Alfredo Salsano
04/03/2001
articolo pubblicato su Carta
Non ho trovato traccia, finora, nelle reazioni suscitate dal libro di Marco Revelli, di prese di posizione sulle prospettive aperte dalle riflessioni dedicate ai dilemmi dell’"uomo flessibile" che occupano la parte centrale dell’opera, sicuramente la più problematica e politicamente la più feconda. Le reazioni si sono invece appuntate sui due altri grandi temi affrontati con pari originalità e ricchezza di riferimenti, rispettivamente nella prima e nella terza parte del libro: quello riassunto nella figura dell’homo faber, protagonista del Novecento con i suoi deliri (tema della fabbrica fordista e della riduzione della società a fabbrica nel mondo del "lavoro totale") e quello compendiato nella figura del militante (tema del Partito e della politica raccordata alla Storia, passando oltre la società).
E si può capire: l’ideologia lavoristica su cui per un secolo si sono costruite le fortune (e le sfortune) di quanti, richiamandosi a un movimento operaio spesso mitizzato, ne assicuravano comunque una mediazione politico-sindacale funzionale al vecchio assetto della organizzazione del lavoro e alla vecchia competizione sociale, è dura a morire presso gli epigoni di un ceto di mediatori che da alcuni decenni sta assistendo alla frana delle sue basi e che, nonostante l’evidenza, continua ad aggrapparsi a nicchie residuali di rappresentanza. Sono gli stessi che, sempre contro ogni evidenza, oltre che al Lavoro (con la L maiuscola: prima di reagire si prega di leggere il seguito) continuano ad aggrapparsi a una idea di organizzazione politica che non riesce a superare l’orizzonte del Partito chiamato, secondo le procedure aleatorie di una democrazia che oscilla tra forme di demagogia postmoderna e lobbismo spinto.
Non vedo altre motivazioni reali a certe levate di scudi in difesa dell’homo faber e del militante, e il fatto che ad esse partecipino, con sentimenti visibilmente contraddittori, spiriti critici e consapevoli come Luigi Pintor sottolinea soltanto l’urgenza di prendere, come ha fatto Revelli, le distanze dal secolo, lungo o breve, che finalmente si allontana; di guardare al Novecento con tutto il distacco e la competenza necessari. Capisco come di fronte a questa impresa Pintor possa essere tentato di ringraziare Stakhanov della disfatta dei guerrieri ariani, ma si tratta chiaramente di una battuta emotiva che non aiuta a formulate un giudizio insieme storico e politico sul comunismo sovietico né tanto meno su quella forma caricaturale di fordismo che Stalin cercò di realizzare e che è alle radici del fallimento, oltre che delle nequizie, dell’esperimento sovietico. Stakhanov, poveretto, non c’entra. C’entra invece l’adozione, da parte di quei comunisti che riuscirono a mantenere e consolidare il potere nelle condizioni di contrapposizione alla società ottimamente richiamate da Revelli, di un "paradigma" – quello basato sulla fabbrica fordista – oltre al quale non riuscirono ad andare mentre tutto cambiava e di cui venivano meno, a Est come a Ovest, le basi reali.
Ora, proprio di questo parla il libro di Revelli, anche quando – scandalo! – tratta di Gramsci contestualmente a Junger e a Céline, per poi tornarci su a proposito della permutazione fabbrica/partito e partito/fabbrica che sta al cuore del problema. Perché homo faber e militante nascono ad un parto – levatrice la guerra – da quella strana coppia di genitori che sono il Mercato e lo Stato. Esclusa o assoggettata la Scoietà come luogo di produzione e riproduzione solidale e cooperante, alla quale pure il comunismo (che bisognerebbe smetterla di isolare, almeno nelle sue fasi iniziali, dalla molteplice ricchezza delle tradizioni socialiste e libertarie) si era richiamato prima di irrigidirsi nelle forme di una dittatura neanche più socialdemocratica.
Non si tratta dunque di anticomunismo organico, né tanto meno di revisionismo che pure è stato canagliescamente rimproverato a Revelli, in quale fornisce tra l’altro una esauriente ricostruzione delle vicende che hanno accompagnato la pubblicazione del Libro nero del comunismo e semmai reintroduce nel dibattito, con l’accostamento delle pratiche antioperaie della "militarizzazione del lavoro" sovietica e della "normalizzazione delle fabbriche" del socialdemocratico Noske nella Germania weimariana, uno spunto ben altrimenti rilevante.
Al livello proposto dal libro di Revelli, in grado di tenere insieme aspetti che per abitudine di pensiero o per malintesi interessi politici ci si ostina a considerare separatamente (la Fabbrica, il Partito) che integra "eclettici riferimenti letterari" (passi Junger e Céline, ma Bataille? ci si chiederà – e che dire del fantascientifico autore di La mignatta, Robert Scheckley? E un’approfondita conoscenza delle vicende della "rivoluzione informatica"; che soprattutto affronta con chiarezza i dilemmi della organizzazione postfordista del lavoro (bisognerà pure chiamarla in qualche modo) si tratta di ben altro - E veniamo al punto.
Le contestazioni, e qualche lode cristiana, si appuntano uniformemente sulla figura, per la verità solo rapidamente avocata all’inizio e alla fine del libro, del Volontario (con la V maiuscola), che Revelli forse troppo fiduciosamente richiama come "figura aurorale", riferimento per un "buon inizio". E’ sicuramente una figura postmoderna che allude a modalità di ricostruzione del legame sociale su base individuale e solidale, certo estranee alla tradizione marxista (comunista e socialdemocratica) e alternative all’agire politico tradizionale, che però hanno il pregio di coinvolgere personalmente i cittadini e di rianimare una socialità depressa da un secolo di dominio alterno, contrastato e/o cospirante, di Mercato e Stato. Ma è anche un figura profondamente ambigua, confermata come tale da processi di istituzionalizzazione che, indipendentemente dalla buona volontà dei singoli, la collocano nell’ambito della sussidiarietà, per definizione diversa dall’autonomia.
Ora, tutto il discorso svolto da Revelli nella parte centrale del libro, là dove parla della crisi (o della fine) della società del lavoro, affrontando il problema della presunta liberazione o esodo dal lavoro sulla scorta della più recente letteratura in proposito e in termini assolutamente condivisibili, tende invece a sottolineare tutta la contraddittorietà e dunque anche tutte le possibilità di apertura di una situazione dominata dal dubbio che, lacerato l’involucro che l’aveva rinchiuso nel corso del XX secolo, il "lavoro totale" non si depotenzi affatto, che al contrario moltiplichi le proprie possibilità di diffusione, che in qualche modo si individualizzi a sua volta senza perdere il proprio concetto di totalità. E ancora: l’epoca della fine della società del lavoro non sia affatto e neppure potenzialmente anche l’poca della liberazione (sia pure potenziale) dal lavoro, che la fine del lavoro (salariato) non annunci affatto la fine del dominio del lavoro (totale) ma anzi contenga in sé una sua più dura (anche se impalpabile) totalizzazione.
Chiaramente queste riflessioni sono senza comune misura con il riferimento al Vlontario, tanto più che, rifacendosi contro le teorie "liberazioniste" alle posizioni di Alain Caille e di Serge Latouche, i quali nei processi più tipici del postfordismo denunciano il totalitarismo della ragione economica, Revelli sottolinea il carattere né meccanico né automatico dell’emancipazione dei vizi del "secolo del lavoro"; per cui l’emancipazione stessa "precupporrà necessariamente un’azione consapevole fortemente voluta da una pluralità di soggetti determinati a riprendere attivamente il futuro della propria società nelle proprie mani". Per così dire un’altra "mobilitazione totale" completa di artificialismo (forse non necessariamente politico) e di volontarismo (forse non necessariamente prometeico), se questo può consolare i nostalgici del Novecento.
Insomma, una iniziativa – essa sì veramente politica – dal basso, non più all’insegna del Che fare? ma forse del Come fare? secondo chi, come i "trentasei uomini giusti" del Talmud, si ostina già oggi, e nei luoghi più diversi, a "fare comunità".
4.
05/03/2001
Pierluigi Sullo
"Fàglia, s. f. Term. geol. La rottura di strati, e il conseguente spostamento di essi". Se si prende un vocabolario della lingua italiana, si troverà una definizione simile, della parola "faglia". Ho aperto il vocabolario subito dopo aver chiuso "Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro", il libro tanto discusso di Marco Revelli, perché appunto mi era affiorata alla mente quella parola, che ha a che fare con i movimenti sotterranei della materia di cui è fatto il suolo sotto i nostri piedi, movimenti che prendono la forma di sismi più o meno avvertibili e più o meno distruttivi. E' sicuro che non sarà un libro, la causa di un terremoto (sociale o culturale, politico o dei costumi, ecc.): esso può essere un esito, una concausa, un rivelatore di "strati in movimento". Ma, d'altra parte, che a Revelli sia stato rimproverato, tra le molte altre cose, che si tratti di un libro discontinuo, più "letterario" che "scientifico", anche "rapsodico", questo stesso fatto testimonia che, come appunto un sisma, qualcosa accade nella società che si avverte, a non avere le suole troppo spesse, prima nei piedi e nella pancia che nella testa. Revelli ha infatti precisato di "non avere un programma politico" da proporre, ma un ragionamento libero, che si giova anche dell'intuizione di un narratore come Manuel Scorza, ad esempio, attorno a una disconnessione ormai non più celabile, tra il prima e il dopo, tra la cultura (della sinistra, innanzitutto) e il mondo quale esso è.
Ho l'impressione che lo scandalo suscitato dal libro in ogni variante della sinistra comunista non dipenda affatto dalle cose che Revelli scrive a proposito del comunismo novecentesco. Certo, c'è chi ha trovato naturale mostrarsi tanto volgare da muovere l'accusa di "revisionismo", fondata sulla presunzione che quel che nel libro di legge sia "oggettivamente" revisionista, al di là della "soggettività" dell'autore: una vecchia trappola. Ma, in generale, è più o meno chiaro a tutti, a cominciare da coloro che furono espulsi dal Pci per aver detto "Praga è sola", come il moto di liberazione incarnato da milioni di uomini e donne si sia, al dunque del secolo, rovesciato nel suo opposto. Il che non significa, come pure è stato detto, che tutto sia stato negativo, che così si cancella l'emancipazione, la passione, la necessità dei "militanti comunisti": al contrario, è proprio per rispetto a quella storia, e per preservarne utilmente la memoria, che si deve cercare di capire che cosa non ha funzionato.
Credo che il punto di "rottura degli strati" sia un altro, e che tutte le tensioni si concentrino attorno alla parola "lavoro". Perché il marxismo reale, per così dire, quello dominante nel Novecento, nato contemporaneamente alla catena di montaggio della Ford modello T, ha in sé un gene che si può, con una parola oggi corrente, definire "sviluppista". La fede, in sostanza, nel fatto che il progresso scientifico e tecnologico e la produzione conseguente non solo migliorino le condizioni generali della società, ma siano il "luogo" in cui si produce necessariamente l'antagonista del capitale, il proletariato. E che dunque si tratti di liberare le forze del progresso dai vincoli proprietari che le legano, e cioè, alla fine, che l'essenza della politica, il fine, sia il potere. Convinzione che Alberto Asor Rosa ha molto efficacemente riassunto, nel corso della presentazione romana di "Oltre il Novecento", dicendo: "La politica, da che mondo è mondo, consiste nel fatto che all'organizzazione si risponde con l'organizzazione, alla potenza con la potenza, alla guerra con la guerra".
E' questa la radice del Novecento che Revelli recide, vincendo ripensamenti e nostalgie, paure del futuro e biografie. Mostrando come la religione del lavoro, applicata scientificamente e alla dimensione massificata del fordismo, abbia prodotto un progresso che nega se stesso, nella perdita irrimediabile del controllo da parte del fine nei riguardi del mezzo: fino a divenire, nei momenti in cui il secolo si condensa, o un fine in sé, in quella Auschwitz che annunciava ai deportati "Il lavoro rende liberi", o un mezzo che distrugge ogni mezzo, come ad Hiroshima. Ma, così si spiega la ripulsa immediata, questo svuota di colpo la politica e la sua organizzazione, il senso stesso di quel movimento comunista.
La reazione è certo eccessiva, se si pensa che Revelli costeggia, senza assumerle fino in fondo, le tesi ad esempio degli antiutilitaristi (e cita Latouche e Caillé), i quali svolgono una critica radicale della ragione strumentale, dei suoi deliri produttivistici e della conseguente "occidentalizzazione del mondo"; mentre non cita, Revelli, un pensatore come Karl Polaniy, che in piena guerra mondiale aveva pubblicato il suo "La grande trasformazione", in cui l'irriducibilità del sociale e del naturale all'economia era svolta come una altra lezione del marxismo. Ma qui, in gioco, non è un disinteressato dibattito: sono l'intera traiettoria di una classe intellettuale e di dirigenti politici, nonché un senso comune assai diffuso, che sono gli eredi della grande storia, politica e teorica, della sinistra comunista italiana. Figuriamoci, si osa collocare Gramsci nel suo tempo. Sacrilegio.
E in nome di quale futuro, poi? Di una possibilità, per l'"uomo solidale", che quella cultura nemmeno riesce a vedere, letteralmente, dato che il lavoro massificato (e concentrato in Europa e negli Usa, in attesa che il resto del mondo imboccasse la "via dello sviluppo") si è nel frattempo rotto in mille pezzi e disperso, e non solo quanto a figure del lavoro, ma anche come modi della produzione del profitto, che oggi vanno dal brevettare le forme di vita allo sfruttamento di un lavoro domestico non più "sfera della riproduzione" ma luogo di produzione diretta, dalla frenetica finanziarizzazione non più complemento ma padrona della produzione alla appropriazione del sapere. Così che quella cultura può al massimo, come testimonia l'articolo di Toni Negri, spostare lo sguardo dalla fabbrica ai luoghi della "produzione immateriale", alla ricerca del soggetto storico della trasformazione, ieri tuta blu e oggi hacker. Un procedimento che taglia via tutto ciò che, essendo fuori dalla "fucina della produzione", è inessenziale, marginale.
Perciò Negri scrive che non sarà "la compassione" a spostare il mondo. Non saranno i "cristiano-sociali", dice Luigi Pintor. Scorciatoia che intanto rifiuta di prendere atto come non si spieghi se non con la con-passione, con la con-divisione, il fatto che il figlio di un piccolo borghese maestro di scuola divenne il capo della rivoluzione mondiale: un certo Ulianov, che poi ci fabbricò sopra la teoria dell'"avanguardia". Ma, di più, così si perde di vista l'essenziale, vale a dire quel che sta concretamente accadendo. E' su questa base che si potranno cercare delle sintesi, degli insegnamenti. Ed è viceversa questo, secondo il mio parere, il valore maggiore di "Oltre il Novecento": vedere che la faglia, spezzandosi, mette in movimento qualcosa. Il ragionamento, nel libro, è sì prevalentemente in negativo, ma con dentro la tensione, sempre, ad aprire le finestre per cogliere, capire, partecipare a quel che accade, da Seattle a Porto Alegre, alla marcia zapatista, al ricrearsi di reti di opposizione in Europa, al malessere crescente sia nelle zone sociali dell'inclusione competitiva che in quelle dell'esclusione.
Nessuno di questi eventi è citato, nel libro, ma è il loro spirito che lo anima, per così dire. Se il progresso può regredire e la produzione di cose deve essere sostituita dalla produzione di socialità e di vita; se il "fare", quindi, non deve prevalere sull'"essere"; se la società, a differenza dei grandi apparati politici e industriali, è fatta di persone connesse tra loro; se sono i "marginali", oggi, a marciare fin dentro il cuore del sistema neoliberista; se la politica alla scala degli Stati-nazione è messa fuori gioco dalla transnazionalizzazione dei poteri; se la natura non è solo un inesauribile magazzino di materie prime; se una visione non-maschile delle relazioni umane ha una possibilità di mettere in gioco il suo cinquanta per cento; se le stesse figure del lavoro postfordista racchiudono in sé, insieme, una intollerabile pervasività del dominio e una opportunità di liberazione dei singoli; se tutte queste cose sono vere, allora è qui, in questa realtà e con questi soggetti (che non saranno mai più il soggetto), in questo "spostamento di strati", che va ricercata la possibilità che l'umanità salvi se stessa dai suoi cattivi maestri e peggiori padroni. Una neo-politica. Questa è la pagina successiva di "Oltre il Novecento" che, finalmente nell'anno duemilauno e non più nel millenovecentonovantanovedue, in molti, e diversi, stanno scrivendo.