Impero (M. Hardt, A. Negri)

di Francesco Lauricella

L’ipotesi fondamentale del libro è che stiamo assistendo alla nascita di una nuova forma di sovranità: una nuova logica e nuove strutture di potere. Contro l’unanimismo della crisi delle forme di potere (crisi dei partiti, crisi dello stato nazionale, crisi della politica) nella versione liberista che celebra la nuova libertà delle forze economiche e nella versione della sinistra europea che critica la diminuzione della rappresentanza democratica, gli autori leggono in queste diminuzioni i sintomi dell’avvento di un nuovo ordine mondiale. "La nostra ipotesi fondamentale è che la sovranità ha preso una forma nuova, composta di una serie di organismi nazionali e sovra-nazionali, uniti da una logica unica di governo. Questa nuova forma mondiale di sovranità è quello che noi chiamiamo impero." Da non confondere con l’imperialismo di vecchia memoria. L’imperialismo si fondava sulle frontiere territoriali per definire l’interno e l’esterno e funzionava come estensione della sovranità degli stati nazionali al di fuori delle loro frontiere.

L’impero non stabilisce un centro territoriale e non si appoggia né su frontiere, né su barriere fisse. L’impero non è nemmeno, o almeno non vuole essere, una metafora di comodo ma un concetto che esige e permette un approccio teorico. L’assenza di frontiere è un aspetto fondante e ne fa un regime che ingloba la totalità dello spazio. Riorganizza lo spazio ma anche il tempo.

L’impero si presenta non come un regime storico che trae le sue origini da una conquista, ma come un ordine che sospende il corso della storia; non come un momento nel flusso temporale ma come un regime senza frontiere temporali che annuncia la fine della storia.

L’impero non si riassume nemmeno nel mercato mondiale; più che un’organizzazione informale è un nuovo ordine globale. Il mercato mondiale è infatti politicamente unificato attorno a quelli che, da sempre, costituiscono i segni della sovranità: il potere militare, quello monetario e, infine, quello comunicativo, culturale e linguistico. Il potere militare si rappresenta nel possesso da parte di una sola autorità della panoplia dell’armamento. Quello monetario consiste nella capacità di coniare una moneta egemonica alla quale il mondo plurale della finanza è interamente subordinato. Quello comunicativo si traduce nel trionfo di un unico modello culturale e, tendenzialmente, di una sola lingua universale.

La bomba, il denaro e la comunicazione sono i nessi del nuovo ordine mondiale. L’arma nucleare, il potere di distruzione globale, confisca la guerra e toglie agli stati nazionali quello che era un aspetto fondamentale della definizione tradizionale di sovranità. La minaccia suprema riduce l’orizzonte della guerra a una dimensione locale e ribellistica. La guerra diventa così l’appannaggio esclusivo dei poteri di amministrazione e di polizia: è la pax imperiale.

Il denaro è il secondo mezzo mondiale di controllo assoluto. Le strutture monetarie nazionali tendono a perdere qualsiasi caratteristica di sovranità a profitto di una rete di centri politici e finanziari internazionali ma anche questo nuovo arbitro e potere non ha né luogo geografico né statuto trascendente.

La comunicazione costituisce il terzo mezzo fondamentale del controllo imperiale. Qui è la possibilità stessa di legare un ordine a uno spazio che viene negata. I sistemi contemporanei di comunicazione non sono subordinati a una sovranità, anzi è la sovranità che sembra subordinata alla comunicazione o meglio che si articola e si enuncia attraverso i sistemi di comunicazione. In questo modo l’impero, come quello di Polibio, riunisce le tre forme di governo: quella monarchica (il monopolio delle armi), quella aristocratica (il denaro) e quella democratica (la comunicazione) e, nello stesso modo, rompe il ciclo storico che va dalle buone alle cattive forme della città e del potere: dalla monarchia alla tirannia, dall’aristocrazia all’oligarchia e dalla democrazia all’anarchia.

Il biopotere.

