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Nataniele Paghini. L'elisir nero Un giorno, un vecchio
cantastorie si fermò a riposare nel mio giardino, che da sulla strada che
collega il borgo di Narmonere alla mite città di Selume. Veniva da oltre i
confini del regno e mi chiese di poter riposare sulla panchina, all’ombra. Mi narrò, allora, la storia di
Alisheba, sacerdotessa del dio Badog, e del suo fedele servitore Zead. E’ una
favola, presumibilmente. Ne rimasi affezionato, ed ancora adesso, che conto i
giorni che mi separano dal crepuscolo, amo rievocarla nelle tiepide serate di
fine primavera. Kirdigam Manjuriam Tutti, nella Provincia Minore
dei Malacotti, sapevano che la sacerdotessa Alisheba era una donna avida, capace
di qualsiasi atto pur di possedere l’oggetto dei suoi desideri. E tutti ancor
sapevano che la sua sottile figura emanava una bellezza abbagliante ed
incantevole, una bellezza brillante di luce perversa e maligna. Taluni
mormoravano che in realtà ella era l’incarnazione di un demone fuggito dalle
polverose segrete costruite dagli déi all’alba dei tempi, ma molti erano
quelli affascinati dal suo splendore, se pur tutti sapevano che la malizia
regnante nel suo cuore era densa e cupa. E più di tutti lo sapeva Zead, giovane
ed enigmatico fedele servitore della sacerdotessa, bello anche lui, bello come
un cupo dio, triste come il sublime angelo scacciato dagli déi, silenzioso come
il vampiro acquattato nell’ombra notturna. Chi, nella Provincia Minore dei
Malacotti, non conosceva Alisheba dal nero cuore e Zead dai tristi occhi? Vi fu
un tempo in cui la sacerdotessa regnò su tutte le province malacottiane, ed
accanto aveva il fedele Zead , e la gente li ammirava e paventava. Chi, vedendo
Alisheba, non rimaneva incantato dal danzare delle sue braccia, dal librarsi
delle sue perfette mani, dall’ondeggiare sinuoso delle sue sensuali anche? E
chi, pur estasiamente ammirandola, non la tremava nel più profondo della sua
anima? Ora, vi fu un giorno di
primavera, quando le rondini già volano sopra la Foresta di Laft descrivendo
cerchi ed ellissi che si intrecciano e si spezzano quasi per magia, che nel
borgo di Toldone giunse un grande mercato. Toldone era un fitto grappolo di
casette bianche sulla sommità di una verde collina, e la gente era allegra e
felice di vivere. Be’, in quel borgo mai fu
visto mercato più grande e chiassoso, mai furono visti tanti colori e udita
tanta musica, e alla gente questo piaceva. Le bancarelle affollavano ogni
via di Toldone, e i mercanti vendevano articoli che giungevano dai luoghi più
lontani e misteriosi. Camminando fra la gente che si pressava e si divincolava
davanti a baracconi stracolmi di oggetti dalle mille fatture, si potevano
ammirare le morbide e leggere sete intessute dalle donne del Reame di
Zijyalmantan, le statuine di terracotta meticolosamente plasmate dagli artigiani
delle Regioni di Lukko, i piatti di porcellana e le pentole di rame delle
fornaci ai piedi dei Monti d’Opale, ed i coloratissimi abiti intessuti nelle
capanne sospese del Popolo delle Settanta Querce. E chi amava i fiori non aveva
difficoltà a trovare quelli coltivati nelle terrazze pensili delle Città
Gemelle, i cui colori mutavano a seconda della posizione da cui si guardavano, e
di certo poteva inebriarsi del denso profumo dei piccoli fiori dei Feudi
Riuniti, le cui essenze, se odorate, facevano sognare donne nude danzanti ed
orge nei giardini della musa dell’amore. E in più vi erano i fucili e gli
archibugi delle Terre Libere di Yoran, le spade incise di Fuhrillyon, ciambelle
e marzapane, e libri, talismani, pentole di rame, tappeti ed ogni altra cosa
immaginabile. Mai fu visto mercato più grande. A Toldone mise su il suo
baraccone anche il mercante Cnarel, un uomo basso ed opimo, dagli occhietti
avidi e gli abiti sgargianti, dalle dita mollicce appesantite da anelli
preziosissimi ed il collo sudaticcio da cui pendeva una pesante catena d’oro.
