La
Bibbia di Naomi sfida il potere dei brand «Nike, Adidas e tutte le grandi
marche non vendono più prodotti ma identità culturali che ci inglobano»,
denuncia la giornalista
Comelli Elena
CULT No Logo, il libro della Klein, ha
superato le 100 mila copie La Bibbia di Naomi sfida il potere dei brand «Nike,
Adidas e tutte le grandi marche non vendono più prodotti ma identità
culturali che ci inglobano», denuncia la giornalista. Ci avevano promesso cieli
immensi, emozioni forti, uno stile di vita libero e anticonformista, ma ci
ritroviamo con un paio di scarpe da ginnastica, un' automobile e un laptop. Le
grandi marche dominano la nostra vita offrendo soluzioni globali per ogni tipo
di problema. «Se sei Starbucks - spiega la nuova profetessa dell'
anticonsumismo, la giornalista canadese Naomi Klein -, non ti basta più vendere
una buona tazza di caffè¨. Devi dimostrare che ti sta a cuore l' idea di
comunità . Allora fondi una rivista di lifestyle che rafforzi l' identità
del tuo marchio e magari lanci una linea di oggetti per la casa. Per creare uno
stile originale che induca la gente a trasferircisi dentro con armi e bagagli».
Ma a metterci in guardia dall' ossessione consumistica adesso c' è No Logo, la
Bibbia del popolo di Seattle, un volumone di 500 pagine scritto da Klein. A un
anno dalla prima uscita, il libro-simbolo della rivolta contro la
mercificazione del pianeta ha venduto centomila copie e trasformato la sua
autrice nella «persona più influente
del mondo sotto i 35 anni». La definizione del London Times potrebbe sembrare
eccessiva, ma in effetti Naomi Klein ha colpito con i suoi strali il centro
nevralgico della società postindustriale. Tipico prodotto della borghesia
ebraica di Montreal, figlia di una regista femminista e di un medico militante
di sinistra, Naomi ha passato la sua adolescenza a contestare i genitori dal
punto di vista del brand-junkie, cioè¨ del ragazzo «marchio-dipendente» che non
ha il coraggio di uscire di casa senza avere addosso il logo della Nike o della
Adidas. «Ne sono uscita con un atto di
forza da questa condizione - racconta Naomi - come un tossicodipendente che si
libera dalla droga». E aggiunge: «Quando ho cominciato a lavorare al progetto
di No Logo, oltre cinque anni fa - spiega - la rivolta organizzata contro le
multinazionali non esisteva ancora. L' ho vista crescere mentre scrivevo. Le
campagne contro Nike, Monsanto o Shell non riuscivano a generare vere
manifestazioni di massa. Il movimento si è compattato solo recentemente, quando
gli effetti nocivi del «marketing uber
alles» hanno cominciato a diventare talmente evidenti da convincere anche i più
scettici». Nel libro, che perfino il Journal of Marketing ha raccomandato agli
addetti del settore, Klein denuncia il «tradimento» architettato dalle multinazionali nei confronti dei
propri clienti. «La dittatura del
marchio - sostiene - riduce il prodotto a un accesso rio fortuito del business.
Scarpe, computer o hamburger possono anche essere di pessima qualità .
Contano solo le idee, l' identità culturale del marchio, che s' insinua
nella cultura giovanile, sviluppando un rapporto talmente predatorio con i suoi
clienti da ridurli alla dipendenza assoluta. Per vendere di più, le
multinazionali si appropriano le nostre stesse idee e ce le ripropongono nelle
loro pubblicità occupando sempre nuovi spazi. Ma alla fine c' è sempre
un tradimento, perché queste aziende non vendono idee. Vendono scarpe,
sigarette o impianti stereo. Crediamo di comperare un' idea, ma quando
arriviamo a casa abbiamo soltanto un paio di jeans, che magari non ci servono
nemmeno. Ma oggi la gente ha iniziato a cercare soprattutto un' esperienza
libera dai tentacoli del marketing». E a volte la ottiene. Radiohead, una delle
pop-band più influenti e interessanti sulla scena, si è ispirata alle teorie
espresse in No Logo: durante la loro ultima tournee i musicisti britannici si
sono rifiutati di trasformarsi in veicoli pubblicitari e si sono concessi il
lusso di un palcoscenico completamente bianco, privo di qualsiasi logo e quindi
di sponsor. Che sia l' inizio della fine?
FONTE: Corriere economia 26 febbraio 2001