Saskia Sassen, Globalizzati e scontenti. Il destino delle minoranze nel nuovo ordine mondiale,
tr. Il Saggiatore, Milano 2002
Recensione di Stefano Rosato
Globalizzati e scontenti
è una raccolta di dieci saggi, scritti in epoche diverse, nei quali l’autrice sviluppa molte delle tematiche tipiche relativamente al problema della globalizzazione, incentrando il momento teoretico sul concetto di minoranza. Le analisi di Sassen si dipanano in quattro direzioni differenti, che tuttavia presentano fra loro molteplici incroci e convergenze, costituite dalle questioni relative all’immigrazione, al ruolo delle donne, al mercato del lavoro e alla possibilità di ridare un luogo fisico, di rilocalizzare nelle grandi città globali, alcuni passaggi propri al momento politico nell’era contemporanea. Questi percorsi analitici conducono a un esito comune, identificato nella "centralità del luogo", in contrapposizione "a una retorica e a una politica che vedono il luogo neutralizzato dalle comunicazioni globali e dall’ipermobilità del capitale" (p. 19). Il tentativo di Sassen è così quello di dimostrare, per ciascuna delle macro-aree di indagine suddette, che i processi globali, pur essendo, ovviamente, processi di decentramento e spesso di delocalizzazione delle attività produttive, di loro frammentazione e dispersione, hanno tuttavia un notevole bisogno di forti momenti di accentramento delle fasi decisionali e strategiche, che ne restituiscono altrettante immagini, precise e definite, nell’ambito di una spazialità certo ridisegnata ma chiaramente visibile. I centri nevralgici di questa nuova spazialità del potere, i suoi siti strategici, sono anche i luoghi a partire dai quali è possibile, per Sassen, incominciare a strutturare un discorso politico alternativo a quello del capitalismo e del neo-liberismo, perché la loro capacità di segmentazione e di differenziazione delle forze sociali in campo consente l’identificazione di una nuova centralità e di una nuova marginalità, concentrate all’interno di un medesimo spazio di dimensioni relativamente limitate.La prima parte di questa raccolta di saggi si occupa dell’immigrazione (pp. 35-102). Il principale obiettivo di Sassen è quello di dimostrare che le teorie classiche dell’immigrazione, tutte centrate sul concetto di scelta personale dovuta alla povertà, non rendono pienamente ragione del fenomeno nella sua complessità, in quanto "le migrazioni internazionali sono contestualizzate in più vasti processi sociali, economici e poltici, [e] la decisione di migrare è prodotta socialmente" (p. 82). L’analisi di Sassen sull’immigrazione statunitense è paradigmatica. Utilizzando le teorie classiche dell’immigrazione risulterebbe inspiegabile il fatto che gli investimenti esteri verso paesi in via di sviluppo (in particolare asiatici e centro americani) creino, contemporaneamente, un innalzamento del livello occupazionale di tipo industriale e del pil medio pro capite e un’intensificazione del flusso emigratorio, indirizzato verso il paese che sostiene l’investimento. Per comprendere l’apparente contraddittorietà di questo fenomeno se ne deve indagare più a fondo la dinamica. In generale il meccanismo di industrializzazione di questi paesi prevede una serie di facilitazioni fiscali e di deroghe alle normative ufficiali in materia di diritto del lavoro, che, tuttavia, possiedono un carattere di natura transitoria. La forza lavoro che viene impiegata dagli appaltatori che agiscono per conto delle grandi società multinazionali presenta caratteristiche specifiche: si tratta, per lo più, di giovani donne, a causa del minore costo del lavoro costituito da questa categoria e del carattere di usura dei tempi e della tipologia del lavoro prestato. Questa massiccia raccolta di manodopera industriale femminile all’interno di contesti socio-economici a prevalente conduzione agricola produce uno stravolgimento dell’economia complessiva dei villaggi (causata dall’emigrazione interna e dalla diminuzione della popolazione femminile), un accentramento verso le EPZ (le zone di produzione per l’esportazione, nelle quali vengono impiantati gli stabilimenti dagli appaltatori) e una forte ibridazione di tipo culturale con il mondo occidentale. Quando queste lavoratrici vengono espulse dal ciclo di produzione si rivela, per loro, impossibile il ritorno alla precedente situazione di vita nel villaggio originale e l’emigrazione di tutto il nucleo familiare diviene l’unica soluzione possibile. Ma tale soluzione non è data dalla sola povertà, condizione che esisteva anche prima che si svolgesse tale processo e che esiste anche in altri paesi, per esempio in quelli africani, che non partecipano in modo massiccio al flusso emigratorio verso gli Stati Uniti, ma viene, appunto, prodotta socialmente, nell’interazione con la cultura americana.
