Riporto letteralmente questo testo perché, secondo me, rappresenta brillantemente la realtà lavorativa che la maggioranza degli individui vive nella sua quotidianità.

 

 

[Tratto da: Il futuro del lavoro, De Masi, 1999]

 

IL DISAGIO DEL LAVORO

Otto capi di accusa nei confronti dell'attuale organizzazione del lavoro

  1. Le organizzazioni produttive rendono infelici perché costringono i loro dipendenti ad essere (o almeno a sembrare) efficienti e competitivi a tutti i costi
  2. Fate caso alle scritte ostentate in molti uffici: a prima vista sembrerebbero aggraziate, ma in effetti sono altrettante istigazioni a delinquere.

    Prendete questo: "Ogni mattina, in Africa, una gazzella si sveglia. Sa che dovrà correre più veloce del leone, o verrà uccisa. Ogni mattina, in Africa, un leone si sveglia. Sa che dovrà correre più veloce della gazzella, o morirà di fame. Quando sorge il sole, non importa se tu sei un leone o una gazzella: sarà meglio che cominci a correre".

    Se non siete del tutto alienati, vi basterà un attimo di riflessione per cogliere che una frase del genere, magari adatta a reclamizzare scarpe sportive, se adoperata in azienda come pensiero edificante, diventa una disgustosa esaltazione di quella barbara guerra di tutti contro tutti che le imprese chiamano competitività e che attizzano di giorno e di notte, dentro e fuori, a livello locale e globale. Non a caso la metafora ha come scenario la foresta africana e come protagoniste le bestie.

    Si tratta di una guerra sadica, in cui ognuno, appena conquista una briciola di potere, si sente legittimato ad azzannare gazzelle. Si tratta di una guerra masochista, in cui ognuno, appena si ritrova al cospetto del capo, si sente una gazzella tenuta a farsi sbranare dal leone. Si tratta di una guerra stupida perché, nella gerarchia aziendale, ognuno è capo di qualche dipendente ed è dipendente di qualche capo: ognuno, dunque, è costretto a scindersi, a sdoppiarsi, a diventare schizofrenico giocando a rimpiattino con se stesso, aizzando il leone prepotente che si porta dentro affinché insegua la gazzella inerme che pure dentro si porta.

    Questa guerra ridicola e pericolosissima, che esalta in ogni azienda l'istinto felino alla violenza, che premia l'aggressività, che fa di ogni manager un punk in doppiopetto, questa guerra inutile e, alla fine, dannosa per tutti, devasta il senso di solidarietà, l'abitudine alle buone maniere, la dolcezza dei rapporti umani, l'estetica dei luoghi, il tempo della vita.

  3. Lo squallore estetico del teatro di guerra dell'organizzazione del lavoro
  4. Poiché, leone o gazzella, comunque bisogna correre e colpire, tutto è organizzato come un velodromo o un campo di battaglia. Molti reparti produzione restano infernali come 100 anni fa: calore, polvere, pericolosità, disordine, servizi igienici immondi, rumore assordante, concorrono tuttora a degradare molte fabbriche al livello di bolgia, nel totale disprezzo della dignità e della privacy. Adriano Olivetti e l'esemplare stabilimento che egli costruì ad Arcofelice già nel 1955, restano ancora una delle poche eccezioni rispetto alla maggioranza delle imprese che danno per scontata e inevitabile l'identificazione della fabbrica con la bruttezza. Per gli impiegati e per i manager il panorama cambia e la degradazione fisica delle officine viene rimpiazzata dalla monotonia, l'anonimato, l'asetticità ospedaliera degli uffici, e dall'infantilismo degli status symbol. Le sedi aziendali in vetrocemento, nude e seriali come penitenziari predisposti per sorvegliare e punire, vengono dislocate in zone sempre più periferiche e desertificate. Dove prima erano le fabbriche, ora, con minimi ritocchi architettonici, vengono arrangiati uffici che nei ripetono lo squallore senza conservarne la vitalità.

    In questi acquari periferici, dirigenti-squali e dipendenti-trote nuotano per dieci ore al giorno, fingendosi indaffaratissimi, mangiandosi l'un l'altro e galleggiando nella noia delle riunioni inutili.

    Tutto, intorno a loro, disegna cerchi concentrici di povertà estetica.

