Dalla parte del minotauro 
Toni Negri
dal manifesto di martedi 27 febbraio 2001

Il libro di Marco Revelli "Oltre il Novecento" è un esercizio di
revisionismo di fine secolo, dove la solidarietà è un dono che si
sostituisce all'invenzione di nuove forme del vivere. Perché la liberazione
non nasce dalla compassione per la sofferenza, ma dalla rivolta contro di
essa 

Capita, terminata la lettura di un libro, di chiuderlo e di riguardarne la
copertina, pensosi. Così è stato per me in questo caso. V'è un "Minotauro e
la sua preda" di Picasso - una bestiaccia taurina che viola e sbrana una
fragile preda - sulla faccia del libro di Marco Revelli (Oltre il
Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi): lo
ho riguardato perplesso, poi mi è capitato di sorridere, ero dalla parte
del Minotauro, non da quella della preda. Mi sono sentito strano: ripetere
il gesto infame di Franti o stringere i pugni in tasca dopo tanti anni! O
ritornare a quella vignetta di Mariotti nel primo numero di Classe operaia
(1963) dove il minotauro, ovvero il drago, nella fattispecie un
cater-pillar inseguiva ridente uno smarrito San Giorgio... Era indegno
ripetere dei peccati, così grossolani, di gioventù... Quanto tempo era
passato, quante passioni s'erano stinte... Eppure, con la saggezza della
maturità, con un sano senso di quello che è giusto e medio, mi sembrava qui
di percepire in Revelli una scivolata nell'estremismo opposto a quello dei
cinici comunisti dei '60: una specie di socialismo compassionevole ora
tornato a galla.

Il libro di cui parliamo è diviso in tre parti. La prima è dedicata ai
"deliri" dell'homo faber. E' un riassunto del revisionismo di fine secolo,
un esercizio storicista di autoflagellazione politica (sulla base di una
sensibilità "debole" generalizzata). Bene. Solo che a questo punto non si
capisce più chi sia il minotauro e chi la preda. Meriterebbe infatti,
secondo me, considerare con un po' più di attenzione il punto di vista
della preda e la storia dei movimenti dei poveri, che non sono del tutto
innocenti in questa faccenda. L'"ambivalenza" del secolo non è una qualità
metafisica o epistemologica: è un antagonismo di soggetti in una guerra
civile (ché tale è divenuto, nel Novecento, il rapporto di capitale).
Ciò che è singolare poi, nella vicenda, è che la preda non è stata affatto
sbranata. Al contrario: essa (preda, classe operaia, proletariato) esce,
malgrado tutto, più potente dal secolo che è terminato. Certo, non c'è più
il soggetto "classe operaia" - c'è tuttavia una Fenice che risorge dalle
sue ceneri. I padri del comunismo volevano che la classe operaia si
autodistruggesse: la classe operaia c'è riuscita, senza dubbio; ha lasciato
in vita qualche "kulak" a ricordarne, sindacalmente, la preterita
esistenza. Ma il problema è cosa farne di quello che resta: proletariato
diffuso, immigrati dappertutto e mai abbastanza, lavoro immateriale come
liberazione dal regime del salario, potenza produttiva sociale, un po' più
di ricchezza e un po' meno di malattie, di imbecillità, di aborti da
miseria. I nostri nonni e genitori, nel breve secolo che conduce dal
bracciantato agricolo al lavoro intellettuale, non hanno delirato. Hanno
espresso una sana immaginazione materialista. Non possiamo, neppure ora che
tutto è ambivalente e confuso, scambiare lavoro e forza-lavoro, "lavoro
salariato e capitale" (come un vecchio signore barbuto a suo tempo ci
insegnò a non fare). E poi, dopo questo Novecento di tragedie e di
antagonismi, chi ci dice che nuovi Lumi non siano alle porte?

