Toribio
Alfonso de Mogrovejo nacque nel 1538 a Mayorga, provincia di Valladolid e
diocesi di Leon (Spagna). Il bisnonno Giovanni, il nonno Giorgio e il padre
Luigi avvocati e lo zio Giovanni per 25 anni professore di diritto
nell’università di Coimbra (Portogallo), il giovane rampollo non poteva
tralignare. Terminati gli studi umanistici a Valladolid, iniziò a frequentare
l’università di Salamanca (1562), dove ottenne il titolo di baccelliere. Poi
raggiunse lo zio in Portogallo, per aiutarlo ad ordinare certi manoscritti in
vista di una eventuale pubblicazione; quindi continuò gli studi a Salamanca e
ottenne la licenza in diritto dall’università di Compostela nel 1568.
Sensibilità e amore verso i poveri, lucidità
intellettuale, coscienza del dovere, serietà professionale, austerità di vita,
religiosità e ascetismo furono le caratteristiche di Toribio fin dalla
giovinezza. Doti che gli meritarono una borsa di studio per conseguire il
dottorato nel Collegio maggiore di Oviedo, una specie di seminario dipendente
dall’università di Salamanca. Ma nel 1573, prima che terminasse i corsi,
Toribio fu nominato giudice del tribunale dell’Inquisizione di Granada. Due
anni dopo ne divenne presidente. Era una carica scottante. Ai problemi religiosi
comuni all’Europa del secolo XVI si aggiungevano le incrostazioni che la
dominazione araba aveva lasciato nella vita sociale e cristiana, con frequenti
rigurgiti di rivincita da parte dei «mori». Toribio si trovò spesso in
contrasto col tribunale civile. Ma tutto veniva appianato dalle sue doti di
equilibrio e magnanimità, amore e umiltà.
Il capitano Juan Reinoso, per esempio, stava per essere
impiccato. Solo il perdono dell’offeso, un nobile cavaliere, lo avrebbe potuto
salvare. Toribio si recò personalmente a implorare la grazia; esauriti tutti
gli argomenti, si gettò in ginocchio davanti al cavaliere che, commosso,
concesse il perdono.
Di solito le cause trattate dal nostro inquisitore erano
di poco conto; ma in un tempo di caccia alle streghe bastava ancora meno per
finire sul rogo. Alle visionarie con cui ebbe a che fare, Toribio
s’accontentava di imporre «penitenze spirituali di preghiere, elemosine e
digiuni», facendo arricciare il naso ai giudici del Santo Ufficio, che non
sempre approvavano la sua manica larga.
COSTRETTO
A FARE IL VESCOVO
Come
inquisitore Toribio ebbe occasione di stringere relazione con i consiglieri
della Corona e lo stesso re Filippo II, che nel 1378 lo scelse come vescovo di
Ciudad de los Reyes, l’odierna Lima, sede vacante da tre anni, dopo la morte
del domenicano Jeronimo de Loaysa.
Per coscienza e umiltà, Toribio cercò di ricusare,
scusandosi di essere un semplice laico (aveva ricevuto solo la tonsura
clericale), di intendersi più di diritto che di teologia e, soprattutto, di non
avere la vocazione missionaria né alcuna esperienza delle Indie. Ma sotto
l’insistenza di amici e colleghi accettò l’incarico e ricevette gli ordini
minori e suddiaconato. Quando da Roma arrivarono le bolle papali (1579), fu
ordinato sacerdote a Granada, poi consacrato vescovo nella cattedrale di
Siviglia.
Salpato da Sanlùcar nel settembre 1580, Toribio sbarcò
a Paita, primo porto del Perù sei mesi dopo; proseguì a piedi per altri due
mesi, approfittando del viaggio per avere un primo contatto con la vasta
diocesi: incontrò una popolazione indigena ridotta in condizioni di impoverimento
materiale, culturale e umano. Entrò a Lima il 12 maggio 1581 e si mise subito
al lavoro.
Il primo atto del giovane vescovo fu convocare un
concilio provinciale, secondo l’ordine ricevuto da Filippo II, per riparare la
situazione di tensione e anarchia trovata nella diocesi. Il predecessore,
Jeronimo de Loaysa, ne aveva convocato due, nel 1552 e 1367; ma «per negligenza
di alcuni e opposizione di altri, erano stati completamente dimenticati»
Sbrigate le pratiche di convocazione e fissata la data di apertura del Concilio
per il 15 agosto 1582, Toribio si mise in marcia per visitare le missioni (doctrinas)
della regione a sud della capitale, per incontrare gli indigeni e intrattenersi
con i missionari. Tornò a Lima nella primavera del 1582 e radunò il primo
sinodo diocesano, per avviare le prime riforme e studiare i punti da discutere
in Concilio. Poi, con una continuità di lavoro e dinamismo asfissiante che lo
caratterizzò tutta la vita, ripartì per visitare la regione montagnosa di
Huanuco e tornò 15 giorni prima dell’apertura dell’assemblea.
