Una discussione sul libro di Revelli
ORRENDO NOVECENTO?
Rossana Rossanda
Oltre il Novecento 1, esorta Revelli, secolo orrendo che ci insegue ancora. Già Hobsbawm lo aveva chiamato The Age of Extremes, segnandone inizio e fine nella parabola comunista, dal 1917 al 1989: in mezzo stanno fascismo e nazismo, dei quali né Hobsbawm né Revelli dicono, come Nolte, che sarebbe stato evocato dal mostro bolscevico – ma stanno là, nel cuore tenebroso del secolo in Europa.
Ambedue sono crollati, il primo sotto i colpi della guerra che aveva voluto, il secondo su se stesso. C'è fra loro una differenza di fondo e non sta nella contabilità delle vittime, perché la Shoah è il male assoluto, anche se il Libro nero del comunismo, pur esagerando, dice una realtà inaccettabile: sta nel rapporto fra quel che si proponevano e quel che sono stati. Il nazismo ha costruito nel Terzo Reich l'ordine che voleva imporre anche all'Europa, purificandola dal comunismo e dalle scorie biologicamente inferiori o degenerate, il cui prototipo è l'ebreo; è stato quel che voleva essere. Il comunismo è contraddizione fra intento e realtà: voleva essere liberatorio ed è stato totalitario, intrinsecamente repressivo, perseguendo ossessivamente quel che riteneva il nemico interno, milioni di persone. Percorso esemplarmente incoerente, eterogenesi dei fini.
Ma una, dice Revelli, è la radice: il Lavoro concepito come illimitato cambiamento della natura per mano umana, che dilaga nel secolo e, incontrando la politica, produce mostri. Il lavoro moderno che intruppa masse ridotte a corpi senza più individualità, ha per protesi le macchine e per luogo la fabbrica, la produzione razionalizzata, e per ipostasi una Tecnica che cresce su se stessa smisuratamente e cancella ogni rapporto fra uomo e uomo, uomo e natura. Un Moloch che l'umanità non è più in grado di dominare.
E il cui incrocio con la Politica, che nasce come volontà di potenza, è devastante. La Tecnica le offre il modello di quel macchinismo sociale che è l'organizzazione, la burocrazia, la induce a conformarvi persino la rappresentanza, le dà i mezzi per moltiplicare controllo e repressione: senza di essa lo sterminio degli ebrei non sarebbe stato possibile. Ma il pactum sceleris fra politica e lavoro si compie specificamente nel comunismo, che vuole la società come un'immensa fabbrica e fa del razionalismo del produrre, del macchinismo, della organizzazione non più mezzi ma valori. E del Partito la macchina totale della verità e del potere. Il nazista è ancora figura classica, estrema, del dominio dei signori. Il comunista, il militante rivoluzionario è figura del secolo, parcella priva d'umanità dell'organizzazione produttiva e politica, che Koestler ha descritto in Buio a mezzogiorno.
Il Lavoro assoggetta il secolo. Lo rifiuta soltanto il 1968, che spezza i miti della fabbrica e dello Stato, e riscopre rapporti umani che erano andati persi, diretti, spontanei, non utilitari, ludici. Il 1968 è stato sommerso, ma sono due suoi figli a creare la scatola blu dell'Altair, il primo computer nato quasi per gioco, macchinetta a buon prezzo da montare in casa per comunicazioni interindividuali `inutili'. E nel 1976 nascerà il figlio dell'Altair, il Sol, primo microcomputer amichevole e completo. Esso è comunicazione e memoria combinatoria, che stravolge le forme dell'informazione, dunque dell'organizzazione. Ne è venuto il colossale affare che sappiamo e ha trasformato il mondo della produzione, della distribuzione e della rendita finanzaria, ma porta in sé il suo felice Dna libertario. Ha fatto fuori la fabbrica e l'organizzazione verticale fordista, ha messo al lavoro, sì, la vita, ma conservando l'ambiguità d'origine, il poter essere di ognuno, riconsegnando alla persona un margine di libertà. Non si è più sussunti del tutto dal lavoro, lo si segna. Questo è il postfordismo. O almeno si spera.
Perché se questo, in estrema sintesi, è il filo del discorso, Revelli non nasconde un dubbio: e se nel produrre diffuso, dove a ciascuno viene chiesto anche un fare relazionale e decisionale, stesse non già una liberazione ma un nuovo totalitarismo attraverso la `messa al lavoro' di tutta la vita, di quella interezza umana, braccia ma anche mente, che dal fordismo era lasciata brutalmente fuori? Alle pagine quasi commosse sulla giocosa scatola blu (anch'essa dunque soggetta a un'eterogenesi dei fini) seguono gli interrogativi sulla sua innocenza, sulla immediata ed estrema assolutizzazione dell'economia nella rete del lavoro totale. Revelli riferisce il pensiero di Caillé e Latouche, o Boltanski, ma non sono i soli.
