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FILIPPO  NERI  -  Santo Sacerdote

Memoria liturgica al 26 Maggio

 

Nacque il 21 luglio 1515 a Firenze da messer Francesco e madonna Lucrezia da Mosciano. Abitò e crebbe in oltre Arno. Se l’ambiente fa l’uomo, certo Filippo ebbe largo modo di inebriarsi di quella bellezza di armoniche linee e colori di natura, cui le opere d’arte della città e dei dintorni accrescevano attrazione e decoro. Mite e vivace, gioioso e pensoso, devoto ma non bigotto, ricco dello spirito individualistico proprio del suo popolo, pronto al motto e bizzarro nell’estrosità dei gesti, come pur sempre sono stati i suoi conterranei, Filippo condusse la sua fanciullezza ed adolescenza nell’ambito sicuro di una tranquilla vita familiare, attorniato dall’affetto della matrigna, che riamò, essendogli presto morta la madre, e delle sorelle Elisabetta e Caterina, essendogli premorto il fratello maggiore Antonio. Presto però fattori politici fanno perdere la libertà repubblicana a Firenze e gli fanno sperimentare la caducità umana delle cose fino a provarne disgusto. Anche per ragioni economiche, poiché il padre poco pensava al bene della famigliola, perduto nella ricerca della pietra filosofale, dovette pensare a farsi una posizione autonoma. Così attorno al 1532, ancor assai giovane, fu mandato presso lo zio (cugino Romolo), che faceva il mercante in S. Germano (oggi Cassino) ai piedi della famosa abbazia benedettina. Ma i traffici poco lo attrassero. Si sa delle sue frequenti visite all’abbazia e delle meditazioni solitarie alla Montagna Spaccata, presso Gaeta, sul mare. E là si maturò la sua prima crisi di spirito. Lasciò S. Germano, lo zio, le prospettive di affari, e si rimise, pellegrino povero, in viaggio per il nord, meta Roma. Era la Roma del sacco del 1527, ancor sanguinante e umiliata, ma che mostrava di voler ritornare alla vita facile e ai facili piaceri di prima. Filippo, giungendovi nel 1534, trovò alloggio presso un conterraneo, il fiorentino Galeotto Caccia, che gestiva la dogana pontificia e che gli dette, in compenso dell’educazione dei due figli, l’alloggio e un poco di vitto. D’altro lato questo originalissimo precettore era uomo di scarse esigenze: pane, cacio, olive e acqua fresca. Frequentò la vicina Sapienza completando la sua formazione culturale; pur senza tralasciare una coscienziosa formazione dei giovanetti affidatigli, si dette a una sua vita tutta personale: pellegrino ai santuari, orante nelle catacombe ancora visitabili, amabile compagno di molti, allegro nella sua naturale serietà morale, non perse occasione di attirare anime a Dio con l’esempio, la parola facile, l’atteggiamento amabile, la carità vissuta e la arguzia pronta. Non gli mancarono ostacoli, scherni, sorprese e imboscate malevoli; tutto seppe superare con serenità. E il Signore lo consacrò suo quando nella Pentecoste del 1544, mentre era in preghiera estatica nelle catacombe di San Sebastiano, gli si manifestò sotto forma di un globo di fuoco che gli penetrò nel petto spezzandogli due costole dal lato del cuore. Preso e guidato dallo Spirito del Signore giunse a formulare in concreto il suo rimedio alle necessità più urgenti del momento: nel 1548, con altri compagni di vita devota, istituì la confraternita della Santissima Trinità dei Pellegrini e Convalescenti per soccorrere tanti infelici che, usciti dagli ospedali, vivevano di stenti, o, venuti a Roma da fuori, pativano per infermità o fame. Infatti l’istituzione si dimostrò così provvida che nel 1550 divenne una specie di comitato centrale dell’Anno Santo, provvedendo a migliaia di persone. Alla Trinità dei Pellegrini, intanto, da cosa nasceva cosa: all’attività assistenziale si affiancavano iniziative spirituali. Filippo e i suoi iniziavano inoltre in Roma la pratica delle Quaranta ore, per incrementare il culto Eucaristico. Col 1551 la sua vita subì un fondamentale mutamento poiché, convinto dal suo confessore, il 23 maggio in S. Tommaso in Parione fu ordinato sacerdote. Si sistemò allora presso il convitto ecclesiastico di S. Girolamo della Carità, nel quartiere della Regola, presso il Tevere, nel cuore dell’Urbe. Divenuto prete, la cerchia di amici gli si strinse più intimamente attorno, sicché egli immaginò una forma stabile di incontro quotidiano in funzione formativa. Nasceva così quella che sarà la sua opera più geniale: l’Oratorio secolare. Dapprima nella angusta cella ove viveva, poi in un granaio poco a poco sistemato a cappella, poi altrove, Filippo riuniva nobili e popolani, preti e religiosi, artigiani, cortigiani, artisti, sfaccendati, devoti, curiosi. Il piccolo e vivace prete fiorentino sapeva attirarli in maniera mirabile, pur non usando alcuna pressione. All’Oratorio la porta era sempre una porta aperta: per entrare o per uscire. Ma una volta entrati, era difficile uscirne! In un mondo caratterizzato dalle poche esigenze degli umili e dai proventi gratuiti di molti, il grosso problema era quello di utilizzare bene il tempo. Ozio voleva dire osteria, discorsi e pratiche licenziose, risse, gioco, disordine. Bisognava trovarsi insieme per elevare lo spirito e ricrearsi in cose buone. Ed ecco la lettura di libri selezionati: vite di santi, storia della Chiesa, ascetica. Si leggeva e poi ad un certo punto, perché non sopravvenisse il tedio, padre Filippo faceva interrompere e invitava il lettore o altri dei presenti a “parlar sul libro”, esponendo, così alla buona, quello che il cervello aveva pensato e il cuore sentito, dinanzi a quei fatti. Nacque così, contro l’oratoria ampollosa e vacua, un’eloquenza, tanto semplice e disadorna, quanto profonda, sentita e partecipata. Poteva mettere soggezione l’improvvisare un discorso, ma in fondo attraeva, e il dover parlare a turno, fece sorgere dei veri oratori che nell’esercizio divennero poi uomini noti. E però non si limitava a far leggere due o tre persone e farle parlare a turno. Per variare e avviare ciascuno al bene, in forma pratica, ecco sorgere la riunione in cui si alterna alla lettura e al discorso il canto di qualche lauda in volgare, cui si accompagnano anche pochi strumenti: liuto, viola, danno e tromba. C’è ancora altro da fare e da proporre agli intervenuti: una bella passeggiata a qualche giardino privato o orto di religiosi con merenda, scherzi e giochi. Non di rado padre Filippo si metteva a giocare alle piastrelle con i ragazzi e ad intonar canti. La passeggiata poteva avere come meta finale o intermedia la visita a una chiesa o a un ospedale, ove ci si tratteneva a servire i malati, sempre molto bisognosi di vitto e di assistenza infermieristica e morale. In particolare i membri, i fratelli dell’Oratorio, si impegnarono a turno a far da infermieri nell’ospedale di S. Spirito in Sassia, a portar donativi, a sostenere spiritualmente i ricoverati più abbandonati o più lontani da Dio. Ci fu chi prese l’abitudine di andarci tutti i giorni. La carità della Confraternita dei Pellegrini aveva fatto scuola. Il confessionale di padre Filippo era assediato il giorno ed anche la notte, e l’opera di ricostruzione spirituale cominciò veramente a dare i suoi frutti migliori. La riforma dei costumi e delle idee progrediva sempre più. La riforma promossa dai decreti del Concilio di Trento diveniva vita nell’Oratorio in contatto e collaborazione con altri cenacoli, sorti ad opera di altri santi, alcuni dei quali avevano frequentato l’Oratorio o furono da esso formati e aiutati. Pensiamo a S. Camillo de Lellis, a S. Felice da Cantalice, a S. Giovanni Leonardi, a S. Francesco di Sales, a S. Ignazio, buon amico di Filippo, e ad altri. Intanto i fiorentini vollero Filippo rettore della loro chiesa di S. Giovanni in via Giulia e il santo accettò. Così nel 1564 si iniziava, presso S. Giovanni dei Fiorentini, la vita comunitaria dei primi discepoli del Neri, divenuti sacerdoti. Semplici preti, senza voti, erano a servizio degli esercizi dell’Oratorio, applicati ad ogni esigenza dell’apostolato sacerdotale, legati solo a un minimo di obblighi, come quello dell’incontro serale nella preghiera e al refettorio, ove si svolgeva la discussione di casi di morale e di altre discipline sacre, per la reciproca formazione ed emulazione. Come l’Oratorio, così anche la comunità ecclesiastica si sviluppa sotto la guida di Filippo, in parte da sé e senza altro impulso che l’ardore di spirito del loro fondatore. Libertà nell’ordine ne fu sempre la caratteristica, e tale rimane. Nel 1575 il papa concesse a padre Filippo, per sé e per i suoi, la chiesetta di Santa  Maria in Vallicella. Dopo essersi adoperato presso il papa perché non succedesse uno scisma con la Francia, Filippo morì alla fine del maggio 1595.