    Il cerchio più esterno è costituito dal paesaggio: vedute panoramiche su autostrade puzzolenti o su pianure nebbiose dove filari dritti di alberi crescono in batteria come i cipressi e le tombe di Redipuglia.

    Il cerchio interno costituito dall'edificio tardo razionalista, copiato da qualsiasi manuale per studenti di architettura, dove è severamente vietato l'ingresso ai non addetti ai lavori e dove il rituale per entrare e per uscire evoca i picchetti di guardia alle caserme.

    Il cerchio ancora più interno è composto dal piano e dai corridori: dritti e vuoti, asettici come il loro linoleum e indecisi come i loro colorini pastello.

    Il cerchio più interno di tutti è l'ufficio: stanzucce dalle pareti mobili che ogni giorno si restringono, open space brulicanti di impiegati che si tolgono a vicenda la solitudine senza darsi la compagnia, uffici veri e propri, con tanto di scrivanie, poltrone e ficus regolamentari, dove i manager si dondolano su sedie girevoli e basculanti.

    Tutto in serie, tutto scontato, tutto al maschile, tutto spersonalizzato. Tranne qualche segreteria traboccante di piante grasse, tappezzate di manifesti pop, di cartoline postali ricevute dalle colleghe in viaggio di nozze alle Maldive, di scritte che parlano di leoni e di gazzelle.

    Le pause, ovviamente, sono dedicate al pranzo e al caffè: per metabolizzare e per tenersi svegli. Poichè si tratta di funzioni umane, ad esse vengono destinati i locali più bui e più squallidi, privi d'aria, quindi senza valore commerciale.

    Il pranzo è ovviamente organizzato a self service affinché nessun attimo di tempo resti immolato alla comodità.

    Le cosce di pollo sono gelide, le foglie di insalata sono mosce, tanto nessuno dei commensali ricorda più come è fatto un pranzo decente. Alla fine, è obbligatoria la frase: "tutto sommato, non si mangia male". Tutto sommato.

    Il caffè, chiamato a coronare il pranzo e la pausa, viene sputato fuori da macchinette sistemate nei sottoscala isolati, accortamente scelti per scoraggiare ogni tentazione di convivialità.

    Nel gergo dei consulenti aziendali, tutto questo si chiama "ecologia del benessere".

    E per accrescerne la goduria, alcune aziende prive di ironia, una volte alla settimana, consentono ai propri dipendenti di godersela la vestendo abiti informali: lo chiamano "dress down day".

    In questo capo di imputazione concernente i luoghi di lavoro, rientra l'ostinato rifiuto delle aziende a sfruttare le nuove tecnologie telematiche per rompere con il telelavoro il cerchio fisico dell'ufficio accentrato.

    Il rifiuto del telelavoro da parte delle organizzazioni è un peccato mortale contro la ricomposizione del lavoro con la vita, cioè contro il compimento della più benefica tra le rivoluzioni consentite dalla società postindustriale.

  5. L'inutile estorsione di tempo attraverso la pratica dell'overtime
  6. Si potrebbe immaginare che ogni lavoratore cerchi di ridurre al minimo la permanenza nei luoghi che nelle guerre che ho appena ricordato.

    Niente affatto.

    Tutti siamo convinti, forse a ragione, che i ministeri siano luoghi di lavoro dovrà quasi nessuno lavora.

    Invece le aziende, soprattutto quelle private, hanno fama di macchine strizzacervelli dove la grande maggioranza dei colletti bianchi è costretta a restare in ufficio fino a tarda sera per smaltire i propri carichi di lavoro, eccessivi per definizione.

    Nella maggioranza dei casi, questo lavoro straordinario non è neppure retribuito e acquista tutto il sapore del sacrificio spontaneamente offerto alla propria azienda in segno di fedele integrazione e con la tacita speranza di ricavarne vantaggi di carriera.

    Le imprese incoraggiano questo comportamento e insegnano a gestire il tempo con la parsimonia che si riserva alle risorse scarse: organizzano seminari di time management, fanno fare esercitazioni sulla pianificazione dell'agenda, adottano espedienti per risparmiare decimi di minuti, come se davvero il tempo non bastasse a fare le cose che occorre fare.

