I padroni del profitto High Tech
I fondi speculativi L'alleanza tra Silicon Valley, "venture capital" e Wall Street ha significato la crescita abnorme del capitale finanziario
WALDEN BELLO *



NoLogo è accattivamente. Ma l'analisi di Naomi Klein ha diversi buchi, e non insignificanti. La tesi essenziale sviluppata nel libro - edito in Italia da (Baldini&Castoldi, n.d.r. - è che il capitalismo nell'era della globalizzazione ruota attorno alla marca, il logo. I logo sono ovunque, invadono spazi pubblici, sport, spettacolo. Gusti, standard culturali, perfino valori sono sempre più definiti da mega-marche come Nike. L'"Era della Marca" vede una nuova relazione tra il produttore e il suo prodotto, in cui la marca è sempre più separata dal prodotto stesso per diventare l'essenza di ciò che si vende. Basta guardare Nike, bestia nera del libro, e il suo direttore esecutivo Phil Knight. Nike, scrive Klein, "ha cominciato come azienda identificata con diffuse scarpe sportive high-tech, ed è cresciuta sulla mania del jogging che ha preso l'America negli anni '60 e '70. Ma è negli anni '80, calmata la mania del jogging, quando Reebok si è accaparrata il nuovo il mercato alla moda delle scarpe da aerobica, che Phil Knight ha trasformaro Nike da produttrice di scarpe a promotrice di uno stile di vita, proponendosi come 'l'essenza dell'atleticità'".

Il passaggio da vendere un prodotto a vendere un marchio ha relegato la manifattura in un ruolo subordinato nel capitalismo contemporaneo, spiega
Klein. Gli innovatori delle mega-marche hanno trovato che appaltare la produzione a fabbricanti anonimi permette di risparmiare soldi da riusare invece per promuovere il marchio. Questo significa chiudere le fabbriche proprie, licenziare, e passare il lavoro sporco a loschi operatori taiwanesi o coreani che si muovono da una "zona speciale" all'altra in Asia.
Del resto, ciò che Nike e le altre mega-marche hanno fatto ai lavoratori nel Sud vale anche per i giovani commessi che vendono i loro prodotti nel Nord: eliminati i posti di lavoro permanenti e la sicurezza sociale, ora pagano loro il salario minimo, li tengono part-time, e tagliano gli ultimi legami non necessari contrattandoli attraverso agenzie di lavoro interinale.
Il risultato è che hanno voluto strafare. La combinazione di pubblicità invasiva, pirateria culturale e precarizzazione della forza lavoro ha scatenato infine una reazione anche tra coloro i cui gusti, stili e valori le mega-marche avevano lavorato tanto: i giovani. Negli anni '90, in una serie di ben pubblicizzati conflitti stile Davide contro Golia, l'opinione pubblica ha simpatizzato con Davide: Nike di fronte alla campagna globale contro il suo marchio; Shell contro Greenpeace per la piattaforma Brent Spar nel mare del Nord, McDonald's che denuncia per diffamazione due ambientalisti a Londra e si ritrova un effetto boomerang. Alla fine degli anni '90, queste e altre campagne si sono fuse in un vero movimento globale contro le multinazionali: un movimento intensamente politico ma a differenza della vecchia sinistra anche decentralizzato, plurale, non gerarchico, intensamente connesso via Internet e decisamente non disposto a compromessi. Scritto prima della rivolta di Seattle che ha bloccato il vertice del Wto nel dicembre 1999, No Logo suona profetico.
No Logo è brillante, ma sbaglia.
Klein ci dice che nel capitalismo odierno la produzione ha lasciato il posto d'onore al marketing. Ma corre troppo. Il decentramento della manifattura sarà pure vero nel caso delle calzature e abbigliamento, nei servizi, o nello spettacolo, dove il contenuto tecnologico è basso in confronto ad altri settori dell'economia. Ma non è certo il caso dei settori che guidano il resto dell'economia, come l'industria elettronica. Intel, ad esempio, funziona coma una marca di vecchio tipo. Non denota uno stile, come il logo di Nike; denota che stai usando i migliori chips esistenti. Così pure il logo di Cisco Systems o di Microsoft Windows. Il marketing serve a differenziare prodotti altrimenti simili nell'industria leggera, distribuzione, servizi. La manifattura conta nell'industria ad alto contenuto tecnologico.
Come nelle precedenti epoche del capitalismo, il margine nella produzione oggi è assicurato da disponibilità di capitali, monopolio dell'alta tecnologia, e controllo sui mercati. E quest'ultimo non è solo funzione di un buon marketing: dipende dalla capacità di generare capitali che ti diano l'accesso a tecnologie di punta che si traducano in un prodotto superiore. Certo l'industria leggera, la distribuzione e l'entertainment sono settori critici dell'economia, ma danzano al ritmo delle rivoluzioni dell'alta tecnologia. D'altra parte anche nell'industria leggera, l'enfasi sul marketing invece che sulla produzione è in realtà una mossa difensiva. Quando i produttori asiatici hanno cominciato a invadere il mercato statunitense con prodotti non solo a buon mercato ma anche ottimi, occupare la parte superiore del mercato e lasciare agli asiatici quella inferiore è stata una soluzione solo temporanea, perché in breve gli asiatici hanno saputo eguagliare le aziende nel Nord nel design e nella qualità come dimostrano ditte di Hong Kong come Bossini e Giordano. Le piccole aziende del tessile e abbigliamento hanno sperato allora di salvarsi chiedendo ai loro governi di limitare l'import dall'Asia attraverso quote; le mega-marche al contrario hanno scelto una difesa innovativa: appaltare la produzione ai brutali imprenditori asiatici, e intanto tenerli in riga con il ferreo sistema dei "diritti di proprietà intellettuale" per proteggere i loro marchi.