Tuttavia quel dubbio resta una parentesi. Perché in esso si affaccia quel che resta di Marx, la surdeterminazione sociale del modo di produzione, verso il quale Marco nutre una diffidenza radicale. Come molti della sua generazione ha frequentato in vivo la vulgata dei partiti e dei movimenti, che da Marx non può essere allegramente separata, ma nella quale Marx non si può identificare. E gliene viene una ripugnanza, un non uso – già lo si coglieva nella scelta di testi per la sinistra, cominciata alcuni anni fa, dalla quale ogni movimento di origine marxista era eliminato. In Oltre il Novecento, Marx spunta soltanto a piè di pagina in una lunghissima nota, dove Revelli si chiede se "la nuova forma di internalizzazione di una pluralità di figure disseminate del lavoro si possa assimilare alla marxiana – premoderna – assunzione formale del lavoro al capitale dell'arcaico Marx". Se si rispondesse di sì, si darebbe ragione all'apparente paradosso per cui deperisce la fabbrica ma cresce l'azienda, si disseminano i terminali del produrre ma si fondono i centri di comando, cala la crescita ma aumenta la ricchezza, l'homo faber conta sempre meno ma è il suo costo che selvaggiamente si vuol ridurre e infine si delinea una massa di `lavori autonomi', sui quali l'azienda ha scaricato, `esternalizzato' pezzi di sé a produttività più alta e costo più basso, capolavoro del processo capitalistico.
E tuttavia Revelli, annotato questo dubbio, lo lascia. Perché è solo obliterando Marx che il comunismo diventa una teoria del lavoro e il suo fine una società `lavorista' (ed è ingeneroso vederne la prova, sulla traccia di Bruno Trentin, in Gramsci, che riflette il fascino del produttivismo nel suo ventennio; ed è storicamente men che approssimativo leggerlo nell'Unione Sovietica, che regge in produzione e produttività fino alla guerra e poi crolla anche per improduttività e ritardo tecnologico). Il marxismo non è una teoria del lavoro ma una teoria del capitale, dell'accumulazione attraverso l'uso, falsamente contrattato, della forza di lavoro, qualità umana, della reificazione dell'uomo, della mercificazione del corpo e delle sue facoltà. Solo a chi sposta lo sguardo dal rapporto capitalistico di lavoro, come rapporto fra uomini, alla relazione fra lavoratore e prodotto, e quindi scorpora dal lavoro moderno il capitale, la persona può apparire `libera' quando il prodotto non è più `materiale'. C'è negli esaltatori del postfordismo un positivismo primario: il materiale reale di Marx diventa mera fisicità, i muri della fabbrica la fatica delle braccia.
È uno spostamento che avviene anche in Yann Moulier Boutang e Toni Negri, che però Revelli rifiuta perché in Negri la figura del `lavoratore immateriale' diventa il nuovo proletariato, figura politica collettiva. Ma la libertà per Revelli pertiene soltanto alla persona e può farsi soltanto nell'individuo, nell'io.
È, la sua, una requisitoria che viene da lontano, più dal 1968 americano che da quello europeo, emerge da noi negli anni '70 e '80, fra i movimenti che, accusando quello operaio di non aver visto la persona né la natura, hanno escluso dalla loro propria vista capitale e rapporti di produzione come insignificanti. Ma non è la specificità del 1968 italiano: neanche il `lavoro zero' dell'autonomia era un'uscita da Marx e una restituzione all'individualismo. Lo era di più il `piccolo è bello'. Non lo è stato il movimento del 1977. Per almeno un decennio la ricerca è stata quella d'un fare ed essere di classe liberati, d'un collettivo non burocratico, d'un lavorare che già fosse operare. Un incrocio fra il Marx tardivo e quella Arendt di Vita Activa che non è fra i referenti di Revelli.
E infatti Oltre il Novecento batte in breccia soprattutto la politica che nel secolo è strutturata sulla lotta fra le classi, per Revelli non significante; nella sua tesi il Lavoro cammina, per così dire, come idea fatale con sue proprie gambe. Non è il capitale che induce l'industrialismo, se mai viceversa. Ed è il fare politico collettivo che è il suo bersaglio attuale – il nazismo è seppellito da oltre mezzo secolo, il socialismo reale s'è suicidato da oltre vent'anni; di qui l'impatto del suo libro, venendo da un compagno di tutte le lotte.
Il fare politico è quello del movimento operaio in primo luogo. Nel Novecento non vede i conflitti sociali se non come soggettività sviata, preda dello stesso circuito. La presa di coscienza di milioni di uomini e donne gli appare un lungo errore. Sono stati per metà burattini per metà burattinai della loro Organizzazione, malefica emanazione del Lavoro sposato alla Politica.
§
Che dire all'amico e compagno che con dolore mi ha mandato questo suo libro? Mi deve convincere dell'inganno di cui sono stata vittima. "Tu non sei una di loro", io, militante del Novecento, e per più di vent'anni apparatcnik. Che ho a che vedere con il Rubasciov di Koestler? Ma Rubasciov è la verità del comunismo, io l'illusione.
Davanti al Novecento siamo come davanti a due paesaggi diversi. Revelli forza al suo quadro non pochi testi, alcuni provenienti da pericolosi lidi, come Jünger e Céline. E forza il passato, che legge come un mondo di uomini magari sofferenti ma ricchi di scambi personali, senza servizio sanitario ma leniti da mani femminili, senza scuola ma con la mente libera. A me sembra un sogno, non vorrei essere nata nel Seicento, il Novecento mi è andato appena bene... ma che senso hanno queste interpretazioni che scheletriscono il reale? E seppur con qualche esitazione, Marco si aggiusta anche il futuro: uomini e donne liberati più o meno energicamente dal lavoro, saranno anche liberati dai diritti che credevano di avere conquistato, il posto fisso, lo Stato sociale – altri fatali errori, cedimento, compromesso con la classe dominante. È da sperare che siano restituiti a se stessi, al libero essere e fare di molti, ma diretto, volontario.
Che dire dunque al mio assai più giovane amico? Le mie categorie sono altre, la mia ottica è un'altra. La storia è un'altra, di quel secolo grande e terribile, terribile ma grande. Fin nel lessico siamo divisi.
Fonte: La Rivista 4/2001