Sintesi - Oltre il Novecento (Marco Revelli, Einaudi 2001)

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Il libro si articola in tre grandi capitoli: i deliri dell’homo faber, i dilemmi dell’uomo flessibile e i peccati della politica e il futuro dell’uomo solidale.

 

 

Premessa

E’ il secolo degli opposti, sempre estremi, sempre assoluti (democrazia e dittatura, ricchezza e povertà..) lasciando in eredità al XXI secolo grande parte dei problemi irrisolti.

Il paradosso più clamoroso del secolo è forse quello rappresentato dalla contraddizione tra l’onnipotenza dei mezzi tecnici e la drammatica incapacità da esso dimostrata di raggiungere, senza pagare un prezzo sproporzionato, pressoché tutti i propri fini (etici, sociali e politici).

Il Novecento è stato il secolo dell’ homo faber, quello in cui l’uomo è stato ridotto alla sua funzione produttiva, ed il mondo a realtà fabbricata. Sulla centralità del fare è stata immaginata la sua antropologia, sulla pervasività della produzione è stata ridisegnata la società, sulla totalità del lavoro è stata rifondata la sua etica.

Forse nel gene dell’homo faber sono da ricercare anche le radici del male profondo che hanno minato la biografia politica del secolo: i suoi deliri, la smisurata volontà di potenza che l’ha devastato, inestricabilmente interfacciate con una febbrile volontà di liberazione e di emancipazione. Tutto ciò che fino ad ora eravamo soliti attribuire al suo opposto (l’ homo ideologicus) e cioè la sua irrazionalità, il suo rifiuto di accettare logica delle cose.

Revelli afferma in questo passaggio critico del suo libro, è che proprio l’ideologia della logica delle cose, senza più limiti nei contrappesi, che genera questo mondo totalizzante delle cose, la causa della distruttività della politica del ‘900 ogniqualvolta ha preteso di sollevarsi dal livello della pura amministrazione.

Da questo punto di vista, Auschwitz rappresenta il nuovo estremo di caduta, dove letteralmente gli uomini e i loro corpi furono ridotti a materia di lavoro, usati e distrutti come cose.

Ma piuttosto è dentro la vicenda del comunismo che occorre guardare se si vuole, al di fuori della dimensione del male assoluto, gettare lo sguardo sulla natura profonda del secolo e sulle sue tante antinomie selvagge.

Nato dal progetto prometeico di dare forma al potere del lavoro liberato fino a farne principio generale di organizzazione della società, esso ha finito per porre in essere il più potente, esteso apparentemente irresistibile apparato politico di coercizione sulla dimensione sociale dell’uomo. Espressione della libera aspirazione a riscattare l’uomo dalla natura di merce, ha finito per generare un universo interamente pietrificato nel suo profilo di società del lavoro totale: macchina composta da uomini ridotti alle loro funzioni produttive

Il soggetto politico protagonista del 900 è il Militante, in particolare il militante rivoluzionario. Il militante, figura scissa come lo spirito del secolo, si è presentato fin dall’origine come la forma più piena della soggettività ribelle, contrapposto al mondo delle cose. Ed è andato fin dall’origine, costruendo senza sosta, macchine, apparati, strutture orientative, burocrazie, tecnologie del comando e della gestione degli uomini, in una parola "cose" che l’hanno avvolto in un involucro inerte, spesso riducendolo ad una delle tante funzioni della produzione che il ‘900 ha generato. Difficilmente esso saprà varcare la soglia del nuovo secolo.

L’unica figura della ribellione e della solidarietà che pare di vedere, ancora confusa tra le ombre del futuro, è quella fragile e incerta del Volontario. Figura aurorale, dal profilo sfumato, certamente diversa da quella scolpita nella pietra e nel metallo del militante del ‘900. Anzi si potrebbe dire opposta a quella per il suo carattere integralmente "civile" e cioè estraneo ad ogni aspetto "militare" dell’organizzazione, del conflitto e per l’uso che fa della propria debolezza come punto di forza della propria disseminazione come forma di presenza contraria ad ogni idea di centralizzazione. E infine per il suo carattere irriducibilmente impolitico.

  1. I deliri dell’ homo faber

Il 900 come tempo degli assassini. Il secolo che abbiamo alle spalle è stato dal punto di vista quantitativo il più distruttivo dell’intera storia universale.