L’ORGANIZZATORE
Al
III Concilio di Lima parteciparono vescovi e delegati di quasi tutta l’America
spagnola. Lima, capitale del viceregno, aveva giurisdizione su 12 diocesi
suffraganee: Nicaragua e Panama (Centro america), Popayàn (Colombia), Quito
(Ecuador), Trujillo, Cuzco e Arequipa (Perù), Charcas (Bolivia), Assunciòn
(Paraguay), Tucuman in (Argentina), Santiago e La Imperial (Cile). I vescovi
erano 7 (Trujillo e Arequipa esistevano solo sulla carta); ad essi si aggiunsero
i superiori degli ordini religiosi, tra i quasi distinse il gesuita José de
Acosta, primo grande teologo missionario in America.
Fin dall’inizio il giovane vescovo, presidente del
Concilio, si trovò tra le mani una patata bollente che rischiò di far chiudere
i battenti: una relazione del capitolo ecclesiastico di Cuzco accusava il
proprio vescovo di esosità, simonia e traffici di coca...
«Sono perseguitato di poteri civili ed ecclesiastici»
diceva il vescovo incriminato, minacciando di abbandonare l’assemblea insieme
ad altri padri conciliari suoi sostenitori. Toribio riuscì a scaricare la
tensione, suggerendo di fare altre investigazioni. Nei momenti più difficili,
come pure durante tutto lo svolgimento dell’assise, Toribio emerse per le sue
eccezionali qualità di prudenza e ostinazione, intelligenza e santità. Così
la discussione e approvazione dei decreti, preparati e redatti in antecedenza da
Acosta, poterono iniziare e proseguire fino alla fine del Concilio (ottobre
1583).
I
padri conciliati approvarono 111 capitoli, brevi e pratici, senza preamboli
teologici e fronzoli retorici; essi furono poi ripresi in tutti i sinodi
celebrati nelle varie diocesi e costituirono la base dell’organizzazione
interna, canonica e pastorale della chiesa sudamericana per oltre tre secoli:
cioè fino al Concilio plenario latino americano, celebrato a Roma nel 1900.
Ancora oggi, quando si fa riferimento al in Concilio di Lima, lo si cita come il
«Sinodo limense» per eccellenza.
Per aggiornare e completare l’organizzazione della
chiesa sudamericana, Toribio convocò altri due concili, nel 1391 e 1601. E per
tradurli in pratica nella sua diocesi, radunò ben 12 sinodi, alcuni a Lima,
altri negli angoli più remoti del Perù.
PROTETTORE
DEGLI INDIOS
Toribio
impresse al Concilio limense un impronta totalmente missionaria, incentrando i
dibattiti su due grandi argomenti: promozione religiosa e sociale dei nativi e
riforma del clero secolare
Primo
tema affrontato fu la catechesi: i nativi devono apprendere dottrina e preghiere
nella propria lingua; siano composti catechismi nei rispettivi idiomi; i
doctrineros (missionari) imparino i dialetti locali e nell’insegnare le verità
cristiane (regola pedagogica non trascurabile) procedano per gradi, poiché
“la gola stretta soffoca con bocconi grossi”.
Padre Acosta compilò un catechismo in spagnolo; due
esperti linguisti lo tradussero nelle lingue dell’impero incaico, quechua e
aymara; i padri conciliati l’approvarono nel luglio 1383, insieme ad altri
libretti con direttive, riti e preghiere da utilizzare tra gli indios.
Ma in Perù, la più irrequieta regione dell’impero
spagnolo, non esisteva alcuna tipografia: un decreto regio proibiva la stampa di
qualsiasi libro, per impedire la circolazione di idee rivoluzionarie. Toribio
ottenne dal re la revoca di tale legge; chiamò dal Messico il tipografo
piemontese Antonio Ricardo, «che arrivò con molto buoni apparecchi», e nel
1384 i catechismi videro la luce: i primi libri stampati in Sud america.