Ecco perché sono importanti gli accordi sugli "aspetti relativi al commercio dei diritti di proprietà intellettuale", Trips, chiave di volta degli "Accordi generali su commercio e tariffe-Organizzazione mondiale del commercio" (Gatt/Wto). Il capitolo del Trips sulla protezoione dei marchi potrebbe essere stato scritto dagli avvocati di Levi Strauss o Nike, e stupisce che
Klein eviti sistematicamente di esaminare la relazione tra le mega-marche emergenti e la spinta del governo Usa a incorporare i Trips negli accordi generali sul commercio del Wto. Ma la parte più importante dei Trips è quella sui brevetti, in particolare quelli sui processi tecnologici che sono al cuore della produzione ad alta tecnologia. Il regime dei Trips assicura una protezione generalizzata dei brevetti per 20 anni. Dunque allunga in modo sostanziale la durata della protezione per i semiconduttori o i chips dei computer. Istituisce norme internazionali draconiane contro i prodotti ritenuti violare i diritti di proprietà intellettuale. E addossa l'onere della prova sul presunto violatore del brevetto - un capovolgimento del principio per cui sei considerato innocente fino a prova della colpevolezza.
I Trips sono stati pensati soprattutto per le varie Microsoft, Pfizer e Monsanto. Sono queste aziende ad alta intensità di sapere che guidano l'economia Usa. Il loro gioco è il monopolio, e gli accordi Trips del Wto sono il loro strumento. L'innovazione nei settori industriali ad alta intensità di conoscenza - software e hardware elettronico, biotecnologie, laser, optoelettronica, la tecnologia dei cristalli liquidi, per nominarne qualcuno - è ciò che determina il potere economico nel nostro tempo. E quando qualsiasi azienda in Asia o altrove cerca di innovare, vuoi nel disegno di chips o nel software, è costretta a incorporare parecchi processi e prodotti coperti da brevetto, di solito proprietà di giganti come Microsoft, Intel o Texas Instruments. Come i coreani hanno amaramente imparato, le molteplici ed esorbitanti royalties da pagare alla "mafia high tech" americana mantengono bassi i profitti bassi e riducono gli incentivi all'innovazione locale.
Il probabile esito è che queste aziende asiatiche, come Samsung o perfino Acer, seguiranno la via dei cugini a bassa tecnologia del tessile e abbigliamento e lavoreranno sotto appalto per le varie Sun, Apple o Intel. I Trips permettono al leader tecnologico, in questo caso gli Stati uniti, di influenzare - se non determinare - il ritmo dello sviluppo tecnologico e industriale nei paesi industrializzati rivali, nei paesi "di nuova industrializzazione", e in quelli in via di sviluppo.
Klein perde di vista il punto centrale: se il marketing è diventato così feroce e innovativo è perché la globalizzazione acutizza la vecchia contraddizione che segna il capitalismo dalla sua nascita: le crisi di sovrapproduzione o sotto-consumo.