Una statistica dei morti a causa di guerre indica questa impressionante progressione:

Il 900 rimane il secolo più cruento della storia col suo indice di 44 vittime di eventi bellici ogni mille appartenenti alla popolazione totale interessata, una percentuale di una quindicina di volte superiore a quella dei tempi oscuri delle guerre di religione. Da questi dati si comprende anche il grado di militarizzazione delle società che ha comportato il massiccio utilizzo di uomini e di risorse senza arrestarsi neppure in quest’ultimo decennio.

Si consideri in che nel 1943 risultava impegnata nella guerra quasi la metà della popolazione inglese (di cui il 22% come combattenti e un 23% nella produzione di armamenti), mentre i tedeschi impegnati erano il 37%, gli americani il 35% e sovietici il 53%.

Le spese militari sostenute nella prima guerra mondiale ammontano a circa 5 milioni di miliardi di lire, mentre per la seconda guerra mondiale si ipotizza un costo pari a 12 milioni di miliardi di lire.

I costi della guerra fredda avevano raggiunto la fine degli anni 80 quasi il 30% in più rispetto ai costi medi annui della seconda guerra mondiale e neppure la caduta del comunismo ha interrotto questa corsa folle agli armamenti: la globalizzazione degli anni 90 ha al contrario favorito il rafforzamento dei flussi di materiale bellico dalle metropoli dello sviluppo verso le infinite periferie del pianeta conducendo i paesi del terzo mondo a investire parti terribilmente ampie dei loro bilanci.

Ogni qualvolta la violenza estrema è stata impiegata come mezzo a servizio di una qualche causa, lungi dal permettere il raggiungimento del proprio obiettivo secondo i canoni della razionalità strumentale, essa ha finito col provocare la distruzione del fine stesso o un suo radicale pervertimento, causando talora addirittura l’annientamento del soggetto medesimo che l’aveva posta in essere. La violenza ha dato vita cioè a una sistematica eterogenesi dei fini del tutto inaspettata in una epoca che fatto della calcolabilità e della prevedibilità il proprio dogma.

Quali sono le origini del mostruoso nel nostro secolo?

La prima teoria fa capo al concetto di Gefaelle e cioè la sproporzione tra capacità produttiva e la capacità immaginativa e la conseguente caduta.

Si dimostra l’incapacità di percepire il divario tra la grandezza smisurata degli effetti del nostro agire tecnicamente potenziato e gli strumenti cognitivi per concepirne il significato e rappresentarne il senso. Qui c’è il concetto del troppo grande e c’è l’incapacità dell’uomo di misurarsi con il troppo grande.

La seconda teoria si incentra invece sull’idea di "macchinizzazione" del mondo moderno, o meglio sulla trasformazione delle molteplici componenti del mondo umano in elementi co-meccanici integrati come semplici parti, segmenti, fasi, della mega-macchina in cui è stato trasformato il mondo.

Questi due concetti, la sproporzione e la macchina, si incrociano e si fondono in un punto essenziale e cioè nel lavoro con il suo correlato inevitabile, l’organizzazione.

Lavoravano i comandanti dei campi di concentramento in cui si consumava con tempi e metodi da fabbrica lo sterminio rispettando gli orari d’ufficio, la successione delle fasi di lavorazione, la divisione dei compiti con meticolosa precisione. Lavoravano infine le immense schiere di uomini di marmo che nell’Unione Sovietica staliniana credevano di edificare il mondo nuovo e invece lastricavano il vecchio inferno. Erano lavoratori i quadri di partito che dagli uffici costituivano anzi edificavano la società socialista con la logica degli ingegneri come si progetta una ferrovia o si bonifica una palude; ed erano lavoratori i funzionari del Gosplan che pianificavano i consumi della popolazione dall’ufficio tempi e metodi di una fabbrica.

Paradossalmente quella che avrebbe dovuto essere la risorsa del secolo, lo strumento attraverso il quale l’uomo avrebbe potuto ritrovare se stesso recuperando la propria natura alienata, sembrerebbe tragicamente rivelarsi il medium della perdita. Ma è soprattutto la politica, che confluendo nell’involucro della vita activa che produce un patto scellerato. Il ‘900 è pieno di macchine politiche, le macchine di partito, indispensabili per declinare la funzione di rappresentanza nell’epoca della massificazione della politica.