Alisheba lo seppe, e seppe anche che Cnarel, fra tante pergamene antiche, libri
di stregoni, spade d’eroi ed erbe medicinali che possedeva, aveva un oggetto
che non vendeva, almeno ad un prezzo che non fosse degno delle ricchezze di un
nobiluomo. Ella riposava nel suo tempio
pensando a ciò. Sedeva in uno scranno di legno nero dall’alto schienale, di
lato un braciere di bronzo nel quale aveva gettato una manciata di mirra ed
oppio. Un profumo dolciastro andava diffondendosi per tutto il tempo. Davanti allo scranno, alla fine
dell’alta navata, vi era una grossa e profonda nicchia ed in questa,
illuminato da due ceri, riposava il dio Badog sotto le sembianze di una scultura
scura, color sangue rappreso. Il dio, la cui forma non era umana ma neppure
animale, osservava con spenti occhi il soffitto del tempio, seminascosto
nell’oscurità e sorretto da dodici pilastri di lucida pietra verde come il
muschio più scuro ed umido. Alisheba, inebriata ed
assopita, sognava forse di fare l’amore col suo dio, e le dita ogni tanto
fremevano, e il petto sobbalzava di tanto in tanto. Così riposava Alisheba quando
giunse Zead, avvolto in un nero mantello, coi lunghi capelli neri e spessi che
cadevano sulla schiena. Si fermò a contemplare la sua padrona con un
espressione di ferro, la fronte corrugata e lo sguardo torbido. Attese di sapere
le ragioni per le quali era stato convocato. La sacerdotessa si destò e si
mise in piedi, girandosi a fronteggiare il suo fedele servitore. Il suo corpo
pareva scaturire dal pensiero perfetto di un dio innamorato… ma quale dio
malvagio doveva essere! Tutto il lei era provocante e conturbante: le gambe
affusolate che donavano al palato il sapore della dolce uva, i fianchi sottili
che invitavano l’uomo a cingerli tremante, i seni tondi come frutti
inebrianti, i capelli profumati che ubriacavano la mente dei ferventi, le dita
sottili che all’occorrenza sapevano trastullare e giocare con le intimità
maschili, le labbra tentatrici curvate in un sardonico sorriso, e gli occhi cupi
e brillanti di stigea malvagità. Un velo nero e leggero la
ricopriva a stento. Un velo vagamente trasparente, che lasciava libere le
eburnee e delicate braccia. Si mosse verso Zead,
socchiudendo gli occhi e alzando leggermente il mento. - Ho di nuovo sognato. –
Scrutò il giovane. Una mano si librò come un farfalla ed andò a carezzare il
viso affilato e cupo di Zead. Gli sfiorò il mento e si ritrasse. - Se almeno Badog si incarnasse
in te… - sospirò. – Un giorno forse. – Attese qualche istante. – Ti ho
chiamato con un altro scopo. Come tu sai, è giunta la fiera a Toldone, e con la
fiera Cnarel, che possiede ciò che io desidero. – Girò le spalle a Zead
mettendosi di fronte alla statua del dio, allargando le braccia ed alzando la
testa. I capelli, lucenti e neri, scivolarono lungo la schiena. Mormorò alcune
parole, quasi in estasi, rapita dalla visione del dio nella nicchia. Si voltò lentamente, ridendo
con malizia. Ora tutto in lei esprimeva la pura, limpida, incontaminata e
perfetta malvagità. - Badog vuole ch’io possieda
l’Elisir Nero, che è ingiustamente nelle mani di Cnarel. Bevendolo io potrò
ospitare nei miei sogni i pensieri di Badog. Badog sarà in me, e i suoi sogni
saranno i miei, i suoi poteri mi doneranno forza. L’Elisir Nero è di Badog, e
Badog lo vuole. – Si risedette sullo scranno. – Sono indifferente ai mezzi
che vorrai utilizzare. - Certo. Agirò con
riservatezza. – Detto ciò, Zead la lasciò. I suoi passi echeggiarono nella
navata. Corrusca del più puro male è
Alisheba, pensava Zead nel cavalcare alla volta di Toldone, e bella come
nessun’altra. Essa desidera giacere con l suo dio, ma quale mortale può osare
di desiderare una simile cosa? Agli dei spetta decidere… e Alisheba desidera
troppo, poiché il male non si accontenta mai. Pavento la leggerezza con la
quale userà il potere di cui Badog le farà dono. Pareva un’ombra, avvolto
com’era nello scuro mantello, ed il suo cavallo avrebbe potuto essere un
tenebroso demone se non fosse stato per quella stella bianca che l’animale
aveva disegnata sulla fronte fin dalla nascita. Era notte, ma le folte chiome
permettevano di scorgere solo qualche stella, e la luna faceva filtrare una luce
pallida che ammantava l’erba come per incanto. Quando Zead giunse presso
Toldone sentì per un istante un fremito al cuore. Bloccò la cavalcatura e
stette ad osservare il borgo illuminato dai lampioni a gas. Giungeva lieve una
musica allegra di arpe e flauti. Chiuse gli occhi e lasciò che
la sua fantasia colorasse quelle note con le più belle immagini. Dame che
danzavano su laghi dorati, praterie sconfinate dove l’onnipresente foresta
aveva perso il suo dominio… e le spiagge del remoto e mitico mare, di cui
tutte le leggende parlavano. Interruppe il lavoro della
fantasia, e questa si dimenò arrancando per non morire, spargendo
freneticamente colori senza alcuna forma, fremendo, ed infine sparendo
nell’abisso della freddezza. Obbedire, pensò, e lanciò al galoppo il
cavallo, chiedendosi per quale motivo era divenuto servitore di Alisheba.
Potere, forse. Attrazione fisica verso quella stupenda creatura. Chino sul bancale, un boccale
di birra tra le mani, Zead attendeva il ritorno del ragazzo, un piccolo moccioso
dai capelli rossi al quale aveva chiesto di cercare il baraccone di Cnarel. Se
ne stava in disparte, nascosto nella penombra, per evitare di essere
riconosciuto. La taverna era vuota se si escludeva qualche avventore istupidito
dal vino, dal di fuori giungevano frammenti sgualciti di suoni, voci, urla,
clangori e scalpiccii di zoccoli. Il ragazzo entrò nella taverna
e chiamò Zead con un bisbiglio. Lo condusse attraverso un vicolo semioscuro,
illuminato dalle stelle e percorso da un vento sulle cui ali viaggiavano odori e
lamenti strappati al mercato, sbucando a qualche metro dal bancone di Cnarel.
Zead fece scivolare nelle mani del ragazzo tre pesanti monete e lo mandò via. Il baraccone di Cnarel era una
grossa tenda color porpora, rotonda, con la sommità a punta. Zead fece un giro
attorno, fino a dove il tendone si mostrava sulla strada affollata. In quel
tratto vi era un’apertura larga tre metri, occupata da un bancone colmo di
cianfrusaglie; dietro vide il grasso mercante mostrare bizzarri articoli agli
ingenui contadini. Zead sorrise, poi entrò
attraverso un’apertura laterale. Il grasso mercante stava
lodando le caratteristiche di un piccolo amuleto quando si accorse
dell’intruso e, dopo essersi scusato con i paesani, andò a controllare. Poco dopo il bancone veniva
ritirato e l’apertura chiusa. Da quel momento nessuno comprò più da Cnarel
il mercante. Prima di uscire dalla tenda di
Cnarel Zead si voltò a dare un ultimo sguardo. Il corpo del mercante giaceva
disteso su un tappeto color ruggine, gli occhi spalancati e vitrei, la mano
poggiata sull’impugnatura del largo pugnale conficcato nel petto, l’altra
stretta su una boccetta di vetro nero. Zead guardò la boccetta nella
mano del mercante, poi quella nella sua, un leggero sorriso sfiorò le sue
labbra. Uscì velocemente facendo svolazzare il mantello. Alisheba attendeva Zead con
nequizia serenità, sognando fantasie erotiche seduta nel suo scranno
dall’alto schienale. Quando Zead entrò ella tese le braccia sopra la testa
unendo i dorsi delle mani. Si alzò con estrema lentezza, e il suo sorriso fu
perverso nel vedere Zead tenderle la boccetta. - Quel che si doveva fare è
stato fatto, - disse il giovane dagli occhi tristi. - Ed io non domanderò come è
stato compiuto, - rispose la sacerdotessa. Poi prese la boccetta e congedò Zead.
Osservò la sua schiena mentre si voltava, ed i suoi occhi risplenderono di
malvagità quando spinse una leva, e sorrise soddisfatta nel vedere la botola
spalancarsi sotto i piedi di Zead. L’uomo non urlò nel cadere,
ma il suo corpo produsse un sordo tonfo nello schiantarsi sulla ruvida
superficie di pietra. – Non avrò più bisogno di te, - mormorò. Batté le
mani, e quasi per incanto apparvero da dietro una colonna tre suonatori di
violino. Intonarono un valzer, e Alisheba danzò, l’abito trasparente che
lasciava intravedere recondite intimità piacevoli, invitanti, peccaminose,
proibite. Bevve l’elisir e danzò ancora, danzò fino a quando un dolore le
morse lo stomaco, un pallore le sbiancò il viso. I piedi si incrociarono e
cadde sul pavimento. Non un gemito riuscì a fuggire
dalla sua gola bruciante, ma mentre moriva i suoi occhi lasciarono intendere
ch’ella aveva compreso il tradimento di Zead, ed allora con grande sforzo
raggiunse il pozzo e vi si lasciò cadere, un’espressione di rabbia impotente
era disegnata sul volto contratto. I violinisti continuarono a suonare. Avevano le palpebre sigillate ed incavate, erano ciechi per un capriccio della loro padrona… ma chissà come, un beffardo sorriso sfiorò per un attimo le labbra esangui. |
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