Se molte delle pretese di dominio che il potere imperiale vanta sono illusorie, resta che il suo ordine, giuridico, politico e sovrano è oggi, se non più efficace, certo più globale e totalitario di quanto lo siano state tutte le forme precedenti. Esso, infatti, non solo si estende spazialmente ma anche nel radicamento continuando a approfondire il suo controllo su tutti gli aspetti della vita. L’impero costituisce un potere e un ordine biopolitico perché la produzione è diventata biopolitica. Il luogo della produzione non è più la fabbrica industriale, momento di passaggio nella sussunzione reale del lavoro, ma l’intera società e, meglio, l’intero tessuto della vita sociale, produzione e riproduzione dell’umanità stessa, intelletto, corpo e sentimenti insieme. Il biopotere diventa un agente produttivo quando il contesto intero della riproduzione è sussunto sotto le regole del capitalismo, cioè quando la riproduzione e le relazioni vitali che la costituiscono diventano esse stesse direttamente produttive. Il biopotere è un altro nome per la sussunzione reale della società dentro il capitale e, tutte e due, sono sinonimi d’ordine produttivo mondializzato.

La moltitudine.

E’ qui che finisce la preistoria del capitale, quando la cooperazione sociale e soggettiva non è più un prodotto, come nelle modalità disciplinari dello stato moderno, ma un presupposto, quando la vita stessa, in tutti i suoi aspetti, è elevata alla dignità di potere produttore e diventa l’orizzonte del virtuale e del possibile. Ma è anche qui che il concetto di impero ritrova il suo destino, quello stesso di Montesqieu e di Gibbon: la teoria della costituzione dell’impero è anche quella del suo declino. L’impero nasce come crisi e vive come crisi. L’impero nasce nella crisi della civilizzazione europea, organizzata nelle istituzioni della sovranità moderna, che non riesce a stare in ritmo con i poteri vitali della democrazia di massa e vive nella crisi permanente del suo modo stesso di produzione. La massa indifferenziata che, per la sua sola presenza, è stata in grado di distruggere la tradizione moderna e il suo potere trascendente appare ormai come una potente forza produttiva e una fonte incomprimibile di valorizzazione. La massa si è trasformata in moltitudine. La moltitudine è l’umanità che è diventata agente della produzione che produce e riproduce se stessa. Produrre e riprodursi in modo autonomo significa costruire una nuova realtà ontologica, una singolarità che è una realtà prodotta per cooperazione. Questa nuova comunità umana si costituisce e si afferma attraverso la circolazione, il nomadismo e il metissaggio.

Il nomadismo e il metissaggio.

Attraverso la circolazione la moltitudine si riappropria dello spazio e si costituisce come soggetto attivo. Questi movimenti si fanno tra sofferenze anche terribili ma sono portatori di un desiderio di liberazione che può essere appagato solo nella costituzione di nuovi spazi per nuove libertà. Le migrazioni di massa sono diventate indispensabili alla produzione postmoderna. Non esisterebbe oggi produzione, in nessun settore, dalla moda alla scienza, senza il lavoro ‘clandestino’ degli immigrati attirati dagli orizzonti luminosi della ricchezza capitalistica. E’ in questo movimento creatore che si realizza l’avvento della città terrestre della moltitudine. A fronte di ciò l’ordine imperiale è costretto a una lotta perenne e contraddittoria per disciplinare questo movimento senza distruggere quella che è la base stessa della sua ricchezza. Il potere di circolare è una determinazione primordiale delle potenzialità virtuali della moltitudine e circolare diventa il primo atto etico di una ontologia contro-imperiale. " La circolazione è un esodo mondiale, cioè un nomadismo, e un esodo fisico, cioè un metissaggio".

Il telos.

