"LA SECONDA GLOBALIZZAZIONE"
Saggio di Marco Revelli pubblicato su Carta nr. 5 del 7/2/2002
di Rodolfo Fioribello
La tesi sostenuta da Revelli in questo saggio è che l'11 settembre ha aperto una seconda fase nel processo di globalizzazione.
Qual è l'elemento sostanziale che ha aperto il processo di globalizzazione?
E' la rivoluzione spaziale che si è manifestata con lo spostamento dai "luoghi" della produzione ai "flussi" produttivi e finanziari dell'economia globale.
L'11 settembre è dunque una metafora di questa rivoluzione (1). Secondo Revelli rappresenta anche il momento del passaggio ad una seconda fase del processo di globalizzazione. (2)
Vediamo ora quali sono le caratteristiche di questa nuova fase.
La struttura dello spazio globale
L'Occidente ha costruito il processo di globalizzazione attraverso la costruzione di un unico spazio interdipendente e disponibile, ma d'altro canto, se ne considerava al di fuori, in una posizione irraggiungibile rispetto alle spinte distruttive che potevano nascere al suo interno.
(3)Il crollo delle Torri ha dimostrato che nello spazio globale non esiste un luogo al riparo dagli effetti prodotti dalle azioni realizzate al suo interno.
La fine dell'invulnerabilità del suolo americano, la presa di coscienza di uno spazio interconnesso e aperto, è un concetto ripreso da tutti gli analisti; la cosiddetta "perdita dell'innocenza americana" dovrebbe quindi far entrare la coscienza collettiva in una fase di maturità.
Ciò che sta invece accadendo in questi mesi, dimostra che la reazione si sta esprimendo nella paura del contagio derivante dal contatto con "l'altro".
Anche da un punto di vista lessicale si scelgono metafore che identificano il terrorismo come un cancro, una malattia da estirpare (il caso poi dell'attacco all'antrace ha rafforzato questo approccio) che tendono a spersonalizzare il rapporto con "l'altro", a togliere qualsiasi attributo di umanità.
Conflitto civile, conflitto militare
Con l'11 settembre la distinzione tra conflitti militari e conflitti civili viene completamente meno. E' una tendenza che si è manifestata per tutto il Novecento (si consideri che il 90% delle vittime di guerra è composto da civili) e che in Kosovo aveva già raggiunto un punto molto alto di commistione (si pensi al concetto di "guerra umanitaria").
Nell'attacco al Pentagono e alle Twin Towers non solo tutte le vittime erano civili, ma anche i mezzi di offesa lo erano; aerei civili, mezzi di trasporto di massa che rappresentano la libertà di movimento delle persone.
Quali i possibili effetti di questo cambio di prospettiva?
Innanzitutto, la trasformazione del nostro stile di vita che si compone di migliaia di oggetti familiari e di uso quotidiano, in un "ambiente ostile", intrinsecamente pericoloso.
(4)Le strutture realizzate per l'organizzazione della vita civile diventano quindi potenzialmente strumenti di distruzione (i grandi grattacieli, gli uffici postali, gli acquedotti..) e tutti noi non li vedremo più con gli stessi occhi. Quindi non solo si realizza la mescolanza tra aspetti civili e militari per le vittime dei conflitti, ma anche per quanto riguarda gli strumenti di uso quotidiano.
Per realizzare questo ribaltamento dell'uso delle cose che ci circondano, non è necessario l'impiego di tecnologie o di investimenti straordinari, ma, come dimostra l'11 settembre, è "sufficiente" il sacrificio della vita. A questo punto il diaframma tra positività e distruttività del nostro habitat diventa sottilissimo.
La seconda possibile conseguenza attiene all'uso del "monopolio della forza".
Prima dell'11 settembre, si considerava l'uso (legittimo) della forza come un monopolio naturale esercitato dalle "superpotenze"; infatti erano necessari investimenti e tecnologie di altissimo livello, che solo alcune organizzazioni statuali potevano mettere in campo per esercitare questo potere.
La tecnologia usata per gli attentati ha portato la soglia di accesso all'uso della forza distruttrice di massa a livello quasi individuale. Sono bastate meno di 20 persone armate di coltellini svizzeri per provocare una strage equiparabile a quella di un bombardamento con armi tattiche.
L'amministrazione Bush ha costruito una coalizione di stati nella guerra contro il terrorismo; questa guerra vede impegnati, da un lato l'unica superpotenza mondiale e i principali stati-nazione, dall'altra una rete di individui che non hanno un territorio, un esercito, la sovranità che caratterizzano le organizzazioni statuali.
E' la cosiddetta guerra asimmetrica che porta sullo stesso terreno organizzazioni complesse come gli stati nazionali e un network di individui se non, addirittura, un solo individuo (l'impersonificazione del male: Bin Laden).
Il passaggio dalla globalizzazione soft a quella hard
La globalizzazione soft (ante 11 settembre) si caratterizzava per la velocità e l'istantaneità dei flussi (i suoi miti sono infatti la banda larga e new economy) che si esprimevano soprattutto nella mobilità di tutto e di tutti.
Il primo effetto visibile della fase hard della globalizzazione è il rallentamento; si pensi ovviamente, ai controlli sul traffico aereo, nei porti, nelle stazioni, ai problemi legati alla movimentazione dei materiali necessari per evitare lo staccaggio degli stessi, per consentire il flusso teso della produzione (il cosiddetto "just in time").
(5)I maggiori controlli messi in atto per la sicurezza dei trasporti, le nuove leggi emergenziali sull'immigrazione e sul controllo degli stranieri, i controlli sui flussi finanziari, pongono in essere dei ritardi rispetto alla mobilità assoluta delle persone e delle cose che caratterizzavano la fase espansiva e dolce della globalizzazione.
Si pensi, ad esempio, ai rallentamenti dovuti ai controlli dei flussi finanziari (ogni giorno ammontano a ca. 1500 miliardi di euro) che, nella prima fase della globalizzazione, dovevano essere liberi di potersi muovere in tutto il mondo senza controlli e senza barriere pena il collasso del sistema finanziario globale
(6), mentre da oggi in poi, dovranno essere soggetti a verifiche da parte delle polizie internazionali per accertarne la provenienza e la destinazione per impedire il finanziamento delle reti terroristiche.Un altro esempio del passaggio alla fase hard della globalizzazione è costituito dalla volontà di imporre dei controlli sul web. Il ministro della giustizia americano Ashcroft ha promosso il controllo da parte degli agenti federali della corrispondenza che circola in rete in aperto contrasto con lo spirito libero e incontrollato che ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo del world wide web e in aperta violazione dei diritti della privacy
(7).Un altro effetto del passaggio alla fase hard è la fine della trasparenza e della visibilità come valori.
La fase dolce della globalizzazione si caratterizzava anche per l'assoluta trasparenza e visibilità dello spazio globale (televisioni, internet).
Dopo l'11 settembre è calata una spessa coltre che ricopre gli avvenimenti: sono in corso azioni militari "coperte", le indagini sono "coperte", la guerra diventa "invisibile, sommersa, privata".
Al cittadino-spettatore si chiede adesso di credere senza vedere.
Il terzo elemento cruciale che segna il passaggio dalla fase soft a quella hard, è costituito dal rapporto tra "flussi" e "luoghi".
Il nuovo pensiero militare americano, nato dopo l'11 settembre, rappresenta un salto di qualità nel senso che dalle guerre clintoniane, caratterizzate dall'intangibilità degli attaccanti (bombardamenti da alta quota, attacchi missilistici) perché non presenti sul territorio, nei "luoghi", si è passati alla guerra che si riappropria del territorio, alle azioni sul terreno.
Non più quindi interventi condotti attraverso il controllo a distanza dei nodi di rete, ma una nuova fase in cui la potenza dall'alto scende verso il basso.
La nuova strategia militare è dunque quella della guerra diffusa, reticolare, in grado di tenere sotto scacco le basi operative del terrorismo duvunque si annidino. Per questo è necessario non definire un arco temporale definito (enduring freedom) e sono necessari budget di spesa notevolissimi.
(8)Da questa nuova fase della globalizzazione dunque, riemerge prepotente il ruolo dello stato, soggetto indispensabile per far funzionare la war economy.
