Le voci dentro
di Marco Revelli
Il "giro" italiano di Naomi Klein, con il suo No logo, è stato un trionfo. Sale piene, anche di gente "che conta" [si fa per dire]. Talk show televisivi pensosamente impegnati a riflettere sui mali globali [con il trogloditico Brunetta sbertucciato da una platea di madri e casalinghe indignate contro il suo cinismo turbocapitalistico]. Pagine intere dei quotidiani nazionali aperte a una discussione seria sul "popolo di Seattle", dopo che per mesi questo era stato trattato con la sufficienza che si dedica ai fenomeni folkloristici, marginali, eccentrici, comunque fuori dai confini della politica [quella "seria" fatta di governanti e di uomini di partito]. Persino tra le nebbie e i veleni del dibattito tra i Ds è filtrato - grazie all'eco massmediatica di Klein - un pallido, estenuato riconoscimento per i "movimenti antiglobalizzazione" [quelli contro cui, quando erano al governo, programmavano di mobilitare esercito e marina e che oggi, quando al governo ci sono gli altri, riconoscono come una realtà con cui confrontarsi]…
Come si spiega tanto successo?
Credo che molto si debba alla "persona" di Naomi Klein, alle sue caratteristiche, come dire?, anagrafiche: americana, trentenne, donna. Cioè al "luogo" da cui lancia lo sguardo, alla generazione cui appartiene, al punto di vista femminile con cui guarda il mondo.
No logo è un libro che ci giunge dal cuore dell'impero. Da una zona libera [almeno parzialmente] di quel cuore - il Canada delle residue sensibilità europee, da sempre punto d'osservazione obliqua, vicino ma esterno [prospiciente] alla convulsa, prepotente realtà statunitense -, ma pur sempre da un luogo tremendamente vicino al centro del mondo. Racconta in parte cose già note, fenomeni già intuiti, e anche descritti sia pure con minore sistematicità da altri autori, ma lo fa con la forza [potremmo dire l'autorità] del testimone oculare: di chi dall'epicentro descrive un terremoto e ne segue le onde lunghe. Solo a una come lei poteva capitare la "coincidenza globale" di incontrare a Kawasan Berikat Nusantar, nella periferia industriale di Giacarta, un gruppo di operaie che cucivano i medesimi impermeabili di foggia lunga per il marchio "London Fog" che, fino a qualche anno prima, erano stati cuciti nella medesima fabbrica di Toronto in cui è stato ricavato, dopo un'adeguata ristrutturazione, il loft in cui essa abita attualmente. O di frequentare i campus in cui le grandi transnazionali globali che devastano il mercato del lavoro asiatico investono i propri soldi, colonizzando persino i cessi con il proprio onnipresente logo, e di registrare per così dire in "diretta" la reazione e lo spirito di rivolta di quegli studenti, assimilandola alla propria. Cosicché il suo racconto assume in qualche modo la potenza della potenza che descrive.
In secondo luogo No logo è il libro-testimonianza di una trentenne del "primo mondo". Contiene il punto di vista di una generazione che si è formata interamente al di là della grande trasformazione che ha cambiato il nostro mondo, oltre il Sessantotto, oltre la stessa "antropologia" novecentesca: una generazione che ha oltrepassato la linea d'ombra che separa l'ormai arcaica società industriale dalla nascente società post-materialista [della produzione massificata del simbolico, del consumo personalizzato d'immaginario, della colonizzazione di ogni mondo vitale da parte della forma-merce]; e che insieme l'ha metabolizzata, ha elaborato un inedito codice per il proprio essere contro.
Naomi Klein è un'ex Barbie-girl. Si è formata interamente nel mondo di plastica dei "marchi", tra le merci-simbolo, nell'universo disneyano disegnato dalle corporations e dal consumo identificante. E' stata posseduta da Barbie, plasmata da Barbie, ridotta quasi a una Barbie [fino assomigliarle fisicamente un po'], ed infine si è ribellata alla Barbie e l'ha spezzata. I simboli che ora combatte - la fluorescente conchiglia gialla della Shell, il rosso puzzolente di McDonald's, le lettere elegantemente in corsivo della Coca Cola -, fanno parte del suo paesaggio fisico e mentale di bambina, sono impastati con ciò che vedeva affacciandosi alla finestra della casa paterna e con ciò che sognava la sera addormentandosi, come il gatto con gli stivali, o il principe Filippo della Bella Addormentata nel bosco. D'altra parte ha vissuto direttamente l'esperienza, normale e insieme devastante, di essere chiamata con il nome dei prodotti che usava: di essere ridotta ai propri consumi.
La sua rivolta - come quella di tanti altri, al di sotto dei trent'anni - non nasce dal timore di un futuro sconosciuto che incombe, né dal rifiuto di un'innovazione oscuramente minacciosa perché mai esperita; si dirige, al contrario, contro ciò che si è già attraversato, contro un modo di essere perfettamente conosciuto, tanto conosciuto da essere parte di sé. Come tale ha la forza di ciò che viene "dopo": non esprime le passioni effimere dell'età dell'incantamento [il fascino magico e orrifico di fronte all'impatto dell'innovazione], ma piuttosto il lavoro del disincantamento. Il rimettersi in moto dopo che l'onda di piena è passata, per rimediarne ai danni.
