissinger scrive: "Una minaccia chiaramente identificata e un'ideologia ostile: queste le due caratteristiche della guerra fredda che ormai non sono più d'attualità". Come sostituirle? Dove dirigersi per dominare il mondo e "assicurargli il progresso e la libertà"? Su questo punto Kissinger, lungi dall'arrivare a conclusioni quali la fine della storia o lo scontro tra civiltà, risponde con un proverbio spagnolo: "Le strade, viandante, non ci sono. Sarai tu a tracciarle camminando".
Ma quest'assenza di un nemico non ha impedito a nessuno di descrivere la potenza americana come "senza eguali", "irraggiungibile" e soprattutto "invulnerabile". Si parlava volentieri di "pax americana", anche quando non si intendeva necessariamente alludere alla "pax romana", alla gloria e alla vastità di quell'Impero dopo la presa di Cartagine. Ma l'impero americano, tanto più imprescindibile in quanto fondato non sulla coercizione ma sul contratto, si presentava – e si presenta tuttora, soprattutto dopo la vicenda del Kosovo dove c'è stato bisogno del suo soccorso – come un "imperialismo della libertà".
Dopo gli attentati dell'11 settembre, non si è tardato a comprendere che il secolo era iniziato con due anni di ritardo. Il mondo, in preda allo stupore e talvolta al terrore, ha scoperto che se la potenza americana rimaneva forse ineguagliabile e irraggiungibile, non era ormai più invulnerabile. Era la fine dei i santuari, la fine dello scudo. E dunque anche la fine di un ordine mondiale, sia pure ingiusto.
L'Occidente nel suo complesso si è sentito ferito e orfano. Le voci discordanti si sono levate a distanza di tempo, e solo in merito ai bombardamenti. Persino nel mondo arabo e in America latina – cioè in regioni ove si poteva comprendere un'euforia vendicativa davanti a questo provvidenziale ribaltamento – prevaleva l'impressione di un crollo storico, che rischiava di provocare non meno insicurezza e disordine della caduta del muro di Berlino e dell'implosione del sistema sovietico, nel novembre del 1989. Dopo tutto, anche dopo la morte di Stalin, nel 1953, metà della popolazione russa pianse sinceramente.

Per parte mia, ho dato meno importanza alle diatribe antiamericane di qualche erede del nostro caro e vecchio terzomondismo che non alla rapida decisione dei tradizionali nemici dell'"imperialismo" di impegnarsi nella coalizione antiterroristica dominata dagli Usa. Per di più, in un primo tempo il mondo è stato sorpreso e impressionato dal patriottismo e dal civismo della società americana. Una società multirazziale, multietnica, multiconfessionale. Molti si erano chiesti fino a che punto quella convivenza fosse una libera scelta. Ora abbiamo potuto vedere all'opera questa nuova realtà dell'Americamondo: un subcontinentemondo ove gli immigrati continuano ad affluire a centinaia di migliaia dall'intero pianeta. Ed è veramente quasi un miracolo che davanti alla barbarie degli attentati contro gli Stati Uniti, all'orgoglio nazionale offeso, le minoranze americane abbiano incominciato, e poi continuato a fare a gara nell'affermare la propria appartenenza all'impero minacciato. Nessuno, laggiù, si è mai fatto beffe dell'inno americano.

Contemporaneamente però, i media più prestigiosi degli Stati Uniti hanno avuto un soprassalto che in Francia, quando qualcuno ha voluto imitarlo, è stato immediatamente tacciato di antiamericanismo. Sono stati in molti a chiedersi – senza per questo essere accusati di attentare alla dignità della grande nazione – perché mai gli Stati Uniti abbiano potuto suscitare tanto odio; e la domanda è rimbalzata praticamente ovunque, tra le élites politiche, universitarie e letterarie. I comportamenti degli Stati Uniti in occasione dei molteplici interventi fuori dai loro confini, il fallimento della loro politica estera nei paesi dell'Islam, il ricordo che di volta in volta hanno lasciato in Guatemala, in Panama, in Salvador, in Cile, nella Repubblica Dominicana, nella Grecia del colonnelli, in Pakistan, nelle Filippine del presidente Marcos, in Indonesia dopo il 1965, in Iran ai tempi dello scià, in Arabia Saudita, nello Zaire e ovviamente in Vietnam.