 

L’attività di Filippo non si era circoscritta al solo ambito oratoniano. Anche nei più alti ceti della Chiesa egli aveva portato il suo fecondo influsso. Consigliere di papi, da Pio IV a Gregorio XIV, a Clemente VIII; amico o direttore spirituale di personalità come quelle dei cardinali Carlo e Federico Borromeo, Cusano. Confessore o ispiratore di tutta una schiera di laici, dai nobili come Altieri, Barberini, a cortigiani come il Tassoni, ad artisti come il. Palestrina, l’Allegri, la sua opera si era estesa ad una folla di artigiani e popolani, umili ignoti, ma ugualmente ricchi di virtù. Venendo ad esaminare i caratteri dell’ascetica di Filippo ci sembra che si possano sinteticamente riassumere in quattro fondamentali elementi: singolare tenerezza verso il prossimo, prevalenza delle mortificazioni spirituali su quelle corporali, allegrezza di spirito sia come mezzo sia come effetto, ricerca e pratica della semplicità evangelica. Con la tenera carità, di cui fu esempio insigne durante i suoi cinquant’anni di apostolato, Filippo ottenne non solo di accostarsi ad ogni sorta di persone, ma soprattutto, facendo loro praticare questa virtù basilare, dette un efficacissimo colpo al trionfale egoismo. Per mezzo poi della pratica della mortificazione interiore, di cui resta uno dei più grandi maestri della storia della Chiesa, trovò il modo spesso attraverso espedienti bizzarri di combattere il pericolo della vanagloria, fonte di tanti mali. L’allegria o letizia serena e serenatrice costituì un elemento fondamentale del suo vivace carattere e venne indirizzata fecondamente nel senso di potenziare le energie positive della psiche umana ed ottenere un efficace controveleno a tante insidiose tentazioni. La semplicità è forse l’elemento che sgorga più spontaneo dalla personalità del santo che la sentì dote necessaria di fronte a tutte le artificiosità esteriori del mondo. La spiritualità pura e semplice del Vangelo sgorga così naturale dalle sue labbra che chi lo ascolta ne sente un fascino irresistibile ed egli la veste con certi suoi modi particolari. E’ solito dire: “Passi questo giorno e non mi fa paura il domani”, cioè bisogna vivere la propria vita quotidiana senza preoccupazioni di un avvenire che sta nelle mani di Dio. Se così praticava per sé una sentita mortificazione, ne fu pure maestro agli altri ed in ciò fu inesauribile nella bizzarria delle forme. Quello che preoccupava Filippo era la cosiddetta scienza “ghiacciata” che inebria le menti favorendo l’orgoglio e le conseguenti deviazioni ideologiche, per cui era solito far il gesto di portar la mano alla fronte stendendovi tre dita dicendo: “La santità sta in tre dita di spazio”, significando la necessita di mortificare l’intelletto o, come allora si diceva, la logica razionale. Confessore illuminato e soprattutto uomo di spirito, S. Filippo fu anche un educatore avveduto pur senza tracciare programmi prestabiliti o istituire una scuola. L’atmosfera spirituale che seppe creare nei più diversi ceti che gli si accostavano, agiva sulle coscienze e sulle intelligenze avviandole a un ideale di libertà nell’ordine, che eleva, purifica e dà gioia all’anima. Amò vivere in società e fu osservante dell’ordine del vivere sociale, rendendo gli altri consapevoli dei propri doveri nella vita di relazione. Ma la libertà in cui lasciò i giovani, mentre diede loro modo di essere spontanei e sinceri, offrì all’educatore sapiente la possibilità di conoscerli, per guidarli con dolcezza e forza di persuasione. Non per nulla fu detto di lui che seppe farsi “coi fanciulli fanciullo, sapientemente”. Tutto sta in quell’avverbio; non facile ad attuarsi, ma per lui connaturale, perché amò e praticò sempre la semplicità. Dote difficile, ma pur così utile per la comunicatività fra gli spiriti. Altro elemento che è rimasto famoso e l’ha fatto addirittura definire “il santo della gioia”, è quello spirito di letizia, che egli dimostrò spontaneamente sempre e comunicò agli altri, con quella influenza, che porta in sé il bene, come purtroppo anche il male; il classico “Servite il Signore nella gioia” fu per lui vita della vita e a questa norma molti si ispirarono trovando in tale clima la forza di purificazione e di superamento di sé. La sua scuola divenne così attraente, perché gradita. Altro elemento guida dell’opera educatrice di S. Filippo fu pure un profondo buon senso. Basterebbe considerare quel celebre suo detto, che rivolgeva tante volte ai ragazzi, dinanzi alle loro esuberanze: “State buoni, se potete”. Un invito dolce ma anche impegnativo ad autoeducarsi, a valorizzare le proprie energie, ad aver fiducia in se. E, d’altro lato, una comprensione larga delle deficienze della natura. Senza tante conoscenze di fisiologia o psicologia, S. Filippo arrivò a penetrare l’animo umano e ne dedusse la non imputabilità, parziale o totale, di tanti atteggiamenti, donde una larghezza di tolleranza; unico limite invalicabile: il peccato, il disordine. Ed ecco l’altrettanto celebre norma: “State allegri, ma non fate peccati”. Impulso libero, anche scapigliato, chiassoso, rumoroso, ma non disordinato, non pericoloso, non dannoso. La gioia sana è purificatrice, dunque costruttiva, e va assecondata.  Di riflesso quindi ecco la lotta contro la tristezza, l’isolamento, il mutismo. Ed ecco l’atteggiamento umano, comprensivo, dolce nell’accostare il prossimo, nel cercare di convincerlo, di attirarlo verso l’ideale, di ridonargli forza per ascendere interiormente. E a fianco di ciò, il naturale spirito umoristico. Non per niente Filippo era fiorentino: l’osservazione bizzarra, il paradosso, l’espressione grottesca, l’osservazione dell’abnorme gli balzavano irrefrenabili. Donde un elemento di critica che rimetteva i valori e i fenomeni nelle giuste proporzioni. Così la sua funzione pedagogica, partendo dai presupposti umani assurgeva alle vette dell’ascesi, additate senza pressioni e senza esagerazioni. Da questo atteggiamento deriva la sua scuola, se così può dirsi, ascetica. Anche in questo campo, niente schemi prefabbricati, ma la soluzione caso per caso, sulla base degli elementi già detti: semplicità, buon senso, letizia. Quindi niente penitenze clamorose, niente esteriorità. Egli stesso fu visto spesso pregare o in piedi o seduto. Non cilici o digiuni emacianti, ma invece uno spirito profondo di penitenza, tutta interiore, per mortificare la superbia più che il corpo. Poiché dall’intimo procede ogni atteggiamento esterno e, resa migliore l’anima e la sua vita, anche il costume ne poteva risentire irresistibilmente. Riforma dall’interno, senza clamori, ma con costanza, con generosità. Conseguenza quindi necessaria: l’unione sempre più confidente, amorosa, intima con Dio. Ed anche questo senza vie particolari, devozioni speciali, ma la via regia della pura spiritualità che ci offre la teologia e la liturgia: Dio, il Cristo, la Vergine, i Santi. Ed ecco la sua devozione eucaristica, l’amore filiale verso la Madonna, il culto dei martiri, l’affetto alla Chiesa, nella sua vita interiore e nella sua manifestazione alla preghiera, lo studio dell’ascetica, della storia, dell’archeologia e dell’arte più spirituale, la musica. Sempre tutto in semplicità, chiarezza, spontaneità.