In terzo luogo No logo è uno sguardo femminile sul "mondo nuovo". Cioè uno sguardo apparentemente "debole", capace di lasciar parlare l'eterogeneità del reale, senza pretendere di costringerla a forza e troppo in fretta nelle geometrie dei concetti, negli apparati metallici dell'analisi. E' un libro con molto racconto, molta soggettività, da cui emergono anche i volti di chi di via via testimonia, s'intravvedono i corpi, le vicende personali, le storie umane: il gruppo di operaie raccolte clandestinamente nel bunker filippino a parlare dei loro salari da due dollari al giorno, dei tempi di lavoro massacranti, delle toilettes chiuse a chiave, della gente costretta a orinare nelle bottiglie di plastica vicino alle macchine per non interrompere il lavoro; gli uomini e le donne del Worker's Assistence Center di Cavite, riuniti a raccontare di Carmelita Alonzo, cucitrice della F. T. Fashions, morta di fatica l'8 marzo del '97; Chappell e Hilbrich, incontrati una sera d'ottobre in una rosticceria nei pressi del World Trade Center, e i tanti come loro, testimoni dell'odissea dei lavoratori interinali nelle catene di negozi americani come Borders, Barnes & Noble, Starbucks…
Per questo convince anche al di là dei confini dei già convinti, parla a molti che altrimenti non ascolterebbero, senza bisogno di alzare il tono della voce, di usare l'invettiva, o un'aggettivazione aggressiva né tantomeno "muscolare". Anzi, tanto più convince quanto più il linguaggio si addolcisce, accompagna, lascia parlare i fatti.
Certo, lavora dentro l'autrice, e dentro il libro, la memoria sociale e politica del novecento. La memoria personale [un padre sessantottino, emigrato per sottrarsi alla leva in Vietnam]. E la memoria collettiva, ancora ben visibile nelle strade della vecchia Toronto, negli scheletri delle antiche fabbriche di abbigliamento, nelle scatole di mattoni vuote con i vetri fracassati o nelle ciminiere color avana, sotto le quali, negli anni trenta gli immigrati russi andavano su e giù discutendo di Trotzky e di epici conflitti, e dove si svolse una delle più radicali lotte operaie delle lavoratrici tessili [ricordata oggi da post-moderne e un po' kitch gigantografie in cartapesta]. Ma essa rimane uno stimolo, non una trappola identitaria. Spinge a cercare ancora, le nuove forme del conflitto ormai emigrate su uno scenario più ampio, e più complesso, non a rinchiudervisi dentro in una stanca coazione a ripetere.
Per questo No logo costituisce un'efficace porta d'entrata per una nuova potenziale generazione di ribelli sul terreno del conflitto sociale e dell'azione collettiva, disegnando per essi il nuovo, ancora embrionale, profilo di una dimensione dell'impegno pubblico qualitativamente diversa da quella che abbiamo alle spalle. Una dimensione dove i soggetti del potere sono ormai qualitativamente diversi: non le istituzioni politiche, i poteri statali, i luoghi "del Politico" schmittianamente inteso, ma i nuovi poteri transnazionali, disseminati e accampati lungo le filiere dei flussi economici e finanziari. Poteri deterritorializzati perché onnipresenti, smaterializzati perché capaci di comandare gli uomini attraverso i simboli più che gli apparati… Poteri in senso proprio "biopolitici" perché direttamente implicati con la "nuda vita", con le condizioni quotidiane, materiali e mentali dell'esistenza, impegnati non solo a organizzarla e alimentarla, ma a definirla, a strutturarne le cadenze, a imporne gli "stili". E tuttavia poteri non onnipotenti, al di là delle apparenze. Anzi, fragili. Indeboliti e resi vulnerabili dalla loro stessa forza.
Ed è questo forse il messaggio più interessante del libro: questo individuare nella logica stessa - simbolica, onnipervasiva, in qualche misura sottilmente discorsiva - del potere del "logo", nella sua natura, appunto, linguistica, il tallone d'Achille dei nuovi poteri: il punto di forza che, come nelle arti marziali orientali, può essere sfruttato dall'avversario per rovesciarglielo contro.
Ai nuovi movimenti - ci dice Klein - non servono gli apparati di potenza di cui s'illusero di potersi servire i vecchi, non i massicci apparati organizzativi, non le loro macchine militari o paramilitari per la conquista dei tanti Palazzi d'inverno rivelatisi gelide tombe di ogni speranza di trasformazione, perché è la stessa rete universale del "logo", l'onnipresenza del linguaggio "commerciale" delle corporations transnazionali, il sistema onnivoro di simboli da loro creato, a offrire a chi le combatte la condizione per una comunicazione diffusa e efficace. Lo strumento per essere, senza bisogno di forza né di eccessivi sforzi organizzativi, all'altezza della loro sfida e poterne neutralizzare il potere. Gli esempi non mancano: ultimo in ordine di tempo la sconfitta clamorosa delle multinazionali farmaceutiche sulla questione dei farmaci anti-Aids.
Un buon viatico, sulla via di Genova.
FONTE: CARTA GIUGNO 2001