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Un
altro mondo è possibile senza eroi e senza guerre?=
 =
;
Leggo la
notizia del ritorno a casa di Salvatore Mastromauro,
un ragazzo che le circostanze mi hanno permesso di conoscere, e non posso c=
he
rallegrarmi del fatto che un mio concittadino, un amico, quasi coetaneo, sia
tornato a casa salvo, non certo sanissimo. Per q=
uesto
gli auguro una pronta guarigione e un rapido ritorno alla pienezza della sua
vita. Insieme a questo, però, non posso f=
are a
meno di pensare ai tanti ragazzi, anch’essi giovanissimi (come il biscegliese De Trizio) che, in questi anni di guerre
preventive anti-terrorismo, sono partiti per le missioni militari senza
più far ritorno a casa. Proprio per questo, pur facendo mie le parole
del Presidente Napolitano che, nel suo discorso
d’insediamento, ha tributato onore a questi ragazzi caduti in missioni
“a prescindere dal consenso di cui esse erano dotate”, non ries=
co a
convincermi dell’onestà di chi parla di
questi ragazzi come “eroi” della nostra patria, dei nostri temp=
i.
Ripenso ad alcuni dei passaggi di quella “Ballata dell’eroeR=
21;
di De Andrè che racconta, appunto, di un
soldato caduto in guerra e del suo mancato ritorno: “…la patria=
si
gloria/di un altro eroe/alla memoria… ma l=
ei che
lo amava/aspettava il ritorno di un soldato vivo/di un eroe morto che ne
farà?/Se accanto nel letto/l’è rimasta la gloria/una
medaglia alla memoria…”. Trovo poco credibile questo concetto di
patria, questo sentimento nazionale così identi=
tariamente
e unitariamente sbandierato in queste occasioni di cordoglio, mentre
quest’idea di collettività viene qu=
otidianamente
minata dalle idee e dalle pratiche di politici, opinion leader e
quant’altri che invitano all’individualismo più spinto in
tutti i settori (si pensi alla giustificazione politica dell’evasione
fiscale di questi anni, o alla concezione dello Stato come oppressore della
libertà individuale messa in campo nella passata campagna elettorale=
e
che tanto successo ha avuto anche nelle urne…). E=
allora, è possibile, è accettabile che il senso dello Stato si
risvegli solo in queste circostanze? Possibile che, mentre questo senso del=
lo Stato
è messo in discussione nella maggior parte del mondo politico e nella
società, esso sia invece interpretato da ragazzi in divisa poco
più che ventenni? Certo è del tutto possibile che essi scelga=
no
consapevolmente di servire lealmente e generosamente la patria, contro il
pensiero unico corrente che attenta alla distruzione di tutti i vincoli solidaristici. Sarebbe interessante comprendere fino =
in fondo cosa spinge un ragazzo a sgomitare (perch&eac=
ute;
questo pare stia avvenendo ultimamente) per raggiungere i teatri di guerre
spietate e ormai prive di ogni seppur minimo limite relativo al di diritto
umanitario e di guerra. In fondo, oggi, chi compie questa scelta, lo fa con=
una
(relativa) consapevolezza delle crudeltà che anche la nostra coalizione commette (l’uso del fosforo bianco da=
parte
USA nell’assedio a Falluja, le carceri di=
sumane
di Abu Grahib, i ce=
cchini
italiani che si danno forza a vicenda, invitando i compagni ad
“annichilire” il nemico ferito…). Non penso ciò
evidenzi l’adesione dei nostri soldati a queste violenze, ma certamen=
te
essi accettano, anzi premono per partecipare ad operazioni che hanno perso -
come hanno mostrato i media - ogni parvenza di
“operazione di pace”. Se di pace si trattasse, non si capirebbe
perché in Afghanistan, a distanza di cinque anni dal termine delle
operazioni belliche, la situazione sia fuori dal
controllo alleato. Gli stessi militari italiani colpiti a Kabul, sono le pr=
ime
vittime di un graduale spostamento delle forze USA dalle funzioni di contro=
llo dell’ordine pubblico in Afghanistan verso l̵=
7;Iran
dove, come segnalano gli osservatori internazionali più attenti, si
prepara la prossima tappa della “guerra preventiva”. Inoltre,
ancorché la nostra in Iraq sia stata spesso presentata come missione=
di
pace, bisognerebbe capire quale pace sia stata
introdotta in un Paese in cui, dopo l’intervento occidentale (apertam=
ente
illegale e ingiustificato ai sensi del diritto internazionale), la guerra
civile è deflagrata rompendo equilibri di convivenza ultradecennali =
tra
fazioni politico-religiose (sciiti-sunniti), co=
me
descrive perfettamente Giuliana Sgrena nel suo
“Fuoco amico” (a proposito, perché il nostro senso dello
stato non si esercita nei confronti degli USA che hanno negato ogni ulterio=
re
collaborazione alle autorità italiane sulla vicenda Calipari?).
Le condizioni oggettive dei teatri di guerra, quindi, spingerebbero per
un’astensione di massa dei militari dalle missioni operative
all’estero (il numero dei disertori britannici, c=
ome
è stato notato negli scorsi giorni, è in crescita ed
è notorio che i marines hanno gravi
difficoltà a reclutare giovani disponibili) e, invece, i giovani ita=
liani
continuano ad arruolarsi e a chiedere di partire in missione. Cosa spinge i nostri ragazzi a fare questa scelta
così rischiosa? È senz’altro una forte motivazione di
carattere economico a determinare la partecipazione di tanti giovani -troppo
spesso e =
disgraziatamente
meridionali- a queste missioni. È risaputo ed è legittimo che=
i
militari che intervengono in operazioni internazionali siano molto ben
remunerati, così come è genuina
l’adesione all’ideale di Patria (spesso, però, vuoto o
declinato secondo le esigenze politiche del momento). Ma può tutto
questo giustificare una scelta di massa verso un’=
opzione
che può, consapevolmente, portare persino alla propria morte? A me
sembra, piuttosto, che le ragioni reali di questo genere di scelte si debba
rintracciare piuttosto in una progressiva e generale perdita dell’ide=
a di
futuro come promessa-scommessa positiva sulla pr=
opria
esistenza. Si tratta di un elemento culturale, quasi antropologico, che
caratterizza la società contemporanea e, soprattutto, le giovani
generazioni, messo a fuoco da Benasayag che, no=
n a
caso, definisce la nostra come un’epoca delle “passioni
tristi”, dominata da un’ideologia smaccatamente individualista =
e da
una corrispondente atmosfera di emergenza, da
“si salvi chi può”. È evidente che, in un clima di
questo tipo, chiunque veda un bagliore di luce che rappresenta la propria
salvezza individuale (specie sul piano economico), mette in conto di compie=
re pressocchè qualsiasi tipo =
di azione
per potersi salvare, mette in conto l’eventualità di dover
ammazzare, di partecipare “professionalmente” a una guerra, nonchè la possibilità di morire, prospe=
ttiva
che può apparire ancor meno indesiderabile, se la morte in guerra vi=
ene
rappresentata, come spesso accade, come un atto eroico.
Una società disgregata, in perenne crisi, dunque
all’origine di una società che ha bisogno di “eroi”=
; di
guerra moderni. In tale contesto è
difficile poter pensare di ricostruire i connettivi sociali e civili tra le
persone. Ricomporre le fratture di una società in profonda crisi
(nell’accezione più ampia del termine), come la nostra, appare
impresa ardua e forse sgradita alle classi dirigenti e al
“Superclan” (G.Chiesa) che governa =
il
globo. Eppure da qualche parte bisognerà
ricominciare se non vogliamo ritrovarci nella spiacevole condizione di
continuare a piangere i nostri “eroi di guerra”, caduti in impr=
ese
belliche che nessuno ha voluto (si ricordi che nel marzo 2003, per le strade
del mondo, protestarono oltre 100milioni di persone contro la guerra n Iraq,
una massa critica definita dal NY Times “=
la
seconda superpotenza mondiale”).
In questo
quadro, riannodare i fili dei principi fondamentali del diritto internazion=
ale
contenuti nella Carta ONU, palesemente violata durante tutti questi anni;
aumentare i progetti di difesa popolare non-violenta (attivati da gruppi
politici e religiosi di base, organizzazioni non-violente, ecc.); sostenere,
individualmente e collettivamente, le organizzazioni di diplomazia dal bass=
o,
di volontariato internazionale, di cooperazione internazionale e, in genera=
le,
il movimento pacifista mondiale, appaiono tutti passaggi necessari per
realizzare “un altro mondo possibile”, speriamo, privo di eroi.
 =
;
Ezio Falco=