Una discussione sul libro di Revelli

ORRENDO NOVECENTO?

Aldo Tortorella

 

Il corsivista del "Manifesto" (che non è poi una jena così efferatamente crudele come vorrebbe sembrare) ha sostenuto in una delle sue annotazioni che tutte le stroncature o le prese di distanza a proposito dell'ultimo libro di Revelli ospitate dal quotidiano sono state una manna per l'editore, fornendogli pubblicità gratuita. È certo vero ed è doloroso ora che Einaudi non è più Einaudi ma Mondadori e dunque potrebbe pagare. Ma tutte quelle recensioni hanno testimoniato, per il fatto stesso di esserci, del valore rilevante del libro, valore che a me pare anche quello essenziale (e che gli merita dunque la pubblicità gratuita cui anche questo articolo concorre). Il valore e il merito del libro – cioè – è quello di riaprire una discussione, in parte sopita, in parte mai nata.

Un libro che fa discutere non è necessariamente il più nuovo, il più originale, il più documentato, il più problematico, il più profondo eccetera. E non è neanche il più condivisibile. Fa discutere quello scritto che coglie una esigenza reale entro il pubblico, ristretto, dei lettori: in questo caso dei lettori di saggistica collocati a sinistra in senso lato. Lettori che rappresentano un pubblico più vasto con il quale ciascuno di essi ha qualche forma di relazione.

L'esigenza che Revelli coglie, ovviamente a modo suo, è quella di riaprire una discussione teorica a sinistra e più specificamente nella sinistra che ha considerato se stessa – e talora si considera ancora – comunista o comunque alternativista. In effetti, un aspetto tra i più singolari dell'ultimo decennio del secolo scorso – che ha visto la scomparsa della Unione Sovietica e il crollo del movimento comunista costruitosi con essa e con la Terza Internazionale – è stata la mancanza di una vera discussione sui fondamenti delle esperienze sorte nel nome delle aspirazioni socialistiche, anche in relazione alla riflessione sul presente e sul futuro. Ciò non significa che siano mancati contributi anche rilevanti principalmente nel campo della analisi storica (l'esempio più ovvio è quello di Hobsbawn).

Ma a me pare indubbio che la riflessione sulle esperienze storiche del movimento comunista abbia preso come direzione preponderante quella della dannazione della memoria (e dunque, per molti dei praticanti di ieri, dell'abiura, del disconoscimento dei padri, ecc.). Le cose sono andate così avanti su questa strada che non si è più soltanto alla affermazione – divenuta quasi senso comune – di una identità tra fascismo e comunismo ma alla indicazione della necessità di una maggiore e più aspra condanna del tentativo dei comunisti sovietici, e di chi li appoggiò, rispetto al fascismo e al nazismo. L'argomento è che i comunisti vollero distruggere la società medesima e non solo lo Stato, mentre fascisti e nazisti lasciarono in piedi economia e società, sovrapponendovi una concezione dittatoriale.

Siamo ormai abbastanza chiaramente, come mostra il caso politico italiano, al tentativo di rivincita della parte che fu sconfitta nel 1945 (come anche Revelli osserva a proposito dei fini reali di quello che viene chiamato `revisionismo storico'). E c'è poco da sorridere se il capo del centro-destra italiano dichiara che la Costituzione è macchiata di sovietismo. La presenza delle idee della nuova destra – che è venuta rielaborando l'antica lezione fascistica – sta dentro lo schieramento che appare fino ad ora maggioritario nei sondaggi elettorali: il gerarchismo si è venuto fondendo senza mediazioni con il prevalere di classe (chi vince nel mercato è anche il Migliore), la dottrina della superiorità razziale ha ceduto il posto al razzismo differenzialistico, la critica alla democrazia rappresentativa lascia il passo al suo stravolgimento decisionistico.

Di fronte a questa deriva ha mostrato tutta la sua miseria l'atteggiamento di quegli eredi dei comunisti italiani che hanno pensato che fosse una grande astuzia negare – contrariamente al vero – ogni autonomia e originalità del proprio percorso rinunciando così anche ad una analisi seria e impietosa del passato, ad un discernimento degli errori, delle loro origini e dunque del modo di farvi fronte. La pura e semplice accettazione della ideologia dominante se poteva sembrare utile per l'accesso al governo, significava nel medesimo tempo la rinuncia ad ogni identità riconoscibile del proprio essere di sinistra, come ormai viene largamente ammesso. D'altro canto, la ripresa dei nomi dannati (comunismo, comunista) si veniva confondendo se non con una difesa acritica, almeno con forti elementi di nostalgia: cosa comprensibile, ma non feconda e non rispettosa del lato più rilevante e più misconosciuto di una storia e cioè la criticità del pensiero.

