Faglia
Pierluigi Sullo
Articolo pubblicato su Carta
"Fàglia, s. f. Term. geol. La rottura di strati, e il conseguente spostamento di essi". Se si prende un vocabolario della lingua italiana, si troverà una definizione simile, della parola "faglia". Ho aperto il vocabolario subito dopo aver chiuso "Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro", il libro tanto discusso di Marco Revelli, perché appunto mi era affiorata alla mente quella parola, che ha a che fare con i movimenti sotterranei della materia di cui è fatto il suolo sotto i nostri piedi, movimenti che prendono la forma di sismi più o meno avvertibili e più o meno distruttivi. E' sicuro che non sarà un libro, la causa di un terremoto (sociale o culturale, politico o dei costumi, ecc.): esso può essere un esito, una concausa, un rivelatore di "strati in movimento". Ma, d'altra parte, che a Revelli sia stato rimproverato, tra le molte altre cose, che si tratti di un libro discontinuo, più "letterario" che "scientifico", anche "rapsodico", questo stesso fatto testimonia che, come appunto un sisma, qualcosa accade nella società che si avverte, a non avere le suole troppo spesse, prima nei piedi e nella pancia che nella testa. Revelli ha infatti precisato di "non avere un programma politico" da proporre, ma un ragionamento libero, che si giova anche dell'intuizione di un narratore come Manuel Scorza, ad esempio, attorno a una disconnessione ormai non più celabile, tra il prima e il dopo, tra la cultura (della sinistra, innanzitutto) e il mondo quale esso è.
Ho l'impressione che lo scandalo suscitato dal libro in ogni variante della sinistra comunista non dipenda affatto dalle cose che Revelli scrive a proposito del comunismo novecentesco. Certo, c'è chi ha trovato naturale mostrarsi tanto volgare da muovere l'accusa di "revisionismo", fondata sulla presunzione che quel che nel libro di legge sia "oggettivamente" revisionista, al di là della "soggettività" dell'autore: una vecchia trappola. Ma, in generale, è più o meno chiaro a tutti, a cominciare da coloro che furono espulsi dal Pci per aver detto "Praga è sola", come il moto di liberazione incarnato da milioni di uomini e donne si sia, al dunque del secolo, rovesciato nel suo opposto. Il che non significa, come pure è stato detto, che tutto sia stato negativo, che così si cancella l'emancipazione, la passione, la necessità dei "militanti comunisti": al contrario, è proprio per rispetto a quella storia, e per preservarne utilmente la memoria, che si deve cercare di capire che cosa non ha funzionato.
Credo che il punto di "rottura degli strati" sia un altro, e che tutte le tensioni si concentrino attorno alla parola "lavoro". Perché il marxismo reale, per così dire, quello dominante nel Novecento, nato contemporaneamente alla catena di montaggio della Ford modello T, ha in sé un gene che si può, con una parola oggi corrente, definire "sviluppista". La fede, in sostanza, nel fatto che il progresso scientifico e tecnologico e la produzione conseguente non solo migliorino le condizioni generali della società, ma siano il "luogo" in cui si produce necessariamente l'antagonista del capitale, il proletariato. E che dunque si tratti di liberare le forze del progresso dai vincoli proprietari che le legano, e cioè, alla fine, che l'essenza della politica, il fine, sia il potere. Convinzione che Alberto Asor Rosa ha molto efficacemente riassunto, nel corso della presentazione romana di "Oltre il Novecento", dicendo: "La politica, da che mondo è mondo, consiste nel fatto che all'organizzazione si risponde con l'organizzazione, alla potenza con la potenza, alla guerra con la guerra".
E' questa la radice del Novecento che Revelli recide, vincendo ripensamenti e nostalgie, paure del futuro e biografie. Mostrando come la religione del lavoro, applicata scientificamente e alla dimensione massificata del fordismo, abbia prodotto un progresso che nega se stesso, nella perdita irrimediabile del controllo da parte del fine nei riguardi del mezzo: fino a divenire, nei momenti in cui il secolo si condensa, o un fine in sé, in quella Auschwitz che annunciava ai deportati "Il lavoro rende liberi", o un mezzo che distrugge ogni mezzo, come ad Hiroshima. Ma, così si spiega la ripulsa immediata, questo svuota di colpo la politica e la sua organizzazione, il senso stesso di quel movimento comunista.
La reazione è certo eccessiva, se si pensa che Revelli costeggia, senza assumerle fino in fondo, le tesi ad esempio degli antiutilitaristi (e cita Latouche e Caillé), i quali svolgono una critica radicale della ragione strumentale, dei suoi deliri produttivistici e della conseguente "occidentalizzazione del mondo"; mentre non cita, Revelli, un pensatore come Karl Polaniy, che in piena guerra mondiale aveva pubblicato il suo "La grande trasformazione", in cui l'irriducibilità del sociale e del naturale all'economia era svolta come una altra lezione del marxismo. Ma qui, in gioco, non è un disinteressato dibattito: sono l'intera traiettoria di una classe intellettuale e di dirigenti politici, nonché un senso comune assai diffuso, che sono gli eredi della grande storia, politica e teorica, della sinistra comunista italiana. Figuriamoci, si osa collocare Gramsci nel suo tempo. Sacrilegio.
E in nome di quale futuro, poi? Di una possibilità, per l'"uomo solidale", che quella cultura nemmeno riesce a vedere, letteralmente, dato che il lavoro massificato (e concentrato in Europa e negli Usa, in attesa che il resto del mondo imboccasse la "via dello sviluppo") si è nel frattempo rotto in mille pezzi e disperso, e non solo quanto a figure del lavoro, ma anche come modi della produzione del profitto, che oggi vanno dal brevettare le forme di vita allo sfruttamento di un lavoro domestico non più "sfera della riproduzione" ma luogo di produzione diretta, dalla frenetica finanziarizzazione non più complemento ma padrona della produzione alla appropriazione del sapere. Così che quella cultura può al massimo, come testimonia l'articolo di Toni Negri, spostare lo sguardo dalla fabbrica ai luoghi della "produzione immateriale", alla ricerca del soggetto storico della trasformazione, ieri tuta blu e oggi hacker. Un procedimento che taglia via tutto ciò che, essendo fuori dalla "fucina della produzione", è inessenziale, marginale.
Perciò Negri scrive che non sarà "la compassione" a spostare il mondo. Non saranno i "cristiano-sociali", dice Luigi Pintor. Scorciatoia che intanto rifiuta di prendere atto come non si spieghi se non con la con-passione, con la con-divisione, il fatto che il figlio di un piccolo borghese maestro di scuola divenne il capo della rivoluzione mondiale: un certo Ulianov, che poi ci fabbricò sopra la teoria dell'"avanguardia". Ma, di più, così si perde di vista l'essenziale, vale a dire quel che sta concretamente accadendo. E' su questa base che si potranno cercare delle sintesi, degli insegnamenti. Ed è viceversa questo, secondo il mio parere, il valore maggiore di "Oltre il Novecento": vedere che la faglia, spezzandosi, mette in movimento qualcosa. Il ragionamento, nel libro, è sì prevalentemente in negativo, ma con dentro la tensione, sempre, ad aprire le finestre per cogliere, capire, partecipare a quel che accade, da Seattle a Porto Alegre, alla marcia zapatista, al ricrearsi di reti di opposizione in Europa, al malessere crescente sia nelle zone sociali dell'inclusione competitiva che in quelle dell'esclusione.
Nessuno di questi eventi è citato, nel libro, ma è il loro spirito che lo anima, per così dire. Se il progresso può regredire e la produzione di cose deve essere sostituita dalla produzione di socialità e di vita; se il "fare", quindi, non deve prevalere sull'"essere"; se la società, a differenza dei grandi apparati politici e industriali, è fatta di persone connesse tra loro; se sono i "marginali", oggi, a marciare fin dentro il cuore del sistema neoliberista; se la politica alla scala degli Stati-nazione è messa fuori gioco dalla transnazionalizzazione dei poteri; se la natura non è solo un inesauribile magazzino di materie prime; se una visione non-maschile delle relazioni umane ha una possibilità di mettere in gioco il suo cinquanta per cento; se le stesse figure del lavoro postfordista racchiudono in sé, insieme, una intollerabile pervasività del dominio e una opportunità di liberazione dei singoli; se tutte queste cose sono vere, allora è qui, in questa realtà e con questi soggetti (che non saranno mai più il soggetto), in questo "spostamento di strati", che va ricercata la possibilità che l'umanità salvi se stessa dai suoi cattivi maestri e peggiori padroni. Una neo-politica. Questa è la pagina successiva di "Oltre il Novecento" che, finalmente nell'anno duemilauno e non più nel millenovecentonovantanovedue, in molti, e diversi, stanno scrivendo.