Perciò il segretario generale dell'Onu Kofi Annan e i leader dell'Unione europea non hanno tardato a comprendere che gli Stati Uniti non possono ormai più affermare la loro onnipotenza militare in base alla pura e semplice pretesa di essere la patria della democrazia e del progresso, né sostenere che ogni attacco alla loro sicurezza costituisca una minaccia contro quanto di meglio sia stato inventato dall'umanità. E sono ormai in molti, in troppi a pensarla in questo modo.

Come hanno dovuto constatare i membri della coalizione, l'autocritica delle élites americane si è fatta più flebile nel momento in cui la spedizione militare ha ottenuto risultati rapidi e – anche se molto relativamente — "puliti". E precisamente in quello stesso momento gli europei, gli occidentali e i loro alleati hanno appreso che le forze armate americane non intendevano più avere tra i piedi i contingenti di altri paesi. Il loro concorso, pure ispirato a generosità e spirito di cooperazione, avrebbe finito a loro avviso per ritardare le operazioni militari con la pretesa di influenzarne gli orientamenti in vista di secondi fini politici. Gli Usa hanno quindi opposto un puro e semplice rifiuto a tutte le offerte di aiuti militari nelle operazioni condotte n Afganistan. E alla fine si sono limitati a concedere allo zelante Tony Blair l'ingrata direzione delle forze di mantenimento della pace. All'improvviso, con buona pace dell'impegno di consultazione ostentato da George W. Bush nei confronti di Kofi Annan e di vari capi di stato (ma più in particolare di quelli della Cina, della Russia, dell'India e del Pakistan), ci siamo trovati alle prese con le manifestazioni di imperiale sufficienza di una crociata antiterroristica puramente americana. Come se volessero farci dimenticare che stavano combattendo anche con noi e per noi.

Già due anni fa alla Casa Bianca c'era una forte tentazione di portare la guerra altrove, e in particolare in Iraq. La lobby antiirachena è oggi più influente che mai, e il suo dossier contro Saddam Hussein è allarmante. Ma è possibile che George W. Bush ceda a una tentazione del genere? E in caso affermativo, lo farà senza aver prima proceduto a una revisione delle sue alleanze con il Pakistan e l'Arabia Saudita? Senza aver almeno imposto agli israeliani e ai palestinesi di concludere accordi per una "convivenza fredda"? E senza aver ottenuto dagli israeliani l'impegno ad astenersi dal partecipare alle operazioni contro l'Iraq?

Quanto al conflitto tra israeliani e Olp, evidentemente non si può sostenere che sia anche in piccola parte all'origine del terrorismo panislamista. No, Arafat non è Bin Laden. Gli attentati degli emuli di Bin Laden sono stati preparati nel momento in cui Arafat e Barak erano ormai vicinissimi a concludere un accordo. D'altre parte, Israele non c'entra affatto con i massacri che in Algeria hanno causato ben 130.000 vittime – dieci volte quelle della prima e della seconda Intifada. Ma tutto questo non ha alcuna importanza in una guerra di simboli, ove i palestinesi giocano oramai un ruolo a lungo detenuto da Israele: quello delle vittime. E non sarà il primo ministro Ariel Sharon, se mi si passa l'espressione, a togliere loro questo vantaggio: il divieto imposto ad Arafat di recarsi a Betlemme, trasformando il leader musulmano in un martire cristiano, è forse il più bel regalo che mai sia stato fatto a un nemico politico.

Per tornare al secolo appena iniziato, il fatto dominante rimane questa "pax americana", più coercitiva che mai, poiché l'America, non più invulnerabile, tende a irrigidirsi e a radicalizzarsi fino a non tollerare più nessun freno o controllo. L'iperpotenza è contestata dall'iperterrorismo, che costituisce senza dubbio quell'"ideologia ostile" di cui parlava Kissinger, ma non certo una "minaccia chiaramente identificata".

Dunque abbiamo ora diverse strade davanti a noi. Non possiamo assolutamente fare a meno di un nemico? Eccolo trovato! Un nemico che uccide milioni di bambini su questo pianeta, con la fame, l'Aids, l'addestramento agli attentati suicidi, l'occupazione militare, il razzismo, l'odio. Combatterlo è un obiettivo esaltante per l'Europa.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Fonte: Repubblica 10/1/2002