Il capitalismo è segnato da cicli di espansione e contrazione. Nel ciclo attuale i profitti hanno smesso di crescere nel 1997. La capacità produttiva è enorme ovunque, e le aziende hanno cercato di frenare il calo dei profitti riducendo la concorrenza. Così il vero obiettivo delle maggiori mega fusioni e mega "alleanze" degli ultimi anni è soprattutto eliminare la concorrenza: l'unione Daimler-Benz/Chrysler/Mitsubishi, l'assorbimento di Nissan da Renault, la fuzione Mobil/Exxon, l'accordo Bp/Amoco/Arco, la "Star Alliance" nelle compagnie aeree.
La capacità produttiva dell'industria Usa di computer cresce del 40% annuo, ben più del prevedibile aumento della domanda. Nell'industria automobilistica, si prevede che la fornitura mondiale raggiunga gli 80 milioni nel periodo 1998-2002, mentre la domanda salirà solo del 75% di questo totale. Anche qui, il consolidamento in appena una ventina di attori globali è servito a ridurre la capacità produttiva. Per usare le parole dell'economista Gary Shillings, oggi "c'è un'offerta eccessiva di quasi tutto". E più le aziende tentano di aumentare i profitti limitando la concorrenza, più profonda diventa la crisi, dato che questo si traduce in licenziamenti e trasformazione della forza-lavoro in una massa di lavoratori part-time, temporanei, free-lance, a domicilio. E ciò significa tagliare la potenziale domanda.

La distribuzione del reddito è un altro fattore che limita la domanda e induce sovra-capacità produttiva. Benché l'economia Usa sia stata in espansione negli anni '90, è solo intorno al 1997 che i salari reali hanno registrato un piccolo aumento dopo anni di declino o stagnazione. Come ha sottolineato Robert Brenner, la massiccia ristrutturazione per recuperare redditività, nei 16 anni tra il 1979 e il 1995, ha spinto il 60% più basso della forza lavoro Usa a lavorare per salari sempre più bassi, tanto che alla fine di quel periodo il loro salario era del 10% più basso che all'inizio. La ristrutturazione, che avrebbe dovuto rendere l'economia Usa super-competitiva, ha invece combinato lo sviluppo di un'enorme capacità produttiva con la peggior distribuzione del reddito di tutti i paesi avanzati.
Un altro meccanismo usato dalle grandi aziende per risolvere la crisi di sovrapproduzione è cercare nuovi mercati. Negli ultimi vent'anni la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, e poi il Wto, hanno spinto le economie del Sud a liberalizzare commercio e finanza. Ma questo ha aperto alle multinazionali solo un mercato di classi medie ed èlites estremamente limitate, mentre ha accresciuto povertà e diseguaglianze nel mercato di massa. Così il divario tra capacità produttiva capitalista e potere d'acquisto della gran parte dei partecipanti al sistema è ancora più schiacciante a livello globale. Il numero di persone sotto la soglia di povertà è aumentato da 1,1 miliardi nell'85 a 1,2 miliardi nel '98 e dovrebbe raggiungere 1,3 miliardi quest'anno. In base alla proporzione di persone in povertà, oggi ci sono 48 paesi classificati come "meno sviluppati": tre più di dieci anni fa. La diseguaglianza del reddito è un indicatore ancor più chiaro: uno studio su 124 paesi che rappresentano il 94% della popolazione mondiale mostra che il 20% più ricco della popolazione ha aumentato la sua parte di reddito globale dal 69 all'83%.