    Questa grande messinscena si avvale di consolidate liturgie: guardie giurate agli ingressi, cartellini marcatempo, firme di presenza, sofisticati conteggi dei recuperi, interminabili trattative su orari cervellotici.

    Conosco uno stabilimento petrolchimico in cui gli 800 dipendenti devono entrare alle 7,42 per uscirne alle 16,56; qualche anno fa la direzione del personale dell'Alitalia, per fronteggiare a suo modo la crisi dell'impresa, ha ridotto di cinque minuti l'orario per i pasti.

    Nel grande teatro che chiamiamo overtime, milioni di manager si fingono ogni giorno sovraccarichi di lavoro, illusi di essere indispensabile alla propria azienda, convinti che il tempo non gli basti mai, addestrati a spalmare su dieci ore le faccende che si potrebbero sbrigare in cinque ore, alienati al punto da portarsi le pratiche a casa durante il week end, alla faccia dei già trascuratissimi figli.

    L'Italia e il Giappone sono le punte avanzate dell'overtime, ma se è comprensibile per un paese che ha inventato i kamikaze, il fenomeno resta misterioso per un paese che ha inventato le ferie con i ponti: quelli che non a caso gli inglesi chiamano italian bridges.

    Ma è un'azienda giapponese a suonare il campanello d'allarme: tempo fa la Fuji Bank ha reso noto lo studio dal quale risulta che il 4% dei propri dipendenti resta tutto il giorno ufficio senza fare assolutamente nulla.

    Ipotizzando che anche nelle imprese italiane accada qualcosa del genere, ho intervistato centinaia di manager che generalmente si lamentano di carichi di lavoro stressanti, lunghi straordinari non retribuiti, necessità professionale di sacrificare sistematicamente alla carriera il proprio tempo libero, trascurando amori e famiglia.

    Quando si arriva al dunque la stragrande maggioranza degli intervistati finisce col riconoscere che, per svolgere effettivamente i propri compiti quotidiani, potrebbero bastare 5/6 ore al giorno in tutto.

    Tutto il resto è teatro.

    Ma il risultato più sorprendente è che, quanto meno tempo reale occorre ad un manager per smaltire il proprio carico di lavoro quotidiano, tanto più egli tende a restare in ufficio oltre l'orario canonico: avendo ormai appreso come si finge di lavorare senza nulla fare, egli cerca di estendere all'infinito questa sua scaltrita capacità di finzione.

    In altri termini, lo stress manageriale esiste, ma non dipende tanto dal carico di lavoro o dall'eccesso di responsabilità, quanto piuttosto dalla frustrazione per aver poco da fare e, nello stesso tempo, per dover dimostrare di essere indaffaratissimi: dipende cioè dall'overtime.

    Le cause principali di questo paradosso sono tre.

    La prima è di ordine storico.

    L'assillo per gli orari si consolidò nelle vecchie aziende manifatturiere dove la maggioranza dei lavoratori era costituita da operai addetti alle catene di montaggio e dove in tot minuti si producevano tot pezzi. Per comodità organizzativa, il controllo minuzioso dei tempi fu esteso dalle officine agli uffici, dove il travet svolgeva centinaia di pratiche al giorno, tutte uguali e quindi assoggettabili agli stessi metodi adottati per la produzione dei bulloni. Sempre per comodità dei gestori del personale, gli stessi metodi sono oggi applicati al lavoro professionale e manageriale che, pur non producendo bulloni ma idee, è di fatto trattato come se la sua produzione fosse direttamente proporzionale al tempo trascorso tra le quattro mura dell'ufficio.

    La seconda causa è di ordine tecnologico.

    Le macchine automatiche ridussero il tempo necessario per produrre bulloni; le macchine elettroniche hanno ridotto il tempo necessario per produrre idee: ciononostante, il tempo che i manager trascorrono in ufficio è rimasto immutato in ossequio alla loro natura conservatrice e all'odio che essi nutrono per la vita familiare, opportunisticamente lasciata all'egemonia delle mogli.

    La terza causa è di ordine culturale.

    Sin dai primi giorni della loro assunzione in azienda, il manager è sottoposto al rito di iniziazione all'orario prolungato. Quando, allo scoccare delle 8 ore contrattuali, il neoassunto ha ordinato la scrivania e si avvia all'uscita, le occhiate severe dei colleghi più anziani gli fanno capire che la sua futura carriera è legata alla quantità di tempo extra orario che gli è disposto ad offrire al proprio capo.