Intuizione sempre attuale di Toribio fu il legame tra
evangelizzazione e promozione umana. I missionari «devono occuparsi del bene
corporale e spirituale» degli indigeni, «per cui metteranno particolare
diligenza nel guidarli ad abbandonare i costumi barbari e vivere civilmente,
come non andare in chiesa sudici e malvestiti, ma lavati, acconciati e puliti...
che le loro case abbiano tavole per mangiare e letti per dormire; le case non
devono assomigliare a stalle, ma ad abitazioni di esseri umani, con ordine,
pulizia e altre cose simili... Nelle doctrinas devono organizzare la scuola dove
i bambini indios imparino a leggere e scrivere».
Per facilitare l’evangelizzazione, favorire la vita
cristiana e impedire lo sfruttamento degli indigeni, fu abolito il sistema delle
encomiendas e riorganizzate le doctrinas, sul modello poi sviluppato nelle
famose «rlduzioni» del Paraguay.
IL
RIFORMATORE
La
riforma deve cominciare dalla «testa» diceva Toribio. «Per essere guida del
gregge, il vescovo deve risplendere per esempio di vita e comportamento santo,
fuggire lusso e profitti, non dare troppa importanza ai piaceri della tavola».
E poteva dirlo con ragione: «In 23 anni di episcopato non dormì mai nel letto
- testimonia chi lo ha conosciuto; era un esempio di eroica povertà, penitenza,
astinenza, digiuno e generosa carità».
Era soprattutto il clero che aveva bisogno di riforma. Fu
stabilito che ogni vescovo costruisse il seminario; che i candidati al
sacerdozio fossero uomini di «buoni costumi, sufficiente istruzione e
conoscenza della lingua delle proprie terre». In teoria potevano essere
ordinati anche indigeni e meticci; nella pratica non avvenne per molti secoli.
Il
Concilio dettò altre misure pratiche, non nuove in verità: «I preti devono
indossare un abito distintivo; evitare la caccia e ogni tipo di divertimento;
continuare a studiare; non fumare né tabaccare prima della messa, neppure sotto
forma di medicina; non esigere la decima e tributi dagli indigeni; proibizione
assoluta di praticare commercio e qualsiasi forma di simonia».
La novità portata da Toribio fu la scomunica automatica
legata alla violazione di tali norme. «Le forti multe comminate dai
predecessori ripeteva il santo vescovo - non sono molto temute, perché non è
difficile eluderle; le censure però, grazie a Dio, si temono ancora».
Il Concilio scomodava tutti: il clero regolare per via
delle riforme; i religiosi per i tagli ai privilegi; gli spagnoli per la difesa
degli indigeni. Una parte del clero del viceregno inviò a Madrid e a Roma due
delegati per impedirne la conferma, almeno delle leggi più severe. Ma Toribio
giocò d’anticipo: mandò padre Acosta a lavorare re e dicasteri romani, con
prudenza e rapidità, perché tutti i canoni venissero approvati. E ci riuscì:
nel 1591 il Concilio Limense fu approvato, stampato e
promulgato.
IL
PASTORE «IN CAMMINO»
Per
attuarne i decreti, il Concilio di Trento e quello di Lima obbligavano i vescovi
a regolari visite pastorali. E Toribio si mise subito in cammino. Anzi, «visse
in cammino», come pastore itinerante, realizzando tre grandi visite, senza
contare quella fatta prima del Concilio: la prima durò sei anni (1384-90); la
seconda quattro (1393-1397), prolungata poi nel 1398-99; la terza iniziò nel
1605 e finì con la sua morte.
Il territorio affidato a Toribio, scriveva un suo
contemporaneo, «è la più vasta estensione che, per quanto io sappia, abbia
mai avuto arcivescovado alcuno». E padre Acosta affermava che l’impervia e
ostile topografia del Perù offriva «cammini più per camosci e capre che per
uomini». Dei 23 anni di episcopato, ne spese 17 visitando palmo a palmo tutti
gli angoli della sua diocesi, amministrando più di 800 mila cresime; zigzagando
a piedi e a dorso di mulo per oltre 40 mila chilometri. Avrebbe potuto farsi
trasportare in portantina, ma preferiva camminare, «per non essere di peso a
nessuno e non gravare gli indios di un inutile lavoro» annotava nel suo diario.