Le istituzioni di Bretton Wood e il Wto hanno avuto ul ruolo critico nel processo di impoverimento globale, ma figurano a malapena nello schedario criminale di
Klein. Eppure, ancora più delle singole aziende, queste istituzioni hanno un posto di spicco tra gli obiettivi del movimento anti-globalizzazione. Sono considerate il gendarme delle regole globali emanate a beneficio delle multinazionali, ed è vero che delegittimare queste istituzioni produrrà più incertezza per le multinazionali che operano nel Sud.
Klein ignora anche la centralità del capitale speculativo in quest'epoca. Eppure, proprio a causa delle crisi di sovrapproduzione e redditività nel settore manifatturiero, l'economia Usa e globale è sempre più guidata dalla finanza e da attività speculative. I guadagni in calo nelle industrie chiave hanno portato a spostare sempre più i capitali dall'economia reale per spremere "valore" dal valore già creato nel settore finanziario. Hanno spinto la liberalizzazione dei mercati finanziari per permettere il libero flusso di capitali, in cerca di margini di guadagno sempre più sottili. A questo proposito, il ruolo del Fondo monetario internazionale (Fmi) è stato centrale nell'eliminare le restrizioni al movimento di capitali nelle economie asiatiche e di altre regioni in via di sviluppo.
Ne è risultato un gioco di arbitraggio globale, giocato principalmente da operatori finanziari Usa. Il capitale si è mosso da un mercato finanziario all'altro cercando di strappare profitti sfruttando le imperfezioni dei mercati globali attraverso i differenziali nei tassi d'interesse. Gli hedge founds, i fondi speculativi, hanno condotto transazioni simultanee su diversi mercati, cercando di trarre guadagno dalla differenza tra valore nominale della valuta e valore "reale". I manager dei fondi sono entrati nel mercato con compravendite azionarie a brevissimo termine, stile "mordi e fuggi", tipo comprare azioni a valori artificialmente gonfiati, poi venderle e farci la cresta. Attratti dagli alti tassi d'interesse ufficiali e i tassi di cambio fissi, investitori speculativi hanno alimentato le bolle del mercato immobiliare e di quello azionario, scoppiate infine con la débacle finanziaria asiatica del 1997 e con le crisi finanziarie russa e brasiliana del 1998.

L'intreccio tra capitale speculativo e aziende dell'alta tecnologia è un'altra dinamica chiave di quest'epoca di capitalismo guidato dalla finanza. Sempre di più, la relazione tra Wall Street e il complesso Silicon Valley/Seattle si è allontanato dalle dinamiche dell'economia reale. Quando la sovrapproduzione ha tolto redditività alla cosiddetta Old Economy, il furbo capitale speculativo è emigrato sui titoli azionari dell'alta tecnologia; qui ha preso piede un capitalismo virtuale basato sull'aspettativa di futuri profitti più che su profitti reali. Le operazioni di Wall Street sono diventate così indistinguibili dal gioco d'azzardo a Las Vegas. La New Economy era in sostanza una bolla speculativa, e tutti sapevano che sarebbe prima o poi scoppiata, come poi è successo.
Naomi
Klein fa un ritratto senza precedenti della cultura del capitalismo in epoca di globalizzazione, e dell'emergere del movimento anti-globalizzazione. Ma il ritratto è incompleto e unidimensionale. Nike e Tommy Hilfiger non sono nella stessa classe di Intel, Microsoft, del capitale a lungo termine, Cisco Systems, Citigroup, l'alta tecnologia e i giganti finanziari che guidano il resto dell'economia. Qui, non sono le sinergie o l'imperialismo del marchio che muovono le trasformazioni, ma la classica crisi di sovraccapacità produttiva che porta all'egemonia del capitale finanziario. In definitiva, il libro è brillante ma sbagliato. Ma quale grande libro è perfetto?

*) Walden Bello, economista, insegna all'Università Chulalongkorn di Bangkok ed è il direttore di Focus on the Global South.
Traduzione di Marina Forti

FONTE: Il Manifesto