Il problema dell’immigrazione è anche il problema del suo governo, rispetto al quali gli Stati mostrano tutta la loro attuale debolezza, in quanto la loro specifica azione politica è disegnata intorno alle figure della frontiera e dell’individuo (p. 39), laddove è sempre più chiaro il fatto che gli immigrati svolgono alcune attività necessarie all’interno della nuova spazialità globale, nel mondo occidentale. Il ridimensionamento del ruolo dello Stato nella gestione dei fenomeni migratori, che dipendono sempre più sia dalle organizzazioni internazionali, sia "da un nuovo regime giuridico transnazionale privatizzato delle transazioni economiche internazionali" (p. 37), apre però anche alcune opportunità per la lotta politica degli immigrati. Proprio perché il potenziale conflitto fra operatori economici globali e Stati nazionali si risolve a favore dei primi, che richiedono forza lavoro immigrata a basso costo per lo svolgimento di alcuni servizi di base soprattutto nelle città globali, è possibile porre politicamente il tema della cittadinanza globale, inserendolo nell’ampio contesto dei diritti umani, che diventano sempre più un fattore di legittimazione del potere dello Stato, cui non basta più il vecchio criterio dell’autodeterminazione (p. 55).
In questo stesso scenario si inscrive il problema di genere, costituito dal ruolo che le donne svolgono all’interno dell’economia globale (pp. 103-146). Sassen postula "l’esistenza di una relazione sistemica fra la globalizzazione e la femminilizzazione del lavoro salariato", nel senso che "le strutture produttive che non possono venire trasferite offshore e devono funzionare dove è la domanda […] possono utilizzare manodopera femminile, mentre le strutture suscettibili di venire trasferite all’estero possono utilizzare manodopera a basso salario nei paesi meno sviluppati" (p. 126). Così si assiste a una vera e propria femminilizzazione del lavoro a basso costo che, tuttavia, presenta anche aspetti che possono generare rilanci nel campo della politica. Il venir meno dell’esclusività statale nel processo di formazione della sovranità e in quello di ridefinizione della territorialità che è nettamente visibile nelle città globali segna la nascita di una società civile internazionale, che si dispone all’interno di uno "spazio conteso […] dove le donne possono acquisire visibilità in quanto individui e attori collettivi, e uscire dalla condizione di invisibili membri di un aggregato tutto interno a uno Stato-nazione rappresentato esclusivamente dal titolare della sovranità" (p. 124). E tale passaggio appare ancor più importante se solo si presta attenzione al fatto che la teoria dello Stato e di quelle relazioni che esso istituisce con altri Stati nella forma del diritto internazionale presenta caratteri marcatamente maschilisti, da un lato, e che le donne, come tutti i soggetti marginali, vengono, per tale teoria, sussunte all’interno dello Stato e relegate a un ruolo di invisibilità (p. 118). La globalizzazione, in particolare all’interno delle città globali, affianca allo Stato altre entità di definizione del diritto e della sovranità e consente alle donne la potenziale riappropriazione di alcuni spazi nei quali è possibile pensare una politica di liberazione in chiave collettiva e fluida (che superi, quindi, il problema dell’istituzione statale in una logica di tipo internazionalistico). L’attualizzazione di questi spazi dovrebbe essere il compito di una nuovo politica femminista, purché quest’ultima vada oltre l’univocità della definizione di genere e legga il problema complessivo delle donne come strettamente correlato agli sviluppi economici e politici globali.
La terza parte di Globalizzati e scontenti si occupa del mercato del lavoro (pp. 147- 180) e delle trasformazioni in esso intervenute nell’epoca recente. Il passaggio dal paradigma della produzione di beni a quello della produzione di servizi comporta alcuni corollari rilevanti: alcuni settori dell’economia (per esempio quello finanziario e quello informatico) presentano elevati trend di crescita sia nel business che nelle retribuzioni degli operatori più qualificati; tendono ad occupare gli spazi più centrali nelle città globali, al fine di mettere in opera le necessarie politiche di controllo e coordinamento delle transazioni; tale occupazione massiccia di spazi modifica la struttura dei prezzi sul mercato immobiliare, costringendo molte aziende a bassa redditività ad uscire dalle zone centrali delle grandi città, a periferizzarsi, e/o a scegliere regimi economici di tipo informale, oltre i margini della legalità nei campi del diritto del lavoro, della sicurezza, dell’igiene, ecc…; all’interno di tali regimi informali la forza lavoro occupata tende ad essere di donne e immigrati e la forbice retributiva fra la parte bassa e quella alta della piramide si divarica sempre di più, dando luogo a forme di nuova povertà. L’informalizzazione del rapporto del lavoro, inoltre, ne favorisce la precarizzazione, che è ulteriormente complicata sia dal ridimensionamento del ruolo dell’impresa nella strutturazione di tale rapporto (si pensi alla perdita di peso dei mercati interni prodotta dalla polarizzazione delle funzioni lavorative) sia in quanto alcune funzioni del mercato del lavoro passano alla comunità e/o alla famiglia (per esempio le attività di recruiting e quelle di formazione), all’interno delle quali costituiscono comunque un costo che incide sulla ricchezza e sulla qualità complessiva della vita. La proposta politica di Sassen è che le città globali, che sono i luoghi in cui si mostra in modo più acuto lo sviluppo di questi processi, adottino politiche di tutela dell’economia informale invece di criminalizzarla: così, per esempio, si possono pensare interventi di legalizzazione tramite riqualificazione dell’economia informale e forme di supporto di tipo tecnico e finanziario, all’interno di un contesto di rapporto partecipativo fra pubblico e privato, nel quale sia possibile recuperare un ruolo per lo Stato. Tale proposta, per Sassen, riceve la propria forza dal fatto che il processo di informalizzazione dell’economia non viene creato dagli immigrati, dalle famiglie marginali o dagli imprenditori delle aziende a bassa reddività in modo spontaneo, ma è un effetto dei meccanismi di globalizzazione dell’economia, che lo rendono, pertanto, necessario.
Ipotizzare un intervento regolamentatore dello Stato in campo economico e nei processi di riproduzione sociale è possibile solo se si riesce ad identificare uno spazio fisico di sua pertinenza, nel quale esso sia deputato ad operare e possa farlo in maniera efficace. Del problema della rilocalizzazione degli spazi economici si occupa la quarta ed ultima parte del libro di Sassen (pp. 181-222). L’analisi si concentra, qui, sullo spazio elettronico, quello che presenta le caratteristiche più immateriali, da un lato, e che è più transnazionale, dall’altro. La tesi di Sassen è che "lo spazio elettronico è una realtà contestualizzata" (p. 184), quindi non neutrale rispetto ai processi di potere e non spontanea. Le determinanti di questa contestualizzazione sono: il fatto che nessuna impresa sia completamente virtualizzata; la disuguaglianza nella distribuzione di infrastrutture dello spazio elettronico, che comporta il problema dell’accesso; la cibersegmentazione prodotta dalla commercializzazione di Internet come manifestazione della disuguaglianza (pp.184-185). Lo spazio elettronico, immateriale, fatto di connessioni e di software è lo spazio principe della globalizzazione, soprattutto delle sue centralissime componenti finanziaria e informatica. L’attività economica, nello spazio elettronico, è sempre più dispersa, dal punto di vista fisico, e sempre più integrata telematicamente. Tale integrazione richiede capacità di investimento molto forti, e, ovviamente, il fatto di non averle aumenta il grado di disparità fra paesi e operatori ricchi (imprese) e paese e operatori poveri (famiglie). Inoltre essa ridispone gli spazi accentrando il potere all’interno della rete di relazioni che intercorrono fra le città globali, centri di potere transnazionale, ultrastatale, che rimettono pesantemente in discussione il ruolo dello Stato. Così "si rischia di venire governati da società multinazionali, responsabili soltanto verso il mercato globale", senza che l’enorme potenziale generato dalla tecnologia abbia un valore sociale nel promuovere "uno sviluppo equo e sostenibile del mondo" (p. 199). Dal punto di vista politico, per Sassen qui siamo in presenza di una battaglia per la democrazia, che avviene all’interno di uno spazio conteso fra multinazionali e interesse diffuso della collettività. Le armi con le quali combattere questa battaglia sono identificabili nella società civile e nella sua capacità di resistere al dilagare dell’interesse economico in Internet (contro il principio originario della rete) contendendone lo spazio, per quanto riguarda la componente immateriale del problema, e in un recupero del ruolo dello Stato, per ciò che concerne invece l’aspetto materiale. Infatti "per fornire servizi di telecomunicazione che neutralizzano la distanza, le imprese devono avere accesso a una realtà assolutamente materiale, giacché la tecnologia principale è ancora quella delle fibre ottiche, che sono tutt’altro che immateriali" (p. 191). La complessità dei processi di creazione delle infrastrutture che consentono le operazioni di controllo del capitale rende più semplice accentarli in luoghi fisici determinati (le città globali), operazione che sottrae potere e capacità di controllo allo Stato nei confronti di una transnazionalizzazione, privatizzazione e deregolamentazione dell’economia, che, fra l’altro, indebolisce anche la struttura dei rapporti interstatali. Tuttavia, per Sassen, lo Stato "rimane il garante ultimo dei diritti del capitale, nazionale o estero" (p. 206), in quanto è comunque ancora l’unico ente in grado di far rispettare l’esecuzione dei contratti. Sfruttando questo ruolo necessario sarebbe possibile ipotizzare un’azione politica di regolamentazione da parte dello Stato, proprio in quegli ambiti definiti dalla griglia di relazioni interne alle città globali, rispetto ai quali esso sembrerebbe più estraneo: "questa nuova geografia della centralità potrebbe a sua volta divenire uno spazio per la concentrazione di attività di regolamentazione" (p. 222), all’interno di un ambito normativo prodotto da un’azione politica, i cui confini restano aperti a una futura definizione.
Per Spazio Globale, 03/2002