    Così il neoassunto si abitua mano a mano a prolungare la permanenza giornaliera nel recinto aziendale, anche se non ha compiti urgenti da svolgere. Dopo qualche mese, completato l'addomesticamento del neofita a queste regole non scritte, il nostro nuovo funzionario modello, divenuto ormai portatore sano del mito efficientisctico, è pronto a contagiarne a sua volta le reclute successive.

    A questo punto, capo e dipendente sono legati a doppio filo: tutti sanno benissimo che le otto ore contrattuali sarebbero più che sufficienti per espletare i loro compiti, ma ormai l'ufficio è diventato l'unico palcoscenico su cui entrambi si sentono a proprio agio per recitare la parte dei lavoratori stressati dai ritmi frenetici e dal senso del dovere.

    Col passare del tempo essi diventeranno persino orgogliosi di sommare lo stress del pendolarismo a quello del lavoro ordinario e straordinario.

    Intanto hanno perso il gusto del tempo libero e si chiuderanno in una solitudine sempre più rancorosa, perderanno potere in casa ma l'acquisteranno in azienda, dove troveranno rifugio a tempo pieno e saranno pagati quasi esclusivamente per farsi reciproca compagnia.

    Come diceva Longanesi: "per tutta la vita terranno il ritratto dei figli sulla scrivania e solo sul letto di morte verranno a sapere che alcuni di essi non gli appartengono".

     

  7. Incapacità dell'attuale organizzazione del lavoro di compensare gli inconvenienti che la maggioranza dei lavoratori subisce dal contesto professionale in cui operano

Tentiamo una tipologia dei lavoratori in base ai loro possibili contesti professionali, spostandoci dal peggiore al migliore.

Ecco dunque il capo di imputazione: un moralista sprovveduto penserebbe che i lavori disagiati quelli del becchino e dell'infermiere, siano compensati meglio dei lavori gioiosi, quelli del presentatore televisivo dell'imprenditore o della star.

Niente di tutto questo: quasi a riprova dell'esistenza di Dio e della sua infinita giustizia, un cantante o una star della televisione, per quanto oca possa essere, guadagna cento volte di più di un becchino o di un infermiere.

 

  1. Il quinto capo di accusa sta nel suo caparbio rifiuto di modificare i tempi di lavoro
  2. L'attuale distribuzione del lavoro nel corso della settimana è praticamente la stessa inaugurata da Taylor alla fine dell'800, quando nelle fabbriche gli operai erano tutti analfabeti e le macchine erano ancora mosse dalla forza motrice del vapore.

    Da allora sono stati introdotti motori elettrici, le macchine automatiche e quelle elettroniche, capaci di svolgere mansioni fisiche e intellettuali. Intanto i lavoratori sono tutti scolarizzati, moltissimi sono diplomati molti laureati.

    Le imprese hanno imparato a produrre molti beni e servizi impiegando sempre meno lavoro umano.

    Non tenere conto di questi cambiamenti strutturali, perseverare negli stessi modelli organizzativi di cent'anni fa insistendo negli stessi orari esorbitanti, computati a settimana anziché ad anno, significa impedire che i vantaggi del progresso tecnologico raggiunga i produttori oltre che i consumatori, migliorando la vita degli individui, delle aziende, delle famiglie, delle città.

    Parlando dell'orario di lavoro, la figura di riferimento utilizzata è quella del sempre più raro metalmeccanico, la cui produzione era strettamente proporzionale al numero di minuti e secondi trascorsi alla catena di montaggio.

    In realtà quel tipo di operaio è minoritario da decenni, mentre la stragrande maggioranza dei lavoratori è composto da impiegati, da professional, da manager, da dirigenti, knowledge managers, la cui produzione intellettuale non ha nulla a che fare con la quantità di ore trascorse in ufficio e con il decrepito, scoraggiante rituale dei cartellini dei cancelli militarmente presidiati.

    Il colletto bianco dell'azienda postindustriale, progettista, pubblicitario, manager, giornalista, impegnato in mansioni prevalentemente cerebrali, porta con sé gli assilli dell'ufficio fuori dall'impresa, anche nel sonno, nell'amore nel divertimento.