Secondo Ohmae, forse il più radicale teorico della globalizzazione neoliberista, il mondo globalizzato appare come un giardino in cui le aziende possono seminare nei terreni più fertili per ottenere il raccolto migliore. Lo sviluppo dell'economia e della società progredisce in un processo in cui le rigidità imposte dalle forme di organizzazione e di rappresentanza novecentesche (stati nazionali, partiti, sindacati, la politica tout court) appaiono del tutto superate e travolte dal libero mercato.
Tutto ciò viene spazzato via dalla parola guerra.
Nello stato di guerra (perpetua?) il mercato si affida nuovamente alla politica, alla potenza militare degli stati e l'economia stessa torna ad essere guidata e regolata dai budget statali.
(9)E' evidente che nel warfare la parte del leone la faranno le spese militari e che qualche briciola cadrà probabilmente nel piatto degli interventi sociali ad esempio a sostegno dell'occupazione, ma a quale prezzo?
Guerra di oppressi contro oppressori?
Quale guerra abbiamo davanti a noi?
Non certo una guerra tra i primi e gli ultimi dell'umanità o "della moltitudine contro l'impero"
(10), ma è uno "scontro di potere, tutto di potere, politico-militare senza alcunché di sociale, tra gruppi dirigenti.E' la contrapposizione tra fazioni, frammenti di oligarchie politiche delle potenze di seconda grandezza che hanno sviluppato il loro potere attraverso il dominio dei "luoghi" dove sono concentrate le materie prime per lo sviluppo capitalistico e i paesi di prima fascia che hanno il governo dei flussi della globalizzazione e che quindi hanno mantenuto il comando e l'egemonia mondiale.
La religione, l'emarginazione e l'iniqua distribuzione delle ricchezze sono giustificazioni che queste oligarchie utilizzano per cercare il sostegno della massa.
(11)A riprova di questa tesi il fatto che i terroristi suicidi dell'11 settembre non provengono dalle città bombardate dell'Iraq o dai campi profughi palestinesi o afghani, ma facevano parte della media borghesia saudita ed egiziana, di quei paesi, cioè, che fanno parte del "giardino globale" di Ohmae.
Fondamentalismo e governo della globalizzazione
A questo punto Revelli propone una lettura più da vicino degli effetti della prima globalizzazione "dolce" e propone come strumento di analisi un saggio di Arrighi e Silver "
La strana morte del terzo mondo" (12).Questo saggio dimostra che lo sforzo realizzato negli ultimi decenni dai paesi del secondo e terzo mondo per tentare di raggiungere il livello di modernità simile a quello del primo mondo è sostanzialmente fallito.
Analizzando sul medio periodo il reddito medio pro capite nelle fasce in cui si divide la popolazione mondiale, si osserva che solo in rarissime eccezioni c'è stato un innalzamento, un passaggio ad un livello superiore; queste eccezioni sono costituite da Corea del Sud, Taiwan, Italia, Giappone, Singapore e Hong Kong.
Tutti gli altri paesi sono ripiombati nella fascia di reddito di provenienza.
Il rapporto di popolazione tra i tre gruppi di stati (Primo, Secondo e Terzo Mondo) è infatti rimasto immutato.
Come mai? Forse ci sono stati degli "errori" nell'applicazione del modello di sviluppo oppure questo fallimento è dovuto all'intrinseco funzionamento del modello di sviluppo? Niente di tutto questo: la causa viene imputata a rilevanti decisioni strategiche prese al vertice della piramide (Usa e Gb i veri motori della globalizzazione mobile neoliberista).
Quali sono dunque queste decisioni strategiche?
Sono quelle che hanno consentito il salto del paradigma produttivo dal vecchio fordismo che oramai sentiva la pressione dei lavoratori del nord e del sud del mondo per ottenere una ridistribuzione più equa del reddito, alla nuova economia basata sui flussi finanziari.
C'è stato quindi uno spostamento dall'ambito del "materiale" della produzione a quello "immateriale" del denaro che ha avuto come conseguenza il ridimensionamento delle attività industriali nelle gerarchia del valore dell'economia mondiale.