 

SAN FILIPPO NERI IN ANEDDOTI

 

L’ALBERO GENEALOGICO

Un giorno viene mostrato a Filippo l’albero genealogico dei Neri. Tutti conoscono l’usanza mondana di vantarsi dei propri natali, di ringalluzzirsi quando si può far vedere agli altri che i propri avi erano delle persone nobili, dei principi o dei re. Per questo motivo vi sono tanti che conservano in un quadro con raffigurato un albero, o in una pergamena ben pitturata, tutti i nomi dei propri antenati che pendono dai rami o dal tronco. una vanità perdonabile ma insulsa, perché le origini degli uomini sono uguali per tutti: tutti siamo figli di uno stesso Padre e quindi tutti abbiamo una grandissima nobiltà, una nobiltà divina: davanti a questa nobiltà, tutte le grandezze umane scompaiono. Ben lo sapeva il giovane Filippo, il quale dopo avere sogguardato la pergamena con un tono di compassione, la fece delicatamente a pezzi dicendo allegramente: Val  meglio essere iscritti nel libro della vita.

 

« EHI, FRATONZOLO!... »

Si trovavano ogni sera in via dei Banchi, oltre ponte Sant’Angelo, dei giovani che giocavano accanitamente all’innocente e bambinesco giuoco della piastrella. Avevano però il brutto vizio di condire il loro divertimento con le grida più chiassose e invereconde intercalandole con non poche orribili bestemmie. Filippo andava spesso in via dei Banchi, e appena quei giovinastri lo scorgevano gli gridavano dietro: — Ehi, fra Filippo! Ehi, fratonzolo, vieni un po’ qui a giocare con noi!... Lo chiamavano frate o fratonzolo perché da un po’ di tempo Filippo aveva preso a portare una specie di tunica col cappuccio, come i mistici eremiti abruzzesi giunti a Roma col nome di Cappuccini; e come loro nel cappuccio aveva sempre un po’ di pane e un libro di preghiere. Fate largo! Fate largo all’eremita! Date il passo all’uomo di Dio! Gridavano scherzosamente i giovani. Filippo sorridendo amorevolmente, e non risparmiandosi qualche volta di rispondere loro per le rime da vero e buon fiorentino qual era, si tirava su le maniche della tonaca e lanciava la sua brava piastrella diritta al segno, quasi senza fallire un colpo, come quando giocava in riva all’Arno da ragazzino. Allora tutti d’intorno l’acclamavano: — Bene! Bravo! Viva! E la gente che passava si fermava a guardare, meravigliata che un eremita non si peritasse di far lega con degli scioperati, riconosciuti come i peggiori soggetti di Roma. Ma lo strambo e giocondo eremita, quando vedeva che i curiosi erano cresciuti abbastanza, gettava via la piastrella e, fermandosi sul più bello del giuoco, esclamava, fattosi d’un tratto serio e ispirato:— Fratelli, cari fratelli, tutti qua! Vi voglio dire qualcosa di importante, di cui dovete rimanere contenti. Vi voglio dire che Iddio chiede del bene anche da voi. Morì in croce per tutti, il Signore; anche per voi che non vi vergognate di bestemmiarlo, di ingannarlo, di tradirlo, di crocifiggerlo ancora e sempre, il Signore! Le sue chiese sono deserte e abbandonate. La sua casa vi aspetta, cari fratelli. Andate nella Casa del Signore, sia pur soltanto alla festa, ma andatevi. E soprattutto siate buoni e puri. State allegri quanto o come vi pare: ridete, scherzate, giocate pure alla piastrella, ma non peccate, o fratelli!. Quei giovani scapestrati e tutti quanti si erano fermati a far circolo, se ne stavano quieti e tutto orecchie a sentirlo. E quando, venuta la notte se ne tornavano a casa, vi giungevano con quelle buone parole nelle orecchie e poco alla volta divenivano migliori.