Dal punto di vista soggettivo si assiste alla nascita della nuova figura sociale dell’operaio totale, che supera le tre figure classiche della tradizione indo-europea e cioè il guerriero, il sacerdote e il contadino. Il processo di sostituzione si era annunciato in forma tragicamente spettacolare sui campi di battaglia della prima guerra mondiale, dove a contatto con la tecnologia onnipotente del massacro meccanizzato, il soldato si era rivelato nella sua nuova identità di tecnico della morte, di meccanico del combattimento e dunque di lavoratore. Anche da un punto di vista somatico il tipo dell’operaio prende forma plastica, nell’indurirsi del profilo, nell’uniformarsi dei volti, via via più rigidi. Nell’abbigliamento si potrà parlare di un tipico costume da lavoro, così come nella gestualità si cerca la precisione, l’essenzialità del gesto. Nelle forme linguistiche si assiste al prevalere del linguaggio tecnico, mentre nelle arti visive la fotografia e il cinema (grazie alla loro precisione e alla capacità di riprodurre il ritmo della vita) soppiantano la pittura che ha in sé l’irripetibilità del gesto.

Il fordismo scrive Gramsci è il maggiore sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una conoscenza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo. Il processo di mercificazione e la centralità del lavoro, hanno anche modificato il ruolo dello stato da garante dell’ordine, (Hobbes) a garante della stabilizzazione del lavoro e del capitale; da macchina limitata alla fornitura di sicurezza per gli individui a complesso di funzioni finalizzate alla stabilizzazione della forma di merce dei principali fattori sistemici dell’universo capitalistico.

Ciò che fino ad ora era stato regolato da meccanismi spontanei della solidarietà, diviene funzione dipendente dai rapporti di forza tra le grandi istituzioni di rappresentanza. La stessa attività di cura e di servizio, da pratica diretta dei soggetti sociali diviene oggetto di rivendicazione. Da azione sociale primaria si trasforma in risultante del conflitto e della negoziazione. La produzione di valore d’uso sociale, è cioè valore di legame, diviene oggetto di scambio politico e cioè materia prima del processo di legittimazione democratica dentro una dinamica nella quale la nazionalizzazione delle masse e la politicizzazione della società marciano insieme, distanziando progressivamente i soggetti reali e cioè gli individui dai luoghi della decisione e della elaborazione delle condizioni della loro esistenza.

Ma il lavoro di de-socializzazione ad opera della strumentalità non si ferma qui.

Alain Bihr teorizza la "totale integrazione dei consumi del proletariato nel rapporto salariale" ad opera del sistema capitalistico fordista. Questa teoria si basa su tre elementi: in primo luogo, la scomparsa della produzione domestica del proletariato, per cui la famiglia cessa definitivamente di essere un unità di produzione artigianale e agricola per divenire essenzialmente un’unità di consumo mercantile. In secondo luogo, l’imposizione di uno standard medio di consumo e definito da alcuni merci pilota, divenute indispensabili nella vita quotidiana quali automobili, elettrodomestici, telefono, televisore eccetera e regolato attraverso il governo della dinamica salariale, con evidenti effetti di normalizzazione dell’esistenza e di subordinazione di tutte le pratiche di consumo del proletariato ai rapporti di mercato. Infine la riclassificazione di alcuni fattori strategici dell’esistenza quale sicurezza, assistenza, cura, eccetera come voci del salario indiretto garantita dallo stato.

Tre forme di un unico processo di mercantilizzazione dei fattori costitutivi della socialità.

Il 1968 fu un grande rito di dissipazione in forma festiva: un momento di rottura in cui la società intera, compressa per decenni nello sforzo produttivistico del lavoro totale, parve recuperare il tempo perduto e ritrovare se stessa, il reticolo di relazioni tra persone smarrite nel deserto delle cose e la propria capacità di parola che da brusio si fece tuono.

Il 68 fu anche un grande fenomeno di lungo luddismo istituzionale e organizzativo. Il clamoroso tentativo di distorsione di tutte le macchine politiche, sociali, culturali che negli anni precedenti erano state costruite secondo i criteri del modello burocratico, intorno ai dogmi della centralizzazione, della specializzazione tecnica e della gerarchizzazione.

Era la prima, esplicita e diffusa, rivolta contro l’apparatizzazione del mondo, contro quella dimensione co-meccanica degli individui ed i loro mondi vitali che, come si è visto, andava minando alle radici le capacità di controllo umano sul proprio contesto sociale e lo stesso principio di responsabilità.

  1. I dilemmi dell’uomo flessibile

Cosa è rimasto dopo la grande ondata anti sistemica del 1968?

Le esperienze di rappresentanza politica si trasformarono, a contatto con il leninismo, in nuove piccole macchine di apparato politico e linguistico, che portavano in sé gli stessi difetti del centralismo aggravandoli al tempo stesso con il settarismo. L’esperienza di comunità si spense alla ricerca della coerenza dei dogmi della società liberata.

L’eredità principale è l’intuizione che ebbero negli anni 70 di costruire un oggetto che garantisse lo scambio della comunicazione al di fuori del controllo dell’apparato statale; il precursore del computer.

 

Le 3 radici del passaggio al post fordismo

1. Il computer

Il computer è l’invenzione di questo secolo che si è sviluppata più rapidamente; in soli 16 anni sono stati raggiunti i 50 milioni di utenti (2 volte più rapido della radio, quattro volte più veloce dell’automobile e del telefono, battuto solo della televisione per la quale ha invece ne erano bastati soltanto 13).

La vittima più importante della diffusione del computer è sistema produttivo fordista. Così come questo sistema si era basato, nella definizione della sua organizzazione prototipale sulla produzione dell’auto nella catena di montaggio, così il postfordismo ha nel computer il proprio totem attorno al quale si sta costruendo un nuovo modello organizzativo di rete.

Il computer permette di scomporre e segmentare le lunghe catene di montaggio, di monitorare le cadenze e i movimenti, di automatizzare interi settori, di renderne altri flessibilmente interattivi, multivalenti. Il computer è in grado di governare sistemi complessi e quindi favorisce la nascita di reti, prima corte, poi sempre più lunghe, di subforniture. Ridurrà l’outsourcing da eresia a pratica comune e infine ad un dogma produttivo, e cioè a condizione di efficienza e di riduzione dei costi fissi. I computer permetteranno, grazie alla possibilità di comando remoto, in tempo reale e alla simultaneità che ne consegue, pur tra posizioni fortemente de-localizzate, di trattare come parte in una stessa unità produttiva stazioni di lavoro distanti anche centinaia di chilometri.

In una parola: i computer colpiranno al cuore il concetto stesso di fabbrica, inteso come spazio omogeneo e contiguo del lavoro, separato nettamente da un ambiente esterno considerato potenzialmente ostile o comunque produttivamente inerte.

I computer de-costruiranno la fabbrica disperdendola nel territorio circostante, fino a rendere quasi impercettibile quella differenza tra luoghi della produzione organizzata e luoghi della vita sociale che era stata costitutiva della modernità economica fin dai tempi della prima rivoluzione industriale.

Si pensi anche alla trasformazione avvenuta nelle modalità di rappresentanza passando dalla sindacalizzazione di massa, tipica del fordismo, e della contrattazione collettiva, alla rottura di tutti i monopoli della produzione come della rappresentanza e di tutte le uniformità.

Secondo una teoria la transizione dal fordismo al post fordismo si configurerebbe come passaggio da un paradigma tecnico-economico dominato da un prodotto e cioè l’automobile e, più in generale, i beni di consumo durevole, da uno specifico processo di lavoro e cioè la produzione di massa standardizzata e da una particolare matrice tecnologica e cioè la cosiddetta tecnologia di concatenazione, (assembly line -la movimentazione mediante convogliatori meccanici-), a un nuovo paradigma, incentrato sull’ information technology, cioè sulla micro elettronica, su reti di telecomunicazione estese a forme di automazione spinta, come la robotizzazione del manufacturing.

2. La consapevolezza dei limiti dello sviluppo

Questa è una radice di contesto, culturale. Nel fordismo l’elemento "metafisico" è l’idea dell’infinita crescita della produzione, della possibilità di espandere i mercati all’infinito con l’unica condizione di abbassare i prezzi.

Un colpo durissimo per questa certezza venne inflitto dal Club di Roma, un’associazione di manager, intellettuali e opinion leaders, fondata da Aurelio Peccei che nel 1972 pubblicò un rapporto che già nel suo titolo conteneva la svolta: i limiti dello sviluppo. Questo rapporto diceva ciò che era già sotto gli occhi di tutti ma che nessuno osava dichiarare e cioè che lo stile di vita, di produzione e di lavoro, inaugurato agli inizi del 900, era incompatibile con la sopravvivenza dell’umanità.

In particolare, si fecero notare sconvolgenti conclusioni: la prima è che le risorse non rinnovabili e da cui dipende la base industriale si sarebbero esaurite; la seconda affermava che se anche le risorse non si fossero esaurite, il collasso si sarebbe verificato ugualmente in un lasso di tempo non molto diverso a causa dell’inquinamento provocato da una industrializzazione non più limitata dalla scarsità delle materie prime. Infine la terza conclusione, e cioè che il collasso sarebbe evitatabile solo a condizione di porre un immediato limite alla crescita della popolazione e all’inquinamento.

Questo rapporto fece scalpore proprio perché prodotto da protagonisti del sistema produttivo e non da figure marginali.

3. Il sesso del lavoro

Il fordismo è un modello assolutamente maschilista, basato come avevo visto concetto di razionalizzazione estrema dell’attività produttiva, della sua scomponibilità e misurabilità. Il sistema produttivo era pensato per uomini senza qualità e quindi sulla fungibilità del lavoratore. In questo senso il fordismo abbattè la barriera tra uomo e donna considerando quest’ultima valida per la produzione nella misura in cui si liberava della sua specificità femminile per essere utilizzata dal sistema alla stessa stregua dell’uomo.

Per il movimento femminista si aprì quindi la possibilità di fare emergere la contraddizione legate al fatto che per esempio a fronte di medesime prestazioni venivano riconosciuti diversi trattamenti economici tra uomo e donna. In un secondo momento il movimento rivendico altresì i tempi della donna o comunque la necessità di riconoscere le specificità dell’universo femminile.

Le vie di uscita dalla totalizzazione lavorativa

Tra le tante elaborazioni evidenzio alcune considerazioni svolte da Gorz che individua almeno tre interventi che si possono realizzare immediatamente per cercare di incrinare il Moloch del lavoro:

  1. una consistente riduzione dell’orario di lavoro, parzialmente finanziata anche per via fiscale: iniziativa resa possibile dall’enorme aumento della produttività sociale generato dall’automazione e dall’innovazione informatica e insieme necessaria a causa della crescita esponenziale della disoccupazione e della sotto occupazione;
  2. il parallelo riconoscimento del diritto ad un reddito slegato dal tempo di lavoro dunque un reddito garantito nella forma del secondo assegno proposto da Guy Aznar come forma di integrazione di attività intermittenti e di un monte ore ridotto;
  3. la crescita data dai punti precedenti di una vita comunitaria, di cooperazione volontaria e auto organizzata, di attività auto-determinate e cioè libere da condizionamenti: una condizione affinché sempre più diffuso bisogno di servizi alle persone non generi il circolo vizioso della produzione equivalente e del lavoro servile e cioè di pagare una terza persona, di fatto un servitore, per svolgere attività relazionali e di cura che noi stessi potremmo svolgere con il medesimo investimento di tempo e fatica.

Questi tre strumenti favorirebbero la conquista accanto e sopra il complesso degli apparati, di spazi crescenti di autonomia sottratti alla logica della società, ad essa opposta e tali da permettere lo sviluppo di un’esistenza individuale sufficientemente libera da condizionamenti.

  1. I peccati della politica e il futuro dell’uomo solidale

Il 900 si caratterizza per la figura del Militante la cui personalità è stata definita pesantemente da almeno tre grandi eventi storici:

Sarebbe ingiusto, è storicamente insostenibile, affermare che quella violenza come dimensione quotidiana della politica sia stato introdotta nella storia per effetto della militanza comunista. Che essa sia conseguenza diretta di quel modello ideologico e di quel tipo umano. Ma in quanto parte integrante dell’atto costitutivo della sua identità, essa finì in qualche misura per impossessarsene e segnarne a fondo abitus ed animus.

L’identità Fabbrica e Partito

Partiamo da Gramsci (della fase matura dei Quaderni dal carcere) e dalla sua visione degli elementi indispensabili per la sopravvivenza del partito:

Tre livelli organizzativi, in cui è difficile non cogliere la simmetria pressoché speculare con la struttura dell’impresa fordista e taylorista, che finisce per assimilare, appunto, il processo rivoluzionario sintetizzato dal partito, al processo produttivo sintetizzato dalla macchina organizzativa dell’impresa.

Come nel modello della fabbrica nordista, la componente massificata è priva di capacità creativa e finanche della necessaria forza coesiva tale da tenerla insieme in forma autonoma ("quegli uomini comuni, medi sono forza in quanto c’è chi li centralizzata, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente").