Arriva qui la domanda fondamentale e che non può essere elusa: come può la moltitudine diventare soggetto politico nel contesto dell’impero? La risposta degli autori è che "l’azione della moltitudine diventa politica, all’origine, quando comincia a affrontare direttamente e con una coscienza adeguata le operazioni repressive centralizzate dell’impero. Si tratta allora di identificare e di contrastare le iniziative imperiali e di non permettere loro di ristabilire continuamente l’ordine; si tratta di attraversare e rompere i limiti e le segmentazioni che sono imposte alla nuova forza lavoro collettiva; si tratta di unificare le esperienze di resistenza e di utilizzarle di concerto contro i centri nevralgici dell’autorità imperiale". Questo può sembrare irrealismo velleitario di fronte all’onnipresenza e alla profondità sociale dell’ordine imperiale? Gli autori lo negano, rivendicando il realismo dell’utopia della teoria e dell’analisi. Basta ricordare che la nuova potenza produttiva e riproduttiva dell’umanità non è il prodotto ma la causa dell’impero. Sono le lotte della moltitudine che hanno prodotto l’impero come un’inversione della propria immagine e che rappresentano, oggi, un eccesso di valore rispetto alle forme legali e giuridiche esistenti. "L’impero pretende di essere il signore del mondo perché può distruggerlo: quanto orrore e quanta illusione! In realtà siamo noi i signori del mondo perché sono il nostro desiderio e il nostro lavoro che lo rigenerano in continuazione". Ma ancora, come può questo virtuale trasformarsi in possibile e in reale e il soggetto diventare politico? Come può affermarsi una mitologia materiale della moltitudine che diventi telos di una città terrestre, staccata, per la forza del suo potere costituente, da ogni appartenenza e soggezione a una città di dio, che ha perso qualsiasi onore e dignità? Il primo passaggio è la riappropriazione del suo essere ontologico, la rivendicazione della sua capacità di ridefinire lo spazio e il tempo. Se la moltitudine rompe i limiti dello spazio usando il suo nomadismo per definirsi come soggettività, il diritto generale a controllare i propri movimenti diventa un esigenza fondamentale. Per l’impero è essenziale isolare, dividere e separare attraverso nuove forme di segmentazione e segregazione. Per la moltitudine la cittadinanza mondiale è il potere di riappropiarsi del controllo dello spazio e di disegnare una nuova cartografia. Attraverso la cooperazione, nell’esistenza collettiva e nelle reti di comunicazione, la moltitudine si riappropria del tempo e lo ridefinisce sul piano dell’immanenza. La cooperazione collettiva costituisce il tempo al di là della misura, come un processo immanente di costituzione ontologica. La non misurabilità del tempo e del valore nasce e si alimenta nella progressiva indistinzione tra produzione e riproduzione nel contesto del potere biopolitico. Questa generalità della produzione biopolitica conduce a una seconda esigenza fondamentale per il potere costituente della moltitudine: un salario sociale e un reddito garantito per tutti. Nel passaggio alla società postmoderna e alla produzione biopolitica, la forza lavoro diventa totalmente sociale e collettiva rompendo le distinzioni tra produttivo e improduttivo e, anche, tra lavoro e non lavoro. Quando il lavoro non è più individuale ma sociale il reddito non può che essere sociale e garantito. Perchè il corpo della moltitudine possa configurarsi in telos è necessario che le lotte facciano irruzione in tutti i campi seguendo l’intreccio tra produzione e vita. Se la comunicazione e la cooperazione linguistica sono diventati il tessuto della produzione e la struttura della corporeità produttiva, vuol dire che il controllo del senso e della significazione linguistica come delle reti di comunicazione diventa terreno vitale della lotta politica. Un primo aspetto del telos è posto quando i dispositivi che legano comunicazione, linguaggio e vita diventano terreno di lotta contro la colonizzazione capitalista della socialità comunicatrice. Un secondo aspetto del cammino del telos della moltitudine sta nel rapporto con le macchine e la loro utilizzazione. Si tratta di andare al di là del riconoscimento della non neutralità delle macchine e del loro ruolo di strumenti biopolitici che partecipano a tessere la nuova intelligenza biopolitica. Il processo di costituzione di un nuovo proletariato fa un balzo in avanti nel momento in cui la moltitudine si identifica come ‘macchinica’ e concepisce una possibilità di uso alternativo delle macchine e delle tecniche in un intreccio autonomo e non più subalterno: costruire un nuovo sistema di macchine attraverso la lotta sul senso e sulla significazione del linguaggio. ‘L’ibridazione dell’uomo e della macchina non è più un processo ai margini della società: è un episodio fondamentale al cuore della costituzione della moltitudine e del suo potere’. Si configura così una terza esigenza politica della moltitudine: il diritto alla riappropriazione . Nel nuovo contesto, riappropriazione significa avere libero accesso e controllo sulla conoscenza, l’informazione, la comunicazione e gli affetti in quanto mezzi primari della produzione biopolitica.

Il posse.

Per indicare il crearsi dell’autonomia politica della moltitudine, gli autori riprendono il termine latino posse, dalla trilogia rinascimentale esse-nosse-posse, che rinvia al potere della moltitudine e del suo telos, un potere incarnato di conoscenza e di essere, sempre aperto al possibile. Il posse è un progetto di costituzione, la messa in opera di un potere costituente che lega l’intelletualità di massa e l’autovalorizzazione in tutti i campi della cooperazione sociale. Il modo di produzione della moltitudine si riappropria della ricchezza del capitale ma costruisce ugualmente una nuova ricchezza articolata sui poteri della scienza e della conoscenza sociale. E’ la capacità di costruire dei luoghi, delle temporalità, delle migrazioni e dei corpi nuovi che fondino una nuova città terrena distinta da qualsiasi città celeste.

Fonte: www.spaziopiù.it

01/2002