 

CEFFONI

San Filippo Neri spesso si sentiva in dovere di schiaffeggiare i prepotenti. "Questo ceffone non è per te - si scusava - è per il diavolo che sta dentro di te". Una volta osò dare uno schiaffo ad un delinquente che era il terrore del quartiere. Questi risentito si avvicinò al santo per colpirlo, ma non fece in tempo perché Filippo, pronto, gli appioppò un secondo sono ceffone. "Questo, gli disse non è per il diavolo, è proprio per te"

 

PECCARE COL NASO

Una parrocchiana di Roma, nota in tutto il circondario per la sua curiosità, andò a confessarsi da Filippo Neri. Quando ebbe terminato, manifestò al sacerdote una sua perplessità: "Io capisco come si possa peccare con le mani, con gli occhi, con la bocca.. Ma come si fa a peccare con il naso?" Dall'altra parte della grata gli venne pronta la risposta: "Ficcandolo negli affari degli altri".

 

TOGLIETEMI LE SCARPE

San Filippo Neri considerava l'umiltà la prima virtù di un Santo. C'era ai suoi tempi una religiosa di cui tutti parlavano poiché si diceva avesse estasi e rivelazioni. Un giorno il Papa manda proprio Filippo in quel convento per rendersi conto della santità di questa suora. Il tempo si mette al brutto. La pioggia vene giù come Dio la manda… Filippo arriva al convento infangato fino alle ginocchia. Chiede subito della suora, ed eccola che arriva… seria seria, compunta, tutta annegata in Dio. Il santo siede tende le gambe e dice alla suora: "Toglietemi le scarpe!". Al che la suora s'impenna, alza il mento, resta immota. Padre Filippo non chiede nulla. Ne sa già abbastanza. Si riprende il cappello, e torna dal Papa a riferire che, secondo lui, una persona così altezzosa non poteva essere una santa.

 

MINISTRI DEL PERDONO INCONDIZIONATO DI GESU'

Ad una donna, che si credeva dannata per i suoi numerosi e gravi peccati, San Filippo Neri, dopo averla confessata, disse: Il Paradiso è vostro! Quella, incredula, rispose: E' impossibile, padre. Voi mi prendete in giro, perché sapete che sono una grande peccatrice. Ascoltatemi, allora; riprese il santo; ditemi se non ho ragione. Durante la sua vita, chi è stato maggiormente amato da Gesù? I peccatori! Per chi è morto Gesù? Per i peccatori!

E ora, cosa siete voi? Una grande peccatrice! E allora, conclude il santo, se Gesù ha amato moltissimo i peccatori, fino a morire per loro, e voi siete pentita, il Paradiso è certamente vostro, perché Dio vi ama moltissimo; “perché in cielo si fa grande festa, quando un peccatore si converte”! (Lc. 15,10).

 

LA SCALATA

Un giovane sacerdote confidò un giorno a San Filippo Neri:"Qui a Roma è facile a molte persone fare fortuna. Spero anch'io di ave buona sorte, e di ottenere, prima o poi, uno zucchetto da Monsignore" "Ve lo auguro di tutto cuore" rispose il santo, ma poi, giunto a quel punto, quali sarebbero le vostre aspirazioni?" "Vi dirò in confidenza che , dopo lo zucchetto di monsignore, spero di ottenere l'anello di Vescovo". "Benissimo, e poi che cosa intendete fare?" "Sapete come va il mondo: una volta Vescovo, non dispero di ricevere il rosso cappello cardinalizio. E poi…via!.. Sapete bene che è tra i Cardinali che viene scelto il nuovo papa::: e la fortuna, a volte, fa certi scherzi!" "E poi?" "E poi! Ma sapete che mi fate ridere con questo: 'E poi?' Vi sembra cosa da nulla essere Sommo Pontefice, capo di tutta la cristianità? Allora sarebbe il momento di godersi finalmente la vita e rallegrarsi del destino glorioso che ci è stato riservato." "E poi?" "E poi basta. Che cosa volete di più?" "Ve lo dirò io." Fece il santo curvandosi all'orecchio del prete ambizioso. E così facendo disse tre volte, con voce tagliente: "E poi morire; e poi morire; e poi morire!"

 

MALDICENZA

Un giorno a Roma andò a confessarsi da San Filippo Neri una donna molto pia, ma facile alla maldicenza e perfino alla calunnia. Il santo ascoltò pazientemente la penitente, poi le disse:"Come penitenza, prenderai una gallina, percorrerai le vie principali di Roma, strappandole lentamente le piume, che getterai al vento. Poi ritorna da me"

La donna ubbidì. Al suo ritorno il santo aggiunse:"La penitenza non è ancora finita. Ora devi rifare le strade percorse e raccogliere tutte le piume che hai seminato!" "Ma è impossibile!" San Filippo, allora, seriamente concluse:"Così e della maldicenza, dei pettegolezzi e delle calunnie. Facilmente si disperdono ovunque e la riparazione troppo spesso è impossibile.

 

SACRAMENTI E IMPEGNO

San Filippo Neri «dirigeva spiritualmente un giovane che, malgrado un certo sforzo, non riusciva a vivere castamente. Le sue cadute si trascinavano da tempo ed egli, persa ogni fiducia in se stesso e lasciati i sacramenti, era prossimo alla disperazione. Allora il Santo gli comandò una cura straordinaria: per almeno una quindicina di giorni di seguito, il giovane doveva accostarsi alla Comunione, a costo di confessarsi ogni mattino, se fosse ancora caduto in peccato. L’impegno di ricevere il Signore quotidianamente, costi quello che costi, ottenne il risultato sperato, e dopo aver imparato ad amare maggiormente Gesù Eucaristia, si fece sacerdote...».

 

I CONSIGLI DI S. FILIPPO NERI

L’allegro S. Filippo Neri, tra gli altri, dava ai suoi ragazzi questi consigli:

— Scrupoli e melanconia, fuori di casa mia!

— Il paradiso non è per i poltroni.

— Voglio amarvi, Gesù mio, fin che fate il voler mio?

— Vi ringrazio, Signore, Gesù mio, se le cose non vanno a modo mio.

— L’unica regola è... essere senza regole.