Per raggiungere le capanne degli indigeni più isolati,
incontrare personalmente tutti, cristiani e non cristiani, portare conforto agli
ammalati, predicare dappertutto il vangelo, sfidava deserti infuocati e foreste
vergini, paludi insidiose, montagne innevate e dirupi danteschi. «Ho visitato
di persona zone remote dove nessun prelato o visitatore è mai entrato, per
cammini molto scoscesi, attraverso i fiumi, affrontando tutte le difficoltà e,
talvolta, privo di letto e di cibo» sintetizza con semplicità le sue epiche
gesta nel 1589 in una lettera a papa Clemente VII.
Non si stancava mai di predicare e istruire sia spagnoli
che indios nelle rispettive lingue. La sera annotava tutto nel diario: abitanti
dei singoli villaggi e loro tradizioni, situazione economica e religiosa delle
doctrinas, numero di battezzati, cresimati e sposati, progetti di nuove missioni
e opere di promozione umana.. situazione dei missionari, soprattutto.
Strigliava i doctrineros se non conoscevano a sufficienza
la lingua della loro gente; incoraggiava quelli affaticati; correggeva i loro
abusi. Non era affatto tenero con gli spagnoli che sfruttavano gli indigeni con
lavori massacranti nelle miniere, fabbriche tessili e fattorie agricole.
Tutti gli indios lo veneravano come un padre, anche se il
gruppo dei quive, sempre in guerra con i coloni, Io chiamavano «il nasone»,
per il suo naso alquanto lungo e curvo.
UMILIATO
In
regime di patronato, in cui non era facile distinguere il confine tra interferenze
politiche e libertà della chiesa, Toribio mantenne una posizione di grande
equilibrio, evitando ogni conflitto e informando regolarmente sulla vita e
problemi della chiesa sia i pontefici e dicasteri romani sia Filippo II, che
nutriva per lui una stima viscerale.
Tale
amicizia suscitò l’invidia del viceré Garcia de Mendoza. Vanitoso e
violento, costui non perse occasione per intromettersi negli affari della chiesa
e ridicolizzare il vescovo, fino a montare una campagna diffamatoria davanti al
re e al Consiglio delle Indie. Per cinque anni (1590-93), con una pioggia di
lettere, Garcia accusò Toribio di trascurare la diocesi, essendo sempre in
giro; di sfruttare gli indigeni e non correggere certi abusi; di rastrellare
tributi e amministrarli con poca trasparenza; di infischiarsi dei decreti regi e
mancare di gratitudine al monarca. Suggerì perfino di rimuoverlo da Lima.
Filippo II conosceva troppo bene il suo pupillo per
credere alle accuse, finché cambiò umore per un banale equivoco, nel 1591. In
una lettera al papa Toribio si lamentò che un vescovo avesse abbandonato la sua
diocesi per trasferirsi in un’altra prima di ricevere i decreti papali. Da
Roma la lagnanza fu girata al monarca in questi termini: «I vescovi delle Indie
prendono possesso delle loro chiese senza bolle papali».
Filippo si sentì pugnalato alla schiena. Ordinò al
viceré di costringere il vescovo a ritrattare pubblicamente la menzogna.
Mendoza non aspettava altro per prendersi una rivincita. Nel 1594, senza
attendere la risposta alla lettera di spiegazione che il prelato aveva inviato
al re, Mendoza lo costrinse a interrompere la visita pastorale per trascinarlo
in tribunale e umiliarlo davanti a spagnoli e indiani: Toribio diede prova di
tale serenità e santità, che a perdere la faccia fu solo il viceré: questi
l’anno seguente fu rimosso dall’incarico, mentre Filippo II rinnovava
tutta la sua stima per il vescovo.
ULTIMA
TAPPA
All’inizio
del 1603 Toribio iniziò la sua terza e ultima grande visita nella regione della
costa settentrionale. L’anno seguente, a Trujillo, cominciò a sentirsi
stanco. Tutti lo sconsigliarono di proseguire il viaggio in una zona tanto
malsana e torrida, ma volle ugualmente raggiungere la borgata di Sana.
Sentendo ormai la fine, chiese il viatico. Non volle
riceverlo in casa del curato, ma nell’umile chiesa degli indios. Poi pregò
l’agostiniano fra’ Girolamo di cantargli alcuni salmi, accompagnandoli con
l’arpa, mentre il santo vescovo fissava dolcemente il crocifisso e le immagini
dei santi Pietro e Paolo, suoi patroni da vescovo e missionario, finché spirò
tra singhiozzi e lacrime di familiari, neri e indiani.