Come nella fabbrica fordista, anche nel moderno partito di massa si forma uno strato intermedio, una tecnostruttura, i militanti di professione (in fabbrica gli ingegneri), chiamati a mediare tra progetto ideativo e ruolo massificato esecutivo, tra istanza centrale direttiva ed esercito del lavoro altrimenti disperso e dispersivo; nella capacità di combinare tra loro tutte e tre i livelli e dunque diversi ordini di funzioni, dipende esattamente (come nel caso dello scientific management), la possibilità di raggiungere il massimo di efficienza.

Secondo Trentin in Gramsci vi è la considerazione che il sistema tayloristico è un sistema socialista.

"La divisione del lavoro ha creato nel mondo proletario la solidarietà di classe; quanto più il proletario si specializza in un gesto professionale, tanto più sente di essere la cellula di un corpo organizzato, tanto più sente la necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo stesso metodo, lo stesso ordine che egli verifica essere vitale nella fabbrica dove lavora".

Il peccato capitale del comunismo del ‘900 è quello di aver concepito e realizzato la società del lavoro totale mentre andava poi promettendone la liberazione.

 

 

La distribuzione della ricchezza e del sapere

Nel mondo unificato dalla tecnologia e dalla comunicazione le distanze sociali tra i primi e gli ultimi si sono fatte abissali. Infinitamente più ampie e incolmabili di quanto non fossero, fino a pochi decenni or sono, quelle geografiche, se vero come ci ricorda l’ONU, alla fine del secolo più egualitario della storia, il 20% più ricco della popolazione continua ad appropriarsi del 86% della ricchezza del pianeta; le 225 persone più ricche del mondo possiedono una ricchezza congiunta di oltre mille miliardi di dollari, pari al reddito annuale del 47% della popolazione mondiale (due miliardi di persone). I patrimoni dei tre multimilionari ai vertici della graduatoria di Fortune superano, da soli, il prodotto interno lordo di tutti paesi meno sviluppati del mondo, con i loro 600 milioni di abitanti.

Negli ultimi anni in questa differenza di fra primi e ultimi è diventata sempre più grande e non lascia quindi speranze per un riequilibrio della ricchezza.

Vi è poi l’ulteriore problema strutturale e cioè il fatto che lo stile di vita, il livello di consumo di chi sta nel cerchio magico del privilegio sopra la soglia dei 15 mila dollari di reddito medio pro capite, è a tal punto distruttivo, possiede un tale impatto ambientale, sia sul versante del consumo di energia che su quello delle emissioni inquinanti, da essere strutturalmente non generalizzabile, non applicabile al resto dell’umanità.

 

L’uomo solidale

D’altra parte la scena non è vuota. Sotto traccia, invisibile o appena percettibile sotto la superficie compatta delle merci, una sottile ma fitta e diffusa trama di atomi positivi è da tempo in azione. Contrariamente alla figura sociale che l’ha preceduto, il militante novecentesco, questo nuovo attore non si sente parte di un esercito. Non ha né un’uniforme né una bandiera, non è appunto un soldato.

E’ piuttosto nel senso più proprio un civile.

Questo nuovo soggetto sembra fare della debolezza la propria sottile risorsa, sfuggendo ogni confronto frontale, ogni conflitto di potenza con avversario che, su quel terreno, sarebbe sempre comunque incomparabilmente superiore.

Si può aggiungere anche che, rispetto al militante, non sembra possedere neppure una dottrina o un sapere organico predittivo, su cui definire il proprio che fare. In compenso pare avere elaborato una certa, informale, capacità di lettura di memoria del passato. Non conosce la via di uscita dal labirinto, ma sembra ricordare bene dietro quali angoli si nasconde il Minotauro. Sa cosa non si può più fare.

Contrariamente al contesto fordista nel quale la razionalizzazione produttiva richiedeva perentoriamente il sacrificio di sangue e della rinuncia esplicita alla soggettività, qui la creatività, la passionalità ed emotività sono parte integrante del capitale sociale che si porta dentro e che è chiamato di volta in volta ad investire per sopravvivere.

Per la stessa ragione, questa nuova figura sa che la ricomposizione è decisiva; ma ciò non potrà più essere concepito nella forma consueta della riduzione dei molteplici ad unità, né attraverso la retorica del soggetto collettivo, né attraverso l’invenzione di una qualche nuova macchina, di qualche meccanismo oggettivo.

Le logiche che conosce nel produrre come nel vivere sono quelle della disseminazione, la multiattività, la messa in rete dell’eterogeneità.

In definitiva è il lento passaggio alla figura incerta e vacillante del Volontario una delle possibili uscite di sicurezza dal ‘900.