Contestualmente si lega il risorgere del fondamentalismo religioso per le masse in quei paesi islamici (Indonesia, Algeria, Egitto, Iran, Pakistan..) che più hanno subito le conseguenze di questo ri-declassamento. Nello stesso tempo si spiega la formazione, negli stessi paesi, di una nuova oligarchia finanziaria che si affianca a quella tradizionale del petrolio (vedi ancora il caso Bin Laden..) che immagina di potersi affiancare alle élite finanziarie occidentali (quanto sono stretti questi legami? forse più di quanto comunemente immaginiamo).
La guerra come guerra civile globale
Lo scenario di guerra che stiamo vivendo si articola, secondo Revelli, in tre livelli:
Di questi tre livelli, l'ultimo è quello che emerge più chiaramente dopo gli attentati, ma nella realtà lo scenario di guerra che abbiamo davanti a noi è composto dall'intreccio di questi tre elementi.
Alcuni sostengono un'analogia tra la seconda guerra mondiale e la prima guerra del XXI secolo.
Revelli individua due motivi sostanziali che rendono impossibile questa analogia.
I primo risiede nell'universalità dei principi che mossero gli Alleati contro i nazi-fascisti; libertà per tutti i popoli, giustizia (anche sociale) e rifiuto del razzismo. Ne è una dimostrazione il fatto che, dopo la fine della guerra, iniziò il processo di decolonizzazione che coinvolse principalmente gli stati vincitori.
L'Occidente oggi, combatterebbe per dei valori sostanzialmente esclusivistici, per un modello di vita insostenibile per l'intero pianeta.
(13)"Il way of life che abbiamo costruito e potenziato e imposto come vincente nel mondo, è così pesante che può essere sostenuto solo in un segmento limitato di quel mondo e dell'umanità".
Il secondo motivo riguarda il ruolo dello stato all'interno delle coalizioni militari. Nella seconda guerra mondiale ci fu una coalizione di stati che ne combatteva un'altra; il fronte di guerra, seppur mobile, era individuato e tutto il meccanismo bellico era regolato dagli stati. Oggi il nemico non è rappresentato da uno stato o da una coalizione di stati, ma da un network, di individui che utilizzano parti di territorio per i loro scopi senza averne i poteri di sovranità.
Bin Laden ha utilizzato parte del territorio afghano, ma ora potrebbe essere in molti altri stati (paradossalmente potrebbe anche nascondersi negli Stati Uniti senza per questo essere sconfitto). Il nemico dunque è delocalizzato e immateriale, in questo senso perfettamente "globale".
Revelli sottolinea anche un altro elemento interessante rispetto al ruolo dello stato. In precedenza si è affermata "la rinascita" dello stato nella fase hard della globalizzazione. Ma questo è vero per chi governa questo processo. Gli Stati Uniti stanno creando appunto un sistema di warfare che vede lo stato come regolatore dei processi. Per gli stati che invece stanno "dall'altra parte" si aprirà una fase di ulteriore riduzione della propria sovranità. Se saranno sospettati di ospitare, volenti o nolenti, cellule terroristiche dovranno abdicare, al potere di polizia interna per consentire l'intervento di truppe specializzate americane o inglesi.
(14)
Stare in mezzo
Chi vincerà la guerra? Nessuno. Perché come dice Eco "nell'era della globalizzazione una guerra globale è impossibile, ovvero porterebbe alla sconfitta di tutti".
Quando finirà la guerra? Chi decreterà la sconfitta del male, delle organizzazioni che muovono il terrorismo? E' impossibile definire dunque i confini di questa guerra e quindi è impossibile decretarne la fine.
La dichiarazione di guerra di Bush rappresenta in realtà, secondo Revelli, la dichiarazione dello spazio globale come "stato di natura" hobbesiano, della guerra come elemento permanente della relazione tra uomini.
Dovremo dunque aspettarci uno stato di guerra permanente caratterizzato da fasi più o meno acute di conflitto, ma comunque fondante per la governance mondiale.
Quale ruolo rimane per i movimenti di contestazione nati durante la prima fase soft della globalizzazione?
E' una domanda troppo complessa per dare una risposta definitiva, ma secondo Revelli è indispensabile partecipare attivamente "mettersi nel mezzo" non solo dichiarando e reclamando i diritti dei popoli, ma agendo e ideando nuove forme di mobilitazione e di aggregazione per ottenere il riconoscimento dei diritti e della pace.
Febbraio 2002
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Note: