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Alina : Un'altra vita oltre il parco      

Quel pomeriggio di novembre era particolarmente freddo e piovoso, ma Alina non rinunciò alla sua solita passeggiata tra i viali alberati del parco pubblico. Indossò con serena rassegnazione il suo vecchio pastrano irto e spinoso come il saio di un frate conventuale, allacciò tutti e tre i grandi bottoni di corno, sollevò i baveri fin sugli zigomi e si tirò la porta alle spalle, lasciando che i battenti si chiudessero con un leggero tonfo. Alina era  una creatura malinconica e solitaria, parlava poco, perché pensava che a nessuno potessero interessare le sue opinioni, vivere per lei significava lavorare e chi la conosceva, sapeva bene quante fatiche celava quel fragile corpo. Felicità. Per Alina, era un vocabolo, una parola, che non aveva alcun significato, un miraggio, e come tale, irraggiungibile. Vivere un’esistenza che assomigliava ogni giorno di più ad un ripido sentiero sempre in salita, a cosa serviva o a chi? Quando sarebbe giunta alla sommità di quel Calvario? Domande senza risposta, le sue, bisognava andare avanti, farsi coraggio. Chi le rispondeva così, spesso, viveva il suo stesso malessere, condivideva le sue debolezze, ma sperava, sperava sempre in un giorno migliore. Finché c’era stata sua madre. Ogni fatica, ogni problema era stato diviso per due, ma ora, che era rimasta completamente sola, privata di quell’unico affetto, abbandonata dal conforto che soltanto una mamma può dare, Alina non si sentiva più parte di un mondo così crudele. La vita, purtroppo,  non le aveva riservato molte gioie,  di veramente suo aveva solo i ricordi, in cui gli episodi dolorosi superavano e schiacciavano i pochi momenti di felicità dell’infanzia. Un’età assaporata appena, fagocitata da privazioni e sacrifici. Le ultime ore di spensieratezza che Alina ricordava, le aveva trascorse con Titina, una vecchia bambola di pannolenci e risalivano appena ad una decina di anni prima, di quel breve periodo le restavano solo  immagini sfocate e troppo lontane. Si sa, che in una famiglia di operai non si hanno mai molte opportunità  per giocare e lei aveva smesso di essere una bambina quando suo padre aveva preso una brutta malattia e aveva dovuto abbandonare il lavoro agli altiforni. Per questo e per altri mille motivi Alina sentiva la necessità di dover recuperare tutto quel tempo rubato ai sogni della fanciullezza, giorno dopo giorno, passo dopo passo. Così aveva iniziato ad uscire tutti i santi pomeriggi, dopo il lavoro. Lasciava esausta i lavatoi dell’Albergo Imperiale e, nonostante avesse le mani gonfie, i piedi martoriati dai geloni e le ossa a pezzi, non c’era verso che Alina potesse rinunciare a quell’unico svago. Con ogni tempo, con la pioggia, come con il sole, con la grandine come con la brezza primaverile, lei si trascinava fuori ignorando stanchezza ed affanni.  Non era follia, piuttosto si trattava di un’esigenza forte quanto la fame o la sete, perché si era accorta che durante le sue camminate nella villa comunale, ogni peso, ogni malessere  si alleggeriva e svaniva come nebbia al sole. Sotto le fulve chiome dei frassini Alina non provava più quel disagio che l’assaliva, ad esempio, quando si trovava al di là, oltre il parco. Le grandi vie del centro, che era obbligata a percorrere giornalmente quando andava a lavorare,  con le  boutiques, le vetrine lucide dei gioiellieri, l’opulenza dei caffè, aumentavano il contrasto tra lei ed il bel mondo. Era vero, Alina,  si vergognava di essere così logora e misera, la infastidiva essere osservata dalle belle signore eleganti, si era stancata di leggere in quei volti, il disgusto, la pietà, la compassione.  Anche a lei sarebbe piaciuto profumare di violetta o di colonia, impazziva per i cappellini con la veletta, desiderava un manicotto di pelliccia per nascondere le mani deformate dalla fatica, invece le toccava vivere ai limiti della miseria. In quel pomeriggio di novembre, Alina passeggiava lentamente lungo i viali del parco municipale assorta nei suoi pensieri, in bilico tra sogno e realtà, si consolava ascoltando il rumore dei propri passi sulla ghiaia e respirando a pieni polmoni l’aria densa e fredda che odorava di pioggia e di mirto. Immersa in quel paesaggio autunnale così malinconico e poetico, vagava senza contare i minuti, le ore, con la rassegnazione di una prigioniera che abbia abbandonato ogni tentativo di fuga. Le piaceva credere che quello fosse un luogo incantato, come si diceva fossero i  tenebrosi boschi delle fiabe e non si sarebbe meravigliata se, d’un tratto, avesse fatto capolino qualche spiritello silvestre tra i cespugli di bosso. In realtà udiva solo il battito del suo piccolo cuore, incapace di emozioni, vuoto, quasi sul punto di scoppiare dilaniato dal nulla assoluto. Sospinta dai suoi salti di immaginazione, Alina si allontanava sempre più da una realtà che viaggiava freneticamente a pochi passi da lei e di cui percepiva a tratti i suoni  striduli; la città,  attenuata dalla coltre frusciante degli alberi, spariva lentamente. Alina si sentiva protetta, tutto era così ovattato  ed etereo, anche i grandi tronchi globosi dei platani apparivano soffici e rassicuranti.  Ecco, ora udiva lo scorrere placido dell’acqua, aveva raggiunto la vasca dei licheni; qui il viale  proseguiva compiendo un mezzo giro intorno  alla fontana  per poi inoltrarsi in un tunnel di ferro battuto ricoperto interamente di vegetazione. Quello era il punto preferito dalle giovani coppie di innamorati, se ne contavano diverse abbracciate sulle panchine. Su una di esse si era appoggiato uno strano tipo completamente avvolto in un mantello scuro. Che questi fosse un pittore Alina ne ebbe la certezza soltanto quando vide degli schizzi di colore appesantire il volo di una foglia e trascinarla a terra come una farfalla verde smeraldo. Se non fosse stato per il convulso volteggiare delle sue mani, a prima vista, si poteva pensare che il pittore fosse un fantoccio messo lì dall’Intendenza Comunale per attirare i passanti, inchiodato a terra, immobile come una quercia secolare. Le sue dita plasmavano spasmodicamente i pastelli su di una grande tela con un susseguirsi di movimenti così veloci da far pensare che fossero animate di vita propria. Ogni gesto sembrava scaturire da una fonte d’energia misteriosa,  un uomo comune, sebbene abile ed allenato, non sarebbe stato in grado di  muoverle compiendo simili evoluzioni.  Alina, attraversò  il raggio d’azione dell’insolito artista e si avvicinò a lui per osservare la magia delle sue mani vibranti. Vide che il pittore procedeva  come ipnotizzato, in preda ad una specie di estasi artistica. Stupita si domandò quale genio ispiratore potesse guidare in modo così vertiginoso i suoi movimenti. Non c’era da stupirsi se sulla tela non si stava delineando nessuna immagine che assomigliasse al paesaggio circostante, il risultato, difatti,  era un ammasso informe di colori. Fu quando una goccia di tinta blu cobalto cadde sul bavero del cappotto che Alina decise di  proseguire il suo silenzioso peregrinare, lasciando il pittore al suo delirio. Stava procedendo lungo un percorso lineare nel folto dei rami intrecciati, in un  buio quasi profondo, quando improvvisamente le giunse la netta sensazione di essere osservata, qualcuno, una presenza indefinibile, la stava scrutando al di là, tra i cespugli scossi dal vento, ne era certa. Appena fuori dal tunnel,  Alina ritrovò  il grande viale alberato e si trovò immersa  in un chiarore irreale,  si guardò intorno e vide che tutto era identico a tutto e, nonostante fosse ormai sera, come si spiegava il fatto che i raggi del sole, seppure filtrati dalle piante, potessero delineare quel percorso  che si stagliava luminoso davanti a lei?  Sebbene tutto l’insieme la inquietasse,  fece appello al suo buon senso per allontanare ogni alone di mistero e continuò a passeggiare seguendo proprio quel tragitto. Ben presto si accorse che quel percorso la stava portando in un una parte assolutamente sconosciuta del parco, fece per tornare indietro ma vide che non raggiungeva mai zone conosciute, anzi, era come se un qualcosa la spingesse a ritornare su quel viale preciso. Ciò che poco prima l’aveva tanto incuriosita, iniziava a spaventarla sempre di più. Quanto tempo era trascorso da quando aveva fatto ingresso nel parco? A quell’ora il sole doveva essere già tramontato e quella luce che penetrava oltre i rami appariva troppo fredda per essere solare, sembrava piuttosto frutto di un qualcosa di artificiale.  Stava riflettendo proprio su questa singolarità, quando avvertì come una leggera brezza, un odore diverso che assomigliava quasi ad un respiro. La sua mente parve farsi piano piano più leggera, sino a galleggiare sospinta da un soffio caldo. No, non era più sola, sapeva che quella presenza percepita poco prima nell’oscurità, non era illusione,  da qualche parte,  invisibile, c’era un qualcosa  di indefinito che forse voleva avere un contatto con lei.  Si girò intorno, scrutò ogni zona d’ombra, ma  non intravide nessuno, allora diresse il suo sguardo in alto, verso le folte cime di un gruppo di lecci, ma oltre ai soliti fruscii, non vide nulla che giustificasse le sue impressioni. Alina sapeva di essere una creatura suggestionabile e ricca di fantasia e quindi non si lasciò condizionare da un istinto che le ordinava di tornare indietro e correre via,  proseguì  il suo lento cammino. Ma all’improvviso, proprio dietro di lei, si sentì come un lamento, o per meglio dire, un leggero sospiro, si fermò e lo udì di nuovo. Si  voltò di scatto pensando di sorprendere uno sconosciuto che la seguiva, ma si sbagliò, perché non vide nessuno dietro di lei.  Istintivamente cominciò a correre, atterrita da tutta una serie di lugubri supposizioni che andavano sovrapponendosi nella sua mente già troppo confusa.  Ma più cercava di accelerare il passo e più sentiva le gambe farsi pesanti, le sembrava che una energia misteriosa la stesse risucchiando verso di lei. Nel tentativo di opporsi Alina fece appello a tutte le sue forze per contrastare quanto più poteva quella morsa poderosa, ma ogni sforzo risultò inutile.  L’affanno le toglieva il respiro, le tempie stavano per scoppiarle ed il cuore impazzito le rimbombava nelle orecchie. Alina esausta si abbandonò al  feroce richiamo e venne trascinata  in un vortice fatto di colori e di suoni distorti. Tra lei ed il mondo si era aperto un baratro dal quale, forse, non sarebbe più riemersa. La sua sostanza corporea sembrava essere svanita in un turbinio di luci ed ombre,  non poteva più guardarsi né toccarsi, stremata si abbandonò all’oblio. Quando la danza di colori cessò, si sentì nuovamente viva e padrona del proprio corpo, dei propri pensieri. Il parco era sparito.                                  

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