Nicola Rossi,
Riformisti per forza. La sinistra italiana tra 1996 e 2006,Il Mulino, Bologna 2002.
Recensione di Stefano Rosato
Partendo dall’osservazione che, in occasione delle elezioni politiche del 13 maggio 2001, il centrosinistra non ha saputo capitalizzare i risultati ottenuti nel quinquennio segnato dai governi Prodi, D’Alema e Amato, Nicola Rossi propone una strategia per il rilancio dell’opposizione articolata in tre punti: analisi degli errori compiuti dal centrosinistra nella propria azione governativa, analisi delle prime realizzazioni legislative del programma del Polo delle Libertà e definizione di alcuni punti chiave per operare il rilancio prospettico del centrosinistra in relazione alle elezioni politiche del 2006.
La domanda fondamentale con la quale si apre Riformisti per forza, riguarda le ragioni della sconfitta elettorale del centrosinistra alle politiche del 2001. La risposta che viene fornita da Rossi identifica le cause della disfatta elettorale nel distacco, nella distanza, fra politica e società (p. 10), a loro volta provocati dai limiti culturali con i quali la classe dirigente del centrosinistra ha prodotto, nel tempo, la propria analisi del panorama politico italiano e delle problematiche in campo, intesi, nello specifico, come "l’incapacità o la difficoltà di leggere la realtà" (p. 13). Pur avendo, complessivamente, governato bene, il centrosinistra è stato tuttavia accusato di non essere riuscito fino in fondo a sviluppare un terreno economico-politico che consentisse un maggior livello di competitività per le imprese, da un lato, e che garantisse migliori possibilità di realizzazione di quegli obiettivi di equità sociale dei quali, una politica di sinistra, non può non farsi strutturalmente portatrice, dall’altro. Il primo di questi limiti viene paradigmaticamente analizzato a partire da una disamina relativa al tema del Mezzogiorno, che evidenzia una netta cesura nella politica di supporto al Sud del paese fra il periodo 1992-95 e quello immediatamente successivo (1996-2001). Nel primo di questi periodi, le politiche a favore del Mezzogiorno puntavano le proprie carte sulla decentralizzazione del momento decisionale degli interventi e sugli automatismi di ottenimento dei finanziamenti per le imprese, in campo economico, su una forte azione di legalizzazione e lotta alla criminalità organizzata, in campo giuridico, e sulla localizzazione del potere, in campo politico. Queste tre scelte strategiche "facevano terra bruciata intorno al sistema della politica clientelare tipico di larghe aree del Mezzogiorno e determinavano la drastica disintermediazione delle strutture burocratiche che di quel sistema politico erano l’altra faccia" (p. 44). Fra la seconda metà del 1995 e il 1996 prende invece corpo una nuova politica di supporto per le aree meridionali, che va sotto il nome di "programmazione negoziata", che consiste in una serie di strumenti diretti a promuovere la crescita imprenditoriale, pensata con l’intenzione di proseguire l’azione di decentramento tipica del periodo precedente, ma "capace, invece, di ripristinare in breve tempo il vecchio trasferimento clientelare di risorse e di riproporre il rapporto malato fra politica ed economia, fra centro e periferia" (p. 53). Ciò è accaduto a causa della reintroduzione di principi che rispondono a una logica selettiva e/o burocratica nella determinazione dei finanziamenti, che sostituiscono gli automatismi previsti nella fase precedente e che, soprattutto, restituiscono un forte predominio al mondo della politica nella dialettica pubblico/privato, "riproponendo un modello di egemonia della politica sulla società teso a ritornare ad un rapporto centrato non già sulla distinzione dei ruoli e sulla attribuzione delle responsabilità ma sulla discrezionale distribuzione dei favori" (p. 63), e, in più, moltiplicano i livelli dell’intermediazione politica e burocratica con la creazione di altrettanti momenti di filtro delle iniziative quali sono, per esempio, quelli delle Regioni, dei nuovi quasi-Stati. E’ implicita, in questo passaggio, l’assenza di un’iniziativa politica alta, che sia in grado di indirizzare il momento economico senza determinarne, tuttavia, i minimi dettagli operativi e che, per esistere, presuppone un forte impulso programmatico che coaguli attorno a sé le forze partitiche che lo sostengono, invece che lasciarsene guidare. A quest’altezza l’Ulivo come operazione dettata da esigenze di vertice mostra tutti i propri limiti, nel concreto.
Il secondo limite dell’esperienza di governo del centrosinistra, quello del mancato raggiungimento di un accettabile standard di equità sociale, viene analizzato con particolare riferimento al tema della concertazione. Tale pratica, secondo Rossi, era necessaria nel momento in cui Mani Pulite metteva, di fatto, in radicale discussione la complessiva credibilità della politica ma è diventata perniciosa una volta superata la fase dell’emergenza. Un’analisi del ruolo del sindacato, in particolare, evidenzia con chiarezza la contraddizione implicita nell’operare di una forza sociale che, per un verso non può che essere rappresentante di interessi specifici (quelli dei propri aderenti), ma che, per l’altro, tramite la concertazione, ambisce a rimanere regolatrice degli interessi generali, con vere e proprie intromissioni nella sfera della politica che tali interessi dovrebbe salvaguardare (pp. 78-79). La ricaduta di questa contraddizione sull’equità sociale è evidente: tutti i soggetti per i quali il sindacato non prova un interesse di natura prioritaria (e, paradossalmente, si tratta più dei lavoratori che dei pensionati e più dei lavoratori che operano all’interno di modelli di business innovativi che di quelli che sono occupati in attività produttive di tipo tradizionale) non ricevono alcun tipo di attenzione e di tutela, in quanto il momento politico rischia di essere assente, a causa delle istanze di tipo concertativo che ne sottomettono l’esecutività all’accordo fra le parti sociali. Tutto ciò è dovuto al mancato rinnovamento della classe dirigente del paese, che, nella sostanza, è rimasta quella degli anni Settanta e Ottanta, in particolare per quanto riguarda le sue componenti centriste (pp. 88-89).
Una volta analizzati i limiti della politica di governo del centrosinistra, Nicola Rossi passa ad occuparsi delle specifiche iniziative legislative e di indirizzo, in campo soprattutto economico, del secondo governo Berlusconi. L’alleanza di centrodestra rappresenta un blocco sociale complesso, che va dall’imprenditoria diffusa delle regioni del Nord al Lumpenproletariat meridionale, che viene, nei fatti, tenuto insieme da una politica che presenta, nel contempo, il doppio aspetto di una forte presa di natura paternalistico-clientelare sulla distribuzione delle risorse e della difesa ad oltranza dei privilegi acquisiti da quell’imprenditorialità italiana "che è disposta a rischiare, sempre e comunque, il meno possibile" (p. 125). In questo senso, l’operato del governo di centrodestra nei primi mesi del suo insediamento costituirebbe, a detta di Rossi, l’esatto contrario della politica dell’Ulivo: nello specifico, se i governi di centrosinistra si erano distinti per iniziative tese a far arretrare consapevolmente il ruolo della politica nei confronti dei privati, ad aderire all’Unione monetaria, ad aprire a una gestione federalistica e decentrata del potere, a liberalizzare e privatizzare interi settori economici precedentemente appannaggio esclusivo e monopolistico dello Stato, a riformare nel profondo la pubblica amministrazione (pp. 123-124), su ciascuno di questi fronti la politica del governo di centrodestra mostra una netta inversione di tendenza. Nello specifico i punti di attenzione riguardano svariati aspetti di natura strutturale: la mancata continuazione delle operazioni di liberalizzazione e di uscita dello Stato da un ruolo diretto in campo economico (un caso per tutti è quello di RaiWay, pp. 101-102), che, ovviamente, riconfigura il blocco socio-politico che lo governa come un potente mediatore di interessi a livello tanto centrale quanto locale; la demagogica ipotesi di riduzione delle aliquote fiscali che non potrà non tradursi in un immediato abbassamento del livello di copertura garantito dal welfare state alle fasce più deboli della popolazione, in particolare nelle aree strategiche della sanità, dell’istruzione e della previdenza; la frenata sul tema dell’innovazione tecnologica; il restringimento del livello di legalità; l’indifferenza nei confronti delle piccole e medie imprese a favore delle grandi; ecc... (pp. 109-110).
A questo punto è possibile passare al disegno di alcune linee di indirizzo che caratterizzino un’ipotesi di rilancio del centrosinistra, in vista delle elezioni politiche del 2006. Il tema centrale per effettuare questo rilancio è costituito, per Rossi, dalla necessità di rinsaldare il nesso valori/interessi che, se, per un verso, è tipico della cultura della sinistra riformista in senso storico, si è, peraltro, di fatto sfaldato nei tempi recenti. Una sinistra dei valori deve, necessariamente, ridefinire anche i propri interessi, porsi, insomma, "il tema della […] rappresentanza sociale" (p. 137), che non potrà più essere ridotta alla classica rappresentanza del mondo del lavoro tradizionale, che ormai costituisce una minoranza nell’ambito delle forze produttive. In termini politici, questo obiettivo non può essere raggiunto seguendo l’impostazione di una rappresentanza di ceto, ma battendosi sempre e comunque per la democrazia, l’equità sociale e la libertà (p. 140), in un’ottica non più soltanto italiana ma sovranazionale, specificamente orientata alla costruzione di un nuovo patto sociale europeo (p. 141). Pertanto, per Rossi, è possibile determinare un primo abbozzo di programma politico articolato in quattro punti: "programmare meno ma meglio", "sostenere la logica del decentramento", "affermare nel Mezzogiorno la cultura dei vecchi e nuovi diritti" e "liberare gli imprenditori e i cittadini meridionali dalla tassa occulta della intermediazione politica e burocratica clientelare" (pp. 147-148), prestando un’attenzione particolare alla tematiche della scuola, del salario minimo e dei diritti di cittadinanza, in un’ottica politica in cui il riformismo non sia agito per forza, ma per passione (p. 151).