Il fatto che entrambe queste posizioni (partiticamente parlando il Pds-Ds, i comunisti italiani) potessero sembrare confortate dal risultato politico della partecipazione al governo contribuiva a bloccare ogni riflessione ulteriore. Per gli uni il passato era una pagina da esecrare (il "non sono mai stato comunista" detto da dirigenti del vecchio Pci, oppure il comunismo tutto quanto `nemico della libertà', ecc.), per gli altri un precedente da assumere senz'altre indagini in uno dei suoi aspetti ( il `partito di governo') per avvalorare il presente. Di contro, il rifiuto del governo (e di quello che è stato chiamato gergalmente il `piciismo') non si veniva dimostrando di per se sufficiente a rifondare, come è stato osservato anche dai protagonisti di Rifondazione, una esperienza storica i cui precedenti non erano stati veramente esplorati con il dovuto rigore. Un rigore difficile: le piaghe generate da una sconfitta storica così vasta – oltreché dalle irresponsabili risposte ad essa – sono tali che se cerchi di far avanzare una riflessione critica rischi di essere etichettato tra i molti e scomposti detrattori e se cerchi di combattere qualcuna delle falsificazioni talora totalmente idiote, si apre subito la caccia al nostalgico.

(E questa situazione, se non vedo male, ha almeno in parte condizionato – pur con meriti che mi sembrano innegabili e riconosciuti – anche una rivista come questa, nata per compiere tra l'altro quell'indagine sui fondamenti di cui sto parlando, oppure – per completare l'autocritica – una rivista come "Critica Marxista" rinata dieci anni fa con lo scopo dichiarato di `ripensare' oltreché `rinnovare' la sinistra).

In questa realtà è arrivato il libro di Revelli. Il quale ha pienamente ragione – secondo me – di rifiutare l'etichetta di appartenenza a quella schiera di `revisionisti storici' ch'egli apertamente attacca. Se si trattasse di questo non vi sarebbe motivo di tanto interesse. Il libro di Revelli fa tanto discutere non perché egli aggiunga alla sua proposta, già nota, qualcosa di nuovo, o perché, nell'analisi, contenga elementi di straordinaria originalità. Ma perché risolleva il tema delle origine dei mali del secolo e dei mali del comunismo nato dalla rivoluzione d'Ottobre e lo risolleva con lo sforzo di una visione unitaria, con una tesi semplice e chiara. E anche con una passione che mi viene proprio da chiamare militante nel peggiorativo significato che Revelli dà alla parola: proprio di chi è anche disposto nella polemica a forzare i testi per confermare la propria tesi come cercherò di dire più avanti a proposito di Gramsci.

La tesi, ormai nota, è che l'origine comune dei mali tragici del Novecento (`tempo degli assassini', `secolo della paura', della violenza, degli sterminii, ecc.) è il predominio del `fare', il Lavoro eretto a valore assoluto e la Organizzazione che ne discende come necessità assoluta. La fabbrica fordista è assunta come paradigma di questo mito produttivistico, che riduce l'uomo a pezzo della macchina, la società al macchinismo, le relazioni tra le persone al burocratismo e al dominio delle cose. Se l''homo faber' è l'emblema di questa sorta di mistica del produrre, il `militante' (che nasce dalla logica guerresca e richiama alla disciplina militare) ne è il risvolto dalla parte di chi si voleva ribellare all'assetto sociale dato e finisce per mutuare pensiero e metodi dell'avversario in nome del feticcio della Storia (del proprio convincimento di assecondare la storia) e dunque esasperando tutti gli errori e arrivando all'orrore. L'io individuale si spegne nel Noi, il noi diventa il partito, il partito si riassume nel suo capo. Tuttavia rimane una differenza tra Auschwitz e il terrore che sta alle origini del potere sovietico (e dunque nella concezione di Lenin e Trotzki) e diverrà pratica di governo con Stalin. Auschwitz, la Shoah, è perfettamente coerente con le premesse del nazismo e non c'è contraddizione tra mezzi e fini. Nel terrore bolscevico, al contrario, la contraddizione c'è e rimane, il militante comunista consapevole è stato continuamente scisso in se medesimo: ma ciò non muta il suo bilancio catastrofico.

Ma questo non significa per Revelli un invito ad acquietarsi in quello che c'è: le distanze tra gli ultimi e i primi sono sempre più drammatiche, la crescita è alla lunga insostenibile. La soluzione di questo dramma non verrà né dalla mano invisibile del mercato, né "da una qualche avanguardia dotata di una adeguata tecnologia del potere bensì dalla scelta consapevole di un numero ampio di individui liberamente cooperanti nel compito impervio di vivere qui e ora – non di `progettare', non di `costruire', ma di praticare – rapporti sociali radicalmente diversi". Ecco `l'uomo solidale', ecco il `volontario' non il soldato, non colui che "crede di sapere ciò che si deve fare", ma colui che sa "ciò che non si deve fare".

Le obiezioni non sono difficili e molte di quelle già presentate mi appaiono del tutto sensate. Sebbene a me non sembri che la categoria di `anticomunismo' usata da Pintor possa accomunare i critici da sinistra a tutti gli altri, credo che egli abbia ragione quando nota almeno una mancanza di generosità rispetto a quelli che sono morti a Stalingrado per fermare i nazisti che avevano conquistato l'Europa. Pintor rammenta così indirettamente, come anche altri hanno fatto, che non si può trascurare come se fosse cosa irrilevante il messaggio che sparse nel mondo la rivoluzione d'Ottobre, come segnale di liberazione e di affratellamento per miliardi di donne e uomini oppressi, il contributo alla sconfitta del nazismo, le conseguenze enormi sul movimento di liberazione delle colonie e nel condizionamento medesimo delle politiche entro i paesi sviluppati. Fallì l'idea praticata anche dai comunisti italiani (e dalle grandi socialdemocrazie) che fosse possibile riformare il modello sovietico. Ma lo scioglimento della contraddizione tra fini e mezzi, tra promesse e risultati, in un dissolvimento pacifico – anche se pagato ad altissimo prezzo – marca un significato su cui bisognerà pure interrogarsi.

Soprattutto, come ha notato anche Toni Negri, la categoria `comunismo' non può comprendere a pari titolo coloro che hanno praticato il terrore e coloro che hanno sostenuto princìpi diversi in nome dello stesso ideale, battendosi per un'altra idea di comunismo. Aggiungerei che, essendo qui in Italia, e con tutte le critiche che si possono fare al Pci per il ritardo con cui giunse allo strappo, non si può ignorare la differenza tra il soggettivismo e il volontarismo assoluti – che stavano al fondo della posizione leninista e divennero dogma con Stalin – e lo storicismo di Gramsci e, poi, di Togliatti: quanto meno si tratta di formulare critiche diverse per teorie e politiche diverse.

Detto tutto questo, però, bisogna sapere che rimane il bisogno di una spiegazione della curvatura dogmatica che venne assumendo un pensiero critico come quello cui originariamente si riferivano anche i fondatori del movimento comunista sovietico. Se la spiegazione di Revelli non convince, bisogna tuttavia cercarne un'altra. Il ritorno a Koestler – e al Marleau-Ponty che lo chiosa – può sembrare stupefacente, all'alba del nuovo secolo e del nuovo millennio, quasi come una memoria archivistica, morta assieme al mondo che quegli uomini combattevano. Ma io avverto che c'è qui un rimosso da indagare, soprattutto per chi è stato dirigente comunista, come è accaduto a me. Bisogna spiegare bene, e non solo con le necessità della storia (la guerra esterna e interna al potere sovietico, l'incubo nazista, ecc.), che cosa successe nella coscienza di quelle generazioni e di quelle che immediatamente seguirono: ci fu davvero un relativismo etico, che superò il tempo dei vincoli necessitati e derivò da una cattiva filosofia.

Non mi pare dunque che basti la riduzione del secolo al mito del Lavoro e della Organizzazione. Ciò, se coglie certo un elemento essenziale del Novecento (ma già lo faceva recentemente anche Trentin nel suo La città del lavoro, richiamando Simon Weil e altri) soffre di una contraddizione irrisolta come dimostra, a mio parere, una parte (per me la più interessante) del medesimo libro di Revelli: quella in cui egli illustra le radicali modificazioni nella organizzazione produttiva a causa della rivoluzione informatica. La grande speranza dei primi autori libertari di questa trasformazione tecnologica – la speranza di una possibilità di liberazione aperta a tutti – si è venuta scontrando con le logiche del mercato. E la logica di mercato è arrivata fino al punto che la disamina di Revelli deve concludersi con l'avvertenza che questa medesima tecnica che ha trasformato alla radice l'organizzazione fordista e taylorista può generare anch'essa una nuova schiavitù (e infatti sono già molti gli studi in proposito) per tutti questi individui isolati dietro la loro macchina quasi-pensante, individui che già costituiscono il presente e sarebbero i rappresentanti del futuro.

Ma se la fine del fordismo non coincide con alcuna liberazione, anzi rischia di annunciare forme di nuovo servaggio, bisognerà chiamare in causa ciò che avviene ancor prima di quel mito del Lavoro e della Organizzazione. E bisognerà capire bene perché ha fin qui ottenuto una vittoria strepitosa la patria, dei primi e più conseguenti cultori di quel mito e cioè gli Stati Uniti d'America. Gramsci – il quale naturalmente era uomo del tempo suo e pensava alla miseria della sua terra – voleva proprio rendersi conto dei motivi di quella che gli sembrava una vittoria annunciata. Sembra a me che le note di Americanismo e fordismo vadano lette – al contrario di quel che fa Revelli assieme a molti altri – senza isolarle dall'insieme di un pensiero che non fu compiuto, che si presenta come frammentario, ma non può essere stravolto. Isolando quelle note Gramsci è stato presentato (dall'allora segretario del Pds, D'Alema) quasi come un precursore del neoliberismo. Vi si può cogliere, invece, lo stupore per l'accettazione di massa di una costrizione così vincolante (persino nella sfera sessuale) come quella del fordismo, una straordinaria capacità di previsione per un uomo lontano dal mondo, il bisogno di capire per combattere meglio. Naturalmente, non si può prestare a Gramsci quello che non ha e non poteva avere: ma c'è in lui una traccia che a me sembra ancora oggi utile per pensare una alternativa possibile.

La critica di Gramsci è al modello economico e sociale capitalistico e al suo risvolto politico e umano: e cioè la perenne separazione tra governanti e governati. E c'è, a differenza di altri, una inquietudine morale rispetto al possibile uso dell'utopia (assai poco registrata dai suoi interpreti). Di contro, la critica degli autori usati da Revelli (Céline, Bataille) si rivolge piuttosto al macchinismo e al produttivismo come categorie dello spirito. A parte il fatto che l'antisemitismo e la conclusione nazistica di Céline non possono essere considerati incidentali, credo che abbia ragione Augusto Illuminati quando nota che c'è una assai più complessa critica della modernità in altri autori (da Heidegger ad Adorno e Horkeimer), che l''homo faber' della Arendt è un'altra cosa e che il `militante' non può essere ridotto al funzionario comunista della Internazionale dato che esiste di quella figura una tradizione anteriore e parallela.

Il punto è proprio qui. Se la critica alla concezione del lavoro e alla sua organizzazione è parte costitutiva della critica all'assetto capitalistico essa non può essere separata da una visione dell'insieme – dell'economico, del politico, dell'immaginario, del simbolico – del modello vincente, capace di trasformarsi straordinariamente, ma non di divenire altro da sé. Non era in questo sforzo di leggere la complessità del reale l'errore di coloro che, come Gramsci, cercavano di aprire una riflessione nuova sulla società e sullo Stato. Semmai, il limite fu l'opposto: nella difficoltà grandissima che c'era, e c'è, di una comprensione complessiva. A partire da ciò che precede la società capitalistica e dura in essa. Credo che sia esatto quello che dice Ida Dominijanni a proposito del pensiero femminile della differenza, che pure Revelli iscrive tra le essenziali correnti del presente: c'è una tendenza maschile a cogliere la valenza sociale dell'irruzione delle donne sulla scena del lavoro ma non ad intendere "la critica dello statuto tradizionale della cosa pubblica" elaborata da quel pensiero. Anche la `pratica' con cui Revelli conclude ha bisogno di una elaborazione precedente e, dunque, di un progetto. Personalmente, assieme ad altri, sono arrivato alla conclusione che un pensiero volto alla trasformazione di quel che c'è o ispira comportamenti e pratiche che ne rechino il segno, o rischia di diventare un inganno. Ma ciò chiede – appunto – una non ingannevole critica del modello in cui viviamo, dei suoi successi e delle sue abiezioni, delle sue linee di frattura e dei suoi punti di forza. Di cui fanno parte anche dispositivi organizzati impressionanti.

Se non si vuole ripetere l'errore di mutuare i metodi dell'avversario bisogna tuttavia trovarne altri adeguati al compito. È vero quel che dice Sullo: e cioè che vi è in Revelli, lo `spirito' dei nuovi movimenti che hanno preso il nome di Seattle e in cui si avverte il senso di un mutamento possibile. Ma anche questi movimenti, credo, si vengono e si verranno interrogando sul modo di esserci e di durare, e non solo di manifestarsi agendo, magari con pratiche antiche.

La premessa che mancò ai progenitori è che all'origine di una idea qualsiasi di intervento o, ancor più, di trasformazione sociale non vi è una certezza scientifica ma una scelta etica e che essa deve sapersi sempre come parziale, in gara con altre diverse ed opposte. Qualsiasi pratica che non riconosca questo principio (e che non aspiri alla criticità del pensiero) non farà la strada che magari meriterebbe.

 

note:

1 Marco Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi 2001, pp. 290, lire 28.000.

 

Fonte: La Rivista 4/2001