    Parlare di orario, nel suo caso, è un controsenso perché il suo cervello lavora full time a prescindere dal luogo in cui si trova e dell'orario sancito per contratto, in ossequio a un rito cartaceo che sopravvive unicamente per l'insana goduria di alcuni sindacalisti ammuffiti e di alcuni capi del personale, cancellieri implacabili di un processo sempre più kafkiano.

     

  3. Il capo di accusa consiste nel senso di estraneità e di impotenza che l'organizzazione del lavoro genera nei suoi collaboratori
  4. Tra tutte le organizzazioni in cui ci troviamo a vivere, solo poche sono state create da noi in prima persona (ad esempio la famiglia coniugale) e solo pochissime funzionano come vorremmo.

    La maggioranza di esse è governata da altri, prescindendo dalle nostre esigenze.

    Le organizzazioni avrebbero lo scopo di garantire il massimo risultato con il minimo sforzo, ma spesso finiscono per ridursi e per ridurci a macchine sgangherate in cui, dietro l'alibi dell'efficienza e della meritocrazia, regnano il disimpegno, lo spreco, i privilegi.

    Il lavoro che in esse si svolge, in realtà è un paradiso creativo per pochi e un castigo faticoso, nocivo, banale, ripetitivo, competitivo per molti.

    Per altri ancora, i disoccupati sempre più numerosi, è soltanto un'aspirazione insoddisfatta.

    Alcuni difetti (sciattezza, inefficienza, demotivazione, sprechi) sono più frequenti nelle organizzazioni pubbliche e trionfarono nei paesi del socialismo reale; altri (stress, sovraccarichi, competitività, cinismo) sono più frequenti nelle imprese private e trionfano nei paesi del capitalismo avanzato.

    In entrambi i casi la situazione è frutto inconsapevole dell'ignoranza, della forza dell'abitudine, del masochismo di chi subisce il potere; o è il risultato intenzionale della mediocrità, della perfidia, delle resistenze ai cambiamenti, del sadismo di chi il potere esercita.

    Comunque la maggioranza dei lavoratori si ritrova in balia di estranei, datori di lavoro, capi gerarchici, sindacalisti, che poco o nulla hanno a che fare con il benessere del lavoratore e che preferiscono far regredire i propri dipendenti allo stato infantile anziché incoraggiare l'autonomia e la creatività.

    Molte organizzazioni preferiscono le piume alle rondini, i dipendenti duttili e arrendevoli ai collaboratori autonomi e intraprendenti.

    La Compagnia di Gesù arriva a pretendere che i novizi annullino la propria volontà fino a ridursi "perinde ac cadaver", come un cadavere: così le aziende amano decidere vita e morte dei propri dipendenti, lasciandoli alla mercé degli azionisti, dei capi del personale, dei delegati sindacali, dei consulenti, dei cosiddetti superiori.

     

  5. Il sadismo
  6. L'alibi coltivato dal comunismo era l'eguaglianza solidale; l'alibi adorato dal capitalismo è l'antagonismo concorrenziale. Perciò nei centri direzionali della Fiat si pensa a come sconfiggere la Toyota; ovviamente alla Toyota si studia come sconfiggere la Fiat.

    Intanto, in entrambe le aziende, domina la paura dei licenziamenti, che in passato terrorizzato gli operai che ora perseguita tutti, parimenti sicuri come le foglie sugli alberi d'autunno.

    Andy Grove, l'onnipotente patron della Intel, che guadagna 94 milioni di dollari all'anno, ha dichiarato che solo la paura può salvare le imprese.

    Ecco perché nelle aziende sono così rare le facce contente: quando la paura viene promossa ad ancora di salvezza, significa che ogni seme di felicità oramai è sparito.

    L'organizzazione basata sulla paura, e cioè quasi tutte le organizzazioni orientate al profitto competitivo e tutte quelle governate con la forza della minaccia, è un inferno, e chi non se ne accorge è un alienato, cioè un malato da curare con delicata sollecitudine.

    Forse è esagerato sognare che esse diventino un paradiso, ma è almeno legittimo pretendere che assicurino un limbo di serena dignità a chi dedica loro proprie energie.