— Le tentazioni contro la purezza si vincono.., fuggendo.

— State allegri, ma non fate peccati.

— State buoni, se potete.

— L’importante è che siamo santi!

 

CONFIDO IN DIO

S. Filippo Neri, camminando un giorno per le vie di Roma, andava dicendo: Sono disperato! Sono disperato!

Un certo religioso, quasi scandalizzato, lo corresse; ma il santo allora disse: Padre mio, sono disperato di me, ma confido in Dio!

 

CHIEDERE PER ALTRI

Filippo Neri, detto Pippo buono, era un prete fiorentino, che molti anni fa viveva a Roma. A quei tempi c’erano pochissimi signori molto ricchi e moltissimi poveri. Filippo Neri passò tutta la sua vita a cercare di aiutare questi poveri e per questo, quando morì fu fatto Santo. Un giorno vide passare un ricco signore: Signore, disse c’è una famiglia che muore di fame. Dategli di che sfamare quei poveretti. Il signore non gli rispose: anzi, gli diede una spinta per mandarlo via. Ma Filippo non si scoraggiò per così poco e continuò a ripetere le sue richieste. Alla fine quel signore, spazientito, si girò e diede un formidabile schiaffo al buon prete. Lì per li, Filippo si sentì venire la voglia di rispondere con un altro schiaffone, ma poi dominandosi disse: Questo schiaffo è per me, e io lo accetto: ma ora per piacere, datemi qualcosa per quella povera famiglia.

 

VOGLIO PREGARE PER TE!

Prospero Crivelli era cassiere del banco dei Cavalcanti e di altri banchi fra i più ricchi e i più conosciuti che ci fossero. Maneggiava quindi denari in quantità e aveva finito con l’accondiscendere a tutte quelle tentazioni che il denaro porta con sé come il serpente il veleno. Da banchiere si era fatto usuraio e per giunta più vizioso e licenzioso di Roma. Una sola buona abitudine aveva conservato, quella di andarsi a confessare ogni tanto. Forse spinto dal rimorso più probabilmente anche solo dalla nausea e da schifo che provava di se stesso quando le illusioni del piacere erano passate, andava a confessarsi da Padre Polanco, un padre della Compagnia di Gesù nella speranza di ripulirsi un po’ l’anima e il corpo. Ma il confessore, avendo visto dopo un bel numero di confessioni, che nonostante tutte le sue  severe ed aspre esortazioni, il penitente non dava l’ assicurazione necessaria per tenersi lontano dalle occasioni e continuava nelle ricadute, gli negò l’assoluzione. Il Crivelli si trovò d’un tratto tutto solo, senza sostegno, senza difesa contro il rimorso che lo divorava e la sete di peccato che non gli dava requie. Aveva sentito parlare di Filippo come d’un santo e si decise d’andare da lui. Dopo avergli esposto il suo stato pietoso, lo pregò con le lacrime agli occhi che gli impetrasse da Dio la grazia di essere finalmente liberato da una certa occasione mondana, per la quale non aveva potuto obbedire al confessore. Diceva tra i più forti singhiozzi: Fino ad ora non mi è riuscito di avere questa volontà nonostante le prove e le riprove fatte. Soltanto Dio me la può dare per le tue preghiere. Tu che sei accetto più di ogni altro al cielo, usami questa carità, te ne scongiuro; vieni in mio soccorso in tanta miseria, in cui certo morirò, se non m’aiuti. Filippo ne fu commosso grandemente e glielo dimostrò. Vide in quel peccatore disperato l’infelicità più che la colpa, e si mostrò dolce e benigno con lui. Lo guardò coi suoi occhi ineffabili, a lungo, poi gli disse parole così tenere, piene di affetto, di carità e di amore di Dio che egli stesso piangeva, confuso come in una sola anima col Crivelli, il quale se ne stava a mirarlo inginocchiato come davanti a un santo. Va’ pure, disse alla fine Filippo: voglio pregare per te, amico. E pregherò, pregherò tanto che ti distaccherai senz’altro da questa occasione e non peccherai più. Fu vero. L’assoluta fiducia nella preghiera, la ferma certezza nell’aiuto impetrato presso Dio da Filippo, ottennero che il Crivelli abbandonasse in breve ogni sua cattiva pratica. Tornato a confessarsi da Padre Polanco, ne ebbe l’assoluzione. Quando poi Filippo fu sacerdote, il Crivelli gli chiese ed ottenne di divenire suo penitente e fece tali progressi arricchendosi talmente di virtù e di cristiana carità che Filippo lo portava come esempio a quelli stessi per i quali era stato fino allora motivo di scandalo.

 

LA CURIOSA CACCIA AI PECCATORI

Filippo non attirava a sé solo i giovani. La sua affabilità era tale in lui che, come afferma il Cardinal Cusano, «ogni sorta di persone erano attratte dalla sua conversazione di maniera che non si potevano staccare più, tanto i giovani, i bimbi, quanto i vecchi, sia donne, sia uomini, sia di basso che di alto grado». Ancor più caratteristici che non con i giovani erano i modi di trattare coi Peccatori. Li accarezzava, li baciava in volto, imponeva loro le mani sul capo, li abbracciava. Alle volte se li serrava con impeto tra le braccia e singhiozzando esclamava: «Chissà quanto avrai sofferto nel peccare», e così mostrava delicatamente quanta compassione provasse per il loro pietoso stato. Alle volte passava al rimprovero ma con un fare nel quale non si sarebbe potuto distinguere il serio dal faceto, per cui i penitenti ne rimanevano altamente impressionati. Quando udiva certi grossi peccati, esclamava: Bene, bravo, bravissimo... Non ti credevo così perspicace... Continua pure, balordo!... Non sempre puoi avere occasioni così belle per andare diritto all’inferno... Faresti così bella compagnia al diavolo!

 

COL TEMPO E CON LA PAGLIA...

Giovanni Tommaso Arena, un giovane proveniente da Catanzaro, era uno schernitore di mestiere, un vero maleducato come ce ne sono ancora oggidì, purtroppo. Costui, appena scoperto quello che si faceva all'oratorio di San Filippo, aveva preso ad andarvi assiduamente, ma non con le più belle intenzioni: entrava e usciva liberamente cercando di attirare l’attenzione per distrarre gli altri; durante i pii esercizi, le letture o i sermoni commentava con mormorazione o sghignazzi; canzonava questo o quello, zufolava. Faceva insomma quello che voleva in modo scandaloso. Tutti erano stufi di vedersi quel vagabondo tra i piedi: Noi, padre, non possiamo più sopportarlo dicevano. La risposta di Filippo era invariabilmente questa: Abbiate un po’ di pazienza e vedrete.

L’Arena intanto continuava il suo andirivieni e le sue canzonature; rifaceva i versi degli oratori aggiungendovi la caricatura. Pazientate e non dubitate... interveniva allora Padre Filippo per calmare gli animi. E infatti l’Arena a un certo punto incominciò a stancarsi del giuoco, non solo, ma si accorse che si era affezionato a quel ritrovo. Gli pareva così bello quel raduno pomeridiano e anche quello che andavano dicendo i vari oratori su Dio e i Santi: tutto lasciava un certo godimento interno che non sapeva descrivere. E poi quel Padre Filippo sempre cosi amabile! Incominciò a darsi un contegno e a tacere. Voleva assaporare intimamente il dolce di quell’armonia fraterna; quando parlavano il Tarugi e il Baronio, gli oratori che più si distinguevano, chiudeva perfino gli occhi. Li chiudeva perché era l’anima che doveva vibrare in quei momenti: sembrava che stesse ascoltando una musica. Ogni giorno che passava si notava il cambiamento profondo del giovane e un giorno giunse a un totale capovolgimento. Si dette tutto nella mani di Filippo e diventò tanto fervente che, per consiglio stesso del Santo vestì la gloriosa divisa di San Domenico rinchiudendosi nel convento dei Domenicani, dove mori durante il noviziato, santamente.

 

LO SCHERZO DEI DUE CERI

Anche oggi, tra quelli che sono soliti fare la Comunione nei giorni feriali, ve ne sono che si lasciano prendere dalla fretta. Non sono ancora entrati in Chiesa e sono già alla balaustra; non hanno ancora ingerito la Sacra Particola e stanno già uscendo di Chiesa. Adducano varie scuse: hanno tanto da fare, sono già in ritardo per recarsi al lavoro; e non pensano che potrebbero rimediare alzandosi anche solo dieci minuti prima e avrebbero il tempo non solo per fare la Santa Comunione, ma soprattutto per farla con un minimo di devozione. San Filippo aveva notato nella sua Chiesa che un signore faceva proprio così: appena ricevuta la Comunione si alzava dalla balaustra e usciva difilato dalla Chiesa come se la terra gli scottasse sotto i piedi. Un giorno decise di dargli una piccola lezione ricorrendo ad un astuto scherzo. Chiamò due chierichetti e diede a ciascuno di loro una candela accesa con questo incarico: Tenete d’occhio quel signore. Appena si allontanerà dalla balaustra per uscire di chiesa, voi vi metterete al suo fianco e lo inseguirete fino a quando non ritorni indietro. Poco dopo quell’uomo, come al solito, si alza dal banco, si accosta alla sacra mensa e poi, via difilato. I due chierichetti subito gli si mettono al fianco e lo accompagnano svelti. L’uomo lì per lì si stupì, poi si indignò, credendosi burlato e minacciò di passare a vie di fatto se quei due non se ne andavano. Ma i due accoliti col loro cero acceso continuarono a stargli accanto imperterriti. Solo dopo un po’ gli spiegarono la faccenda: era Filippo che li mandava. Aggiunsero che dovevano, come prescrive la liturgia, tenergli i due ceri accesi al fianco perché egli aveva appena ricevuto l’Ostia consacrata e quindi il Signore era ancora realmente presente in lui sotto le specie eucaristiche. L’uomo comprese allora la morale dello scherzo e si decise di tornare in chiesa dove Filippo l’attendeva con il suo sguardo bonario e malizioso.

 

OGNI COSA A SUO TEMPO

Un discepolo del Santo, un certo Salviati, aveva avuto il compito da Filippo di attendere un po’ agli ammalati dell’ospedale e servirli amorosamente. Questo Salviati qualche volta, credendo di fare cosa migliore se la svignava per andare a passare qualche ora davanti al Santissimo Sacramento nella Chiesa del Santo Spirito. Ma un giorno San Filippo se ne accorse. Era entrato anche lui nella stessa Chiesa quando scorse il Salviati immerso completamente nella preghiera. Ora ci penso io, si disse. Chiamò un altro discepolo e gli ordinò: Prendi questo grembiale, accostati piano piano al Salviati e, senza che se ne accorga, levagli il mantello e mettigli addosso questo cencio. L’ordine fu eseguito e riuscì a perfezione. Il Salviati era cosi assorto nella preghiera che non si accorse di nulla se non al punto di uscire. In quel momento stesso anche Padre Filippo fece sentire la sua presenza. Si avvicinò al discepolo, lo complimentò per la sua bella divisa e gli disse che quel grembiale stava molto meglio se lo usava in ospedale, anziché in Chiesa e che quel tempo era meglio speso se lo dedicava all’assistenza dei malati.

 

UNA PROVA SINGOLARE DELLA VOCAZIONE

Un giorno gli si presentò un giovane patrizio chiedendo di poter entrare a far parte dei preti dell’Oratorio. Il Santo gli rivolse alcune domande, e, avendo capito che non era stoffa da prete perché pieno di spirito mondano e orgoglioso, lo volle mettere alla prova. Andò in camera, tirò fuori una coda di volpe e la porse al giovane dicendo:

Prendi questa coda, attaccala dietro le tue vesti e fa un giretto per le strade di Roma mantenendo un contegno serio. Il giovane si mostrò offeso e scattò a dire: Non sono venuto a cercare una vergogna, o per fare delle pazzie! Ebbene, gli disse allora Filippo, la vita religiosa non è per. te. Sappi che qui non c’è da aspettarsi onori o ricchezze, ma rinunce e mortificazioni. Un’altra volta andarono da lui per visitarlo due cappuccini, uno giovane e uno vecchio. Filippo diede loro un’occhiata e gli sembrò che il giovane avesse più spirito religioso che il vecchio. Volle farne la prova usando anche qui i suoi metodi, studiando il modo di umiliare il giovane. L’occasione gli venne offerta quasi subito. Il frate giovane sputò a terra davanti a Filippo senza alcun riguardo. Filippo allora ostentò un impeto di collera e con finto sdegno proruppe in una solenne ramanzina: Che educazione è questa! Fila via di qui!  E così dicendo minacciava di percuoterlo sulla testa con una delle ciabatte che s’era tolto dai piedi. Il malcapitato non si scompose per nulla, mentre il confratello più anziano era già tutto turbato. E Filippo continuava: Levati di dosso quel mantello da religioso che non sei degno di portarlo... Il fraticello, allora, lietamente e per nulla offeso, rispose: Padre, ha ragione, andrò volentieri senza mantello non solo perché non sono degno di portarlo, ma anche... perché non ho freddo... e poi. perché stamattina ho mangiato molto... Padre Filippo non se ne dette per inteso; aggiunse altre aspre parole e alla fine senza alcun segno di cortesia licenziò i due frati. Ma appena quelli furono giunti in fondo alle scale, li fece richiamare. Andò incontro al giovane che aveva così bistrattato e con il contegno più affabile di questo mondo, lo abbracciò, gli fece mille cortesie, e congedandolo gli disse: Figliuolo, persevera in con  questa tua allegrezza, perché questa è la vera via per trarre profitto nella virtù.

 

BIZZARRIE

Le bizzarrie e le stranezze, compiute da San Filippo, durante la sua vita, specialmente nel periodo in cui era più in auge, furono tali e tante che verrebbe la voglia di non credervi se non ci fossero le testimonianze del Processo di Canonizzazione e soprattutto se non si sapesse che il fare stranezze entrava nelle regole di vita del nostro Santo. Era il principale studio di San Filippo quello di farsi credere un buono a nulla, un buffone, uno scemo. Per questo si metteva a saltare, ballare e sgambettare per le vie e per le piazze. Usciva con la veste alla rovescia infilando nei piedi certe scarpe bianche e larghe che sembravano fatte per il carnevale. Riceveva gente in camera sua, anche principi e cardinali, con una berretta bianca in testa, e una camiciola rossa che gli arrivava ai piedi. Non garbava poi per niente i segni di rispetto o di onore. Quando, andando in chiesa, uomini o donne gli si accostavano per toccargli le vesti o si inginocchiavano dinanzi per averne la benedizione, egli si metteva a tirare le orecchie o i capelli, distribuiva scappellotti, posava gli occhiali sul naso dell’uno o dell’altro. Ad Anna Borromeo, la sorella del Cardinale, che gli chiedeva la benedizione sulla pubblica via stando inginocchiata per terra davanti a lui, egli posò la sua mano sul capo in atto di benedirla, ma poi con una mossa svelta le scompigliò tutti i capelli. Nella festa di San Pietro in Vincoli, nella piazza davanti alla Chiesa patronale, affollatissima di gente, egli si mise a saltare come un ragazzo. Guarda quel vecchio matto, disse qualcuno. Quando Filippo sentiva di queste frasi, allora era contento.

 

NON GLI ANDAVA CHE LA GENTE AVESSE A STIMARLO, PER QUESTO COMBINAVA SEMPRE STRAVAGANZE.

Quando andava a visitarlo gente illustre, che tuttavia lo conosceva solo per fama era proprio quando le combinava più grosse: si mostrava con la gatta o col cagnolino in braccio, si vestiva con vesti preistoriche o alla rovescia e non tralasciava mai di fare qualche balletto. E’ rimasta famosa la visita fattagli da alcuni principi polacchi mandati da Papa Clemente VIII. Filippo, avvertito a tempo, disse al suo aiutante di quei giorni, il padre Pietro Consolini, di prendere  il libro delle  “Facezie dell’Arlotto” e di mettersi a leggerle a voce alta. Giunti quei principi nella sua stanza, egli senza tante cerimonie, disse loro: Aspettate che si finisca questa favola. E mentre il Consolini leggeva, ammiccando ai Polacchi, diceva loro: Vedete bene, signori, che tengo anch’io dei buoni libri.

E al Padre Consolini: Più adagio, padre; ripetete quel passo, non l’ho capito bene. Quei principi allora si seccarono alquanto della cosa e se ne andarono con molte scuse ma convinti di essere andati a trovare un matto. Filippo, con una fregatina di mani, faceva riporre a posto il libro delle «Facezie», concludendo: Abbiamo fatto quello che bisognava.

 

«PARADISO! PARADISO!»

Sulpizia Sirleti, una penitente di san Filippo, assistendo un giorno ad una Messa del Santo, lo vide all’improvviso alzarsi da terra circa un palmo e rimanere sospeso in quella posizione. Stupita e per nulla convinta che si trattasse di un fatto miracoloso e soprannaturale, pensò dentro di sé che si trattasse di un intervento diabolico.

«Questo padre deve essere spiritato», si disse. Ma quasi subito si riprese e, riflettendo sul suo atto, incominciò a vergognarsi di aver avuto un pensiero così irriverente e decise di andarsi a confessare. Ella stessa ci ha lasciato la descrizione della scena avvenuta al confessionale, e la trascriviamo perché è molto gustosa. “Cominciai  racconta Sulpizia Sirleti, a dire a mezza bocca: Padre, ho detto... e poi mi vergognavo a seguitare; allora il beato Filippo mi disse: Balorda, hai mormorato di me, è vero? Ed io risposi: Padre, sì. Ed il beato Filippo disse: Di’ su, che cosa hai detto? Ed io dissi: Padre vi ho veduto alto da terra mentre dicevate la Messa. Ed il beato Filippo rispose subito: Sta’ cheta, mettendosi la mano alla bocca. Ed io dissi che avevo detto nel cuor mio: Ahimè, deve essere spiritato questo padre. Allora il beato Filippo fece un volto sorridente e mi disse: E’ vero, è vero. sì che son spiritato, si che sono spiritato...  Così era Filippo. Se veniva a sapere che qualcuno pensava male di lui gli dava piena ragione. Guai invece a lodarlo. Anche quando guariva ammalati con un suo comando o con l’uso di reliquie di Santi e gli altri lo esaltavano, egli se ne lagnava con queste espressioni: Sono un uomo come gli altri. Vogliono anche dire che io faccio miracoli. Ho pregato di continuo il Signore che non operasse miracoli per mezzo mio. Però se ve n’è stati alcuni, si devono attribuire, dopo Dio, non certo a me, ma alla fede di coloro che li hanno ricevuti. Con questi sentimenti di umiltà è chiaro che non volesse sentire parlare di onorificenze. Ma con la fama che godeva ovunque e soprattutto con le amicizie che si era acquistato, anche senza ricercarle, nelle alte sfere ecclesiastiche, le proposte per le massime onorificenze non potevano mancare. Ecco, ad esempio, come venne proposto per il cardinalato. Il Cardinale Ippolito Aldobrandini aveva preso un gusto matto alla compagnia di San Filippo e tutte le volte che i suoi impegni lo permettevano, correva nella stanza del Santo a passare un po’ di tempo in serenità con la più completa familiarità. Pensate se questo Cardinale non faceva insistenze perché l’opera di San Filippo, già riconosciuto come l’apostolo di Roma, avesse un premio, fosse pur solo un titolo onorifico! Difatti, appena eletto Papa, alla prima udienza concessa a San Filippo, gli disse subito: Ora sì che non potrete sfuggire al Cardinalato! Filippo, che non aveva mai voluto sentir parlare di onori, evitò di rispondere e cercò subito una scusa per congedarsi, temendo che il Pontefice, come già il suo predecessore, volesse insistere su quell’argomento. Non mancarono le temute istanze; ma alla fine il Papa, non volendo affliggere inutilmente il venerando amico, non gliene parlò più, anche se grande era il desiderio di innalzare alla porpora quell’umile prete che avrebbe apportato maggior decoro al Sacro Collegio dei Cardinali. I Padri dell’Oratorio, invece, sembra che accarezzassero la speranza che un giorno o l’altro Filippo avrebbe accettato l’onore per il bene della Congregazione. Ma egli era saldo nella sua rinuncia ed insensibile ad ogni più affettuosa e viva sollecitudine degli amici e dei discepoli. La sera stessa che Clemente VIII gli aveva offerto il cappello cardinalizio, si racconta che venne a trovarlo nella sua camera Bernardino Corona, un gentiluomo del Cardinal Sirleto che ora stava al servizio dell’Oratorio e accudiva alle faccende di cucina. Bernardino, gli disse Filippo sorridendo, il Papa mi vuol far Cardinale. Che te ne pare? Bernardino subito gli rispose che accettasse, che sarebbe stato un grande vantaggio, anche per la Congregazione. Ma Filippo, senza neanche lasciarlo finire, Paradiso! Paradiso!... E buttando in aria la sua berretta, continuò tutto allegro: Paradiso! Paradiso! Paradiso!... Questa spontanea e vivace invocazione all’unica, vera e desiderabile gloria che possa far gola ad un vero cristiano, divenne così celebre fra i discepoli di Filippo da essere da quel momento in poi la loro divisa, il loro motto per vincere ogni voce di vanità o di orgoglio nella vita: « Paradiso! Paradiso!... »