Era giovedì santo: 23 marzo 1606. Una vita tanto austera
e sacrificata si concluse alla stessa stregua: «Inedia confectum» (morto di
fame) decretò il dottore che ne constatò il decesso.
Innocenzo XI lo beatificò nel 1679 e Benedetto XIII lo
canonizzò nel 1726. Nel 1983 Giovanni Paolo Il lo dichiarò «patrono dei vescovi
latino americani». Più eloquenti sono i cinque santi fioriti a Lima al tempo
di Toribio, quattro dei quali cresimati dallo stesso santo: san Francesco Solano
(1349-1610), san Martino de Porres (1579-1639), beato Giovanni Macias
(1385-1645), santa Rosa da Lima (1536-1617), beata Anna degli Angeli de Monteagudo
(1602-1686).
UOMINI
LIBERI
l
III Concilio di Lima, presieduto da san Toribio, difese con vigore la dignità
degli indios. Ecco un esempio.
«Questo
santo sinodo si duole assai del fatto che non solo in tempi passati siano state
inflitte a questi poverelli tante ingiurie e violenze, rendendoli vittime di
tanti eccessi, bensì nel constatare che anche oggi si cerca di fare lo stesso.
E per questo che prega nel nome di Gesù Cristo e ammonisce tutti gli
amministratori della giustizia e governatori, affinché si mostrino
compassionevoli verso gli indios e sappiano affrontare l’insolenza dei propri
ministri qualora sia necessario. Debbono trattare questi indios non come
schiavi, bensì come uomini liberi e come sudditi di sua maestà reale, cui Dio
e la chiesa li hanno affidati.
Ai preti e ministri ecclesiastici comanda di tutto cuore
che ricordino di essere pastori e non carnefici, e che debbono sostenere e
proteggere gli indios come figli, accogliendoli nel seno della carità cristiana».
I
FIORETTI DI SAN TURIBIO
Viaggiava
il santo per i boschi delle Ande evangelizzando gli indios chachapoyas, quando
vennero a mancare i viveri a lui e ai compagni. Trovarono negli alberi vicini
alcune banane così verdi che nemmeno cotte servirono gran che. Il santo voleva
pagarle ad ogni costo. Gli dissero che il padrone non si trovava, trattandosi di
frutti selvatici. Il giorno seguente, alla partenza, diede ordine di lasciare
due «reali» appesi all’albero per l’indiano sconosciuto al quale
quell’albero forse apparteneva.
Un giorno l’arcivescovo mise piede in territorio di
pagani caribe, che gli andarono incontro in gran numero con le armi in pugno.
Egli parlò in tale maniera che quelli si inginocchiarono ai suoi piedi e gli
baciarono il vestito. L’interprete non riusciva a tradurre ciò che essi
dicevano. «Lascia perdere; io li intendo» disse il santo alzando gli occhi al
cielo, e cominciò a spiegare il vangelo in spagnolo e latino. Tutti lo
capivano. I nativi rispondevano nella propria lingua e il vescovo li
comprendeva. Fatti del genere avvennero anche in altri posti, ma il santo
vescovo voleva che non se ne parlasse per la sua grande umiltà e santità.
D
ovendo raggiungere il villaggio di Taquillon, si trovò la via sbarrata dal rio
Santa in piena. La violenza delle acque non permetteva l’uso di zucche, ceste
o piccole zattere di liane come in altri casi. Il vescovo fece tendere una
robusta corda tra le due sponde e, aggrappato ad altre funi penzolanti, si fece
tirare fino all’altra riva con tutto l’occorrente per il suo ministero. Fatta
la visita, istruzioni e cresime come era solito, tornò indietro alla stessa
maniera.
Un giorno si trovò davanti a un fiume molto profondo.
Gli indios si offrirono di trasportarlo in braccio, per risparmiargli la fatica
di cercare un guado più facile a qualche chilometro di distanza. Egli disse
loro: «Figli, non voglio mettervi in pericolo. né che per mia colpa qualcuno
affoghi. Non tentiamo Dio!».
Se non temeva di rischiare la propria vita, il santo era
molto cauto quando in pericolo era la vita altrui, specie degli indigeni.
Testo
di Benedetto Bellesi tratto da Missioni Consolata Gennaio 2002
PREGHIAMO
CON LA LITURGIA
O
Dio che hai fecondato la tua Chiesa con le fatiche apostoliche del santo vescovo
Turibio, suscita nel popolo cristiano lo stesso ardore missionario per
l’annunzio del Vangelo, perché cresca e si rinnovi sempre nella fede e nella
santità di vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo….