IMPERO, UN MANIFESTO PER IL XXI SECOLO
E' uscito in Italia il libro firmato da Toni Negri e Michael Hardt, già best-seller in America, che analizza il mondo dell'imperialismo globale nato sulle ceneri dei Paesi comunisti.
di Diego Gabutti
MILANO - Gli avvoltoi liberisti e le centurie nere del capitale, quando crollò il Muro di Berlino e le multinazionali s’illusero (oh, quanto s’illusero) d’aver vinto la partita, ballarono il tip-tap sulle rovine dell’utopia socialista, come il dio Shiva delle Upanisad e della Bhagavad-Gita, che si diverte soltanto quando soffia il vento dell’apocalisse.Sembrava proprio che gli orrori del libero mercato avrebbero trionfato in breve sulle meraviglie del collettivismo e della democrazia sostanziale (il partito unico, il kaghebé, i campi di lavoro e di rieducazione).
Poi all’improvviso un miracolo. S’alzò di nuovo il vento della rivoluzione e su dalle rovine sbriciolate e polverose dell’utopia montò possente e irresistibile il movimento antiglobalista che dichiarò guerra al libero mercato per mare e per terra e che in quattro e quattr’otto mise a ferro e fuoco le città nemiche (Seattle, Praga) e persino un’ex repubblica marinara (Genova). Fu allora che Toni Negri, le cui opere erano da un pezzo uscite di catalogo, disperse e dimenticate come l’operaio-massa e l’epica del passamontagna calato sul viso, risorse dalle sue ceneri e scrisse un libro a quattro mani con Michael Hardt, del Dipartimento di Letteratura della Duke University: Impero, pubblicato in prima edizione dalla Harvard University Press. Impero , che è stato un best-seller negli Stati Uniti , adesso rimbalza anche in Italia, tradotto da Rizzoli. Un tomo alto così, come l’ego dei filosofi.
Che cosa dice Impero? Be’, lo dice la parola stessa: stiamo assistendo (secondo Michael Hardt e Antonio Negri, anzi secondo Michael Hardt/Antonio Negri, con uno slash da età del computer a unirli/separarli/o che nei titoli di copertina) né più né meno che al sorgere d’un nuovo impero, yankee e postmoderno fin nel midollo, volendo anche un po’ biopolitico, il cui dominio s’estende o si sta estendendo da un capo all’altro del mondo attraverso penetrazioni culturali, operazioni di polizia, passaggi di sovranità e passaggi di produzione, dialettiche di sovranità coloniale, reti (e forse pure anelli) di potere, razzismi imperiali sia moderni che postmoderni, nuovi paradigmi imperiali "a un tempo sistemici e gerarchici", nonché piani governamentali ed extragovernamentali per imporre il controllo globale (piani, occhio, che "sono falsi e veri a un tempo"). Per capire bene di che diavolo d’Impero si tratti, sempre secondo Hardt/Negri, è necessario però che ci s’intenda su un punto, vale a dire che il sorgere di questo Impero coincide col suo declino e la sua caduta, dunque con la sua crisi. All’interno di questa crisi, come un topo nel formaggio, s’annida nientemeno che il nuovo proletariato. Un proletariato nuovo finché si vuole, del resto, ma sempre con lo stesso chiodo fisso, cioè sempre con gli stessi "bisogni" e "desideri". Gli piace il formaggio e se lo vuole pappare.
E tutt’intorno? Be’, tutt’intorno c’è l’Impero, purtroppo: un paesaggio di trappole per topi che s’estende da un capo all’altro dell’orizzonte, bocconi avvelenati che rimbalzano tra i punti cardinali come palline nel flipper, trappole per topi e boccconi avvelenati fin dove arriva lo sguardo. Che fare, allora, per il formaggio, quando l’appetito non basta a farlo piovere, quale manna, giù dal cielo? Niente. Fanno tutto quei babbioni di capitalisti da sé, come Hardt/Negri hanno spiegato al New York Times: "Le continue sconfitte della sinistra nel corso degli ultimi decenni hanno portato i capitalisti proprio dove li vogliamo: talmente sicuri di sé che il loro appropriarsi del plusvalore operaio ha aperto nella cittadella dello sfruttamento una breccia così ampia da lasciarvi entrare l’onda d’una soggettività insorgenziale". Onda. Soggettività. Insorgenziale. Più avanti anche "moltitudine", anzi "il telos della moltitudine". Queste sì che sono parole definitive, capaci di cambiare il mondo, come "proletari di tutto il mondo unitevi" e "la Forza sia con voi".
Dopo aver lodato i contestatori di Genova, definendoli "parte integrante della società democratica", un po’ come il fruscìo è parte integrante d’un vecchio 45 giri e il verme è parte integrante della mela, Hardt/Negri hanno aggiunto di vedere "già i semi di quel futuro nel mare di facce che si estende dalle strade di Seattle a quelle di Genova. Una delle più notevoli caratteristiche di questi movimenti è la loro diversità… ma possiamo scoprire qualcosa di comune nella loro diversità". Mare di facce. Diversità. Comunanza. Movimenti. Ma soprattutto mare di facce.
Mica per niente Hardt insegna letteratura e Toni Negri è Toni Negri. Vale a dire un marxista anomalo, anzi romanzesco, se non addirittura favolistico. Tant’è vero che Slavoj Zizek, eminente filosofo politico sloveno, ha definito Impero nientemeno che "la riscrittura del manifesto di Marx ed Engels per i nostri tempi". Qualcuno gli ha però negato tanto onore. Charles Tilly, storico marxista coi controfiocchi, professore alla Columbia, ha infatti scritto sul Canadian Journal of Political Science che gli autori di Impero "rifiutano la concretezza del Manifesto del partito comunista e si vantano di questo rifuto. Hardt e Negri formulano le loro tesi", afferma Tilly, "in modo astratto".
Ci vuole un bel coraggio, lasciatecelo dire, a non riconoscere la concretezza delle tesi di Michael Hardt/Antonio Negri, i quali affermano per esempio (citiamo jazzisticamente, aprendo il libro a caso) che "i poteri della scienza, della conoscenza, degli affetti e della comunicazione, dispiegandosi sull’intera superficie dell’Impero, innervano la nostra virtualità antropologica". Cosa c’è di più concreto? "Innervano". Questa sì che è musica. E quant’è concreta, a sua volta, anche la tesi sul "potere costituente della moltitudine" (citiamo sempre a caso, ambarabaccicciccoccò) un potere che è "il prodotto dell’immaginazione creativa della moltitudine che configura la sua propria costituzione" e rende così concepibili l’eguaglianza e la solidarietà, quelle fragili istanze che, nella storia delle costituzioni moderne, erano fondamentali ma restavano loro sì astratte!
Ma per gustare al meglio Impero è necessario scorrere col dito l’elenco dei nomi citati alla fine del libro. È una passerella degna delle Zigfield Folies. Ci sono Th.W. Adorno e Vittorio De Sica, Silvio Berlusconi e Georges Clemenceau, Aristotele e William Gibson, Ortega y Gasset e David Cronenberg, Tommaso Campanella e Schopenhauer, Maometto ed Elvis Presley, Orfeo e Chou En-Lai. Stupisce quasi che Hardt/Negri dimentichino (chissà perché) di citare, anche soltanto di striscio, l’economista austriaco Ludwig von Mises e il suo pupillo, il premio Nobel Friedrich von Hayek, che hanno dimostrato scientificamente l’impossibilità del socialismo. Mancano, del resto, anche Pippo, Pluto e Paperino. Next time.
(ha collaborato Alberto Mingardi)
Fonte: Il Nuovo
29/1/2002