    La monarchia pre-costituzionale delle aziende comporta che, ogni tanto, a ondate, si sparge per i corridoi la voce che il monarca in carica comincia a vacillare.

    Allora, giù giù per i rami dell'organigramma, tutti quelli che hanno goduto delle sue grazie cominciano a tremare mentre tutti gli altri, esclusi dalla sua cordata, sollevano le loro teste, e col misero orgoglio di un tempo che fu, arrotano i coltelli delle loro notturne vendette.

    Ogni cambio di guardia ai vertici dei grattacieli direzionali, provoca terremoti che prima di assestarsi estendono i loro effetti sismici fino ai piani sottostanti dei direttori, a quelli ancora inferiori di manager e degli impiegati, fino a quelli dei commessi degli uscieri. In alcune stanze cinicamente si brinda ai nuovi padroni, mentre in altre cala il terrore: qualcuno tenta di occultarsi in attesa di oblio e di tempi migliori. Altri cercano di cambiare bandiera correndo in aiuto ai vincitori, altri infine di dimettono o si suicidano.

    Tutto avviene modo felpato e silenzioso.

    Se qualcuno parla ai livelli alti, lo fa concedendo una signorile intervista ai giornali che si occupano di management; se qualcuno parla ai livelli bassi, lo fa bisbigliando nei corridoi.

    Mai nessuno che chiede ai nuovi padroni le credenziali delle competenze; ma nessuno che li affronti di petto, per contrattare il proprio destino o almeno per soccombenza a testa alta.

    Occorre liberare le aziende dal morso della paura.

    Occorre farlo al più presto: per la qualità della vita del lavoratore a tutti i livelli per la qualità la nostra democrazia: non quella festiva che si celebra alle urne ogni quattro anni, ma quella feriale che si costruisce giorno per giorno.

  7. La degenerazione burocratica

Gruppi di lavoro come la troupe di Fellini o il team di Enrico Fermi, costituiscono un sistema creativo in cui tutto è assai più della somma delle singole parti.

L'ambulatorio malfunzionante, un'impresa prigioniera delle sue procedure, l'ufficio postale inefficiente, sono sistemi burocratizzati in cui il tutto è molto meno della somma delle singole parti.

In una organizzazione creativa, ognuno da il massimo e il meglio di sé; in una organizzazione burocratizzata, ognuno da il minimo e il peggio di sé. Persino Henry Ford, ha scritto nella sua autobiografia che la cosa da combattere più duramente nel tenere insieme un gran numero di persone in modo che svolgano il loro lavoro, è un eccesso di organizzazione e la conseguente burocratizzazione delle imprese.

In casi sempre più frequenti, le organizzazioni chiedono a consulenti esterni di svolgere i compiti più ideativi e riservano ai propri dipendenti mansioni decisamente inferiori a quelli che essi saprebbero svolgere, col risultato di frustrare come sarebbe frustrato un buon giocatore di scacchi se qualcuno lo costringesse a giocare continuamente con i principianti.

Perché una funzione aziendale come la formazione manageriale è in profonda crisi?

Non solo perché viene affidata sempre più spesso ad incompetenti, ma soprattutto perché ormai ogni manager sa già fare molto più di quanto gli viene richiesto e anzi in qualsiasi momento, potrebbe prendere senza nessuna difficoltà il posto del suo superiore.

Le aziende burocratizzate, e cioè tutte le grandi aziende e buona parte delle medie, preferiscono di gran lunga la diligenza all'intelligenza, anzi considerano l'intelligenza e la creatività come altrettante forme di pericolosa devianza, le mortificano, tentano di spegnerle o almeno di imbrigliarle nella camicia di forza delle procedure.

I troppi burocrati che infestano le aziende, angustiando la giornata di chi ci lavora, sono sempre in agguato contro le innovazioni, sempre sicuri di sé nella loro ottusa protervia, sempre pronti a spalleggiarsi a vicenda, a nascondersi dietro la corazza di una norma, di un comma, di un decreto, di un regolamento, di una legge, di un ordine di servizio.

La loro grigia presenza trova un guizzo di ambigua vitalità, quasi lo spasimo di un orgasmo, solo quando essi ci colgono in flagrante violazione di una procedura o quando hanno l'occasione per ricordarci che purtroppo il tempo è scaduto