 

IL PRANZO DELLE BEFFE

L’umiltà che Filippo praticava personalmente, voleva che la imparassero anche gli altri, soprattutto i suoi discepoli. Per questo li prendeva di mira con scherzi, burle, umiliazioni di ogni genere. Chi più di tutti ebbe a soffrire le burle di Filippo fu Cesare Baronio, uno dei primi e più noti discepoli, scrittore e storiografo di fama tale che meritò di essere insignito del titolo cardinalizio. Il Baronio era un tipo austero, meditabondo, e ciò non era nello spirito della Congregazione dell’Oratorio e bisognava correggerlo. San Filippo perciò non perdeva mai le buone occasioni per metterlo in ridicolo. Un giorno, sposandosi la figlia di una certa vedova di nome Gabriella da Cortona, della quale Filippo si era preso cura materiale e spirituale, il Santo dovette andare al banchetto di nozze. L’invito di Filippo portava naturalmente l’accompagnamento di un certo numero di discepoli dell’Oratorio, e tra questi non poteva mancare il Baronio. Immaginiamo la scena. Tra tante facce allegre e tante bocche chiacchierone, la faccia del Baronio più che da nozze doveva essere da funerale: sempre serio e in continua meditazione. Filippo lo nota subito e pensa: Ora ti aggiusto io. Ad un certo momento intimò al giovane cogitabondo di alzarsi e di intonare il Miserere. La scena sarebbe stata già di per se stessa esilarante, ma il Miserere cantato in quelle circostanze da quel giovane impacciato, grosso e tutto severo, dovette essere un vero spasso. La beffa del canto era una delle trovate più frequenti. Quante volte il Gallonio, un altro discepolo del Santo, anche lui uomo grave e autorevole, dovette rassegnarsi a cantare delle canzonette popolari dinanzi a prelati, cardinali, grandi personaggi ed anche davanti a monache. A tutti i costi san Filippo voleva edificare i suoi all’umiltà: ma non a quell’umiltà musona che fa paura; a un’umiltà burlona, socievole, che facendoci stare ai piano dei nostri simili, è più facilmente praticabile.

 

LA BURLA DEL VINO

La burla del vino fu anch’essa una burla allegra, anche se poteva concludersi con qualche bastonatura; il Santo la fece più volte al povero Cesare Baronio. Gli comandava di prendere un grosso fiasco di dodici litri e di andare con quella damigiana a comperare una piccola quantità di vino, come ad esempio, un mezzo litro, o, come dicono a Roma, una mezza «fojetta ». Era già una cosa ridicola. Ma il bello doveva ancora venire. Cesare appena giunto nella bottega dell’oste, doveva farsi lavare ben bene il fiascone, poi doveva seguire il venditore in cantina per vedere con i propri occhi da dove spillava il vino e farsene dare un bicchierino di assaggio. C’era, come si vede, da far esercitare la pazienza di qualunque oste; ma non doveva bastare, secondo l’ordine di Filippo. Cesare, quando finalmente era servito, doveva pagare quella mezza « fojetta » con una grossa moneta, magari con uno scudo d’oro, e pretendere che l’oste gli cambiasse quella moneta e gli desse il resto, anche se per questo occorreva non poco tempo e se non sempre il resto era a portata di mano. A questo punto non c’è da meravigliarsi se l’oste perdeva la pazienza e diceva un sacco d’improperie al malcapitato minacciando di rompere il fiasco o magari la testa del preteso villano se non si levava subito dai piedi. Ognuno infatti, trattato così, si riterrebbe beffato e offeso, anche un umile oste. Il Baronio, davanti a questi comandi così chiari e dettagliati, partiva deciso e andava a fare la commissione nel modo più perfetto. La prima volta tutto andò liscio. Filippo lo mandò una seconda volta. L’oste, intanto, aveva capito come stavano le cose e aveva già escogitato il modo di rifarsi della beffa. Appena vide ricomparire il Baronio col medesimo fiasco, gli disse: Da’ qua e seguimi. Prese il fiasco, lo sciacquò, scese in cantina, fece assaggiare il vino al compratore, spillò mezzo litro, tornò in bottega, gli cambiò la moneta d’oro e alla fine tirò fuori di sotto il banco un bastone. Il Baronio si salvò con la fuga immediata e fulminea.

 

IL BAZAR DELLE AMENITÀ

Filippo dava spessissimo dei titoli pungenti al Baronio; lo chiamava per esempio “barbaro” perché veniva dai Colli di Sora nella Ciociaria; oppure “cappellano dei morti” perché il Baronio, quando il rito lo permetteva, celebrava la Messa con i paramenti di color nero. Altre volte il Santo incaricava altri che stuzzicassero il Baronio. Un giorno, mentre si trovavano come al solito parecchie persone, anche di quelle autorevoli, nella camera di San Filippo, egli si alzò a parlare e con tutta serietà ordinò al Baronio di sedere su uno sgabello molto basso. Il Baronio ubbidì come uno scolaretto. Allora san Filippo ordinò all’abate Maffa, un suo penitente, di fare un discorso