La seconda parte del libro è dedicata ai "dilemmi" dell'uomo flessibile.
Revelli ci indica quanto la situazione dell'operaio sociale (immateriale,
autonomo, migrante) sia aperta alla crisi, addirittura alla catastrofe. E'
vero, la tensione è estrema. Non c'è una nuova qualità del lavoro che non
possa essere negativa. Resta il fatto che ciò che è a rischio, è una nuova
potenza della forza-lavoro, la sua immaterialità, la sua capacità di
cooperazione. Sull'abisso del tempo a-venire è esposta non la miseria ma la
metamorfosi ricca della forza-lavoro novecentesca. I dilemmi di Revelli
andrebbero meglio inquadrati dentro una nuova composizione del lavoro
produttivo, ormai divenuta biopolitica, sociale, globale - che impone
(laddove altri piagnucola su certezze, o meno nobili sicurezze, perdute da
un salariato ideale che mai è esistito) un'analisi rivoluzionaria di
formazione e invenzione, di autonomia ed esodo per la nuova classe dei
lavoratori immateriali. C'è una vocazione del lavoro vivo (e qui l'homo
faber non c'entra per nulla) da riprendere, da rianalizzare, da sviluppare.
Non credo che si debba ricordare a Revelli (autore di un formidabile
Lavorare in Fiat) che la rivolta operaia sta alla base del postfordismo, e
che l'insurrezione di massa del lavoro materiale è la sola matrice della
nuova potenza produttiva del lavoro immateriale. Fiat e Wall Street non
l'hanno dimenticato.
Dunque, forse la nuova forza-lavoro ha meno catene da cui liberarsi e più
creatività da esprimere. Ma come? I "peccati" e i disastri della politica
non lasciano spazio alla redenzione - ci dice Revelli nella terza parte del
suo libro. L'umanesimo comunista è finito nel terrore... Quand'ero piccolo
e leggevo ed ascoltavo Merleau-Ponty, ero d'accordo con lui. Perché ora non
posso essere d'accordo con Revelli? Perché mi sembra che le azioni e le
pagine scritte da coloro che presero posizioni contro il terrore
burocratico e i tradimenti del socialismo reale (da Rosa Luxemburg a
Rossana Rossanda) non possano essere disincarnate: esse erano e restano il
prodotto di una lotta per affermare un comunismo più giusto, non una
lamentazione sulle rivoluzioni del XX secolo. (Adoro Koestler, quanto
Céline, ma non mi sentirei di riportare né l'uno né l'altro come autorità
storiche, e tantomeno di appiattirli sul livello di testimonianza che
taluni slavofili russi hanno prodotto).

Ma Revelli apre comunque alle nuove forme di solidarietà e di volontariato.
Sulla sua apertura alla generosità e sulla sua riattivazione di un discorso
d'indignazione, non posso non essere d'accordo. Così come sono d'accordo
sulla sua fiducia nella società civile (ma forse lui stesso, e anch'io, lo
chiamiamo diversamente) e sulla forza di persuasione che la povertà oggi
esercita nel formare i dispositivi della biopolitica. Ma la solidarietà non
è né un dono né un'improvvisata nell'ordine sociale: essa non può
sostituirsi al lavoro vivo, all'invenzione di nuove forme del vivere, alla
loro concreta costruzione - sarebbe come se la compassione e non
l'esperienza di povertà, la sofferenza muta dello sfruttamento e non la
ribellione dello sfruttato potessero essere agenti di liberazione. No, il
materialista non è mai compassionevole.
Un'ultima annotazione. Critico qui il libro di Revelli che mi sembra
ambiguo. Eppure, quando guardo le sue note e referenze e citazioni, mi
accorgo che potrebbero essere le stesse che io, e molti altri, ormai
utilizziamo. Perché? Provo a rispondere. Perché il superamento del marxismo
nel marxismo, l'andare oltre Marx con Marx rappresentano ormai una
condizione stabile e costante nello sviluppo delle scienze umane. A questa
egemonia (una sana medietà centroeuropea) si piegano ormai anche le grandi
case editrici e le università anglosassoni. Per non parlare degli studi
postculturali e postcoloniali. Ciò è un dato. E' quindi qui dentro che si
deve riaprire lo scontro teorico, e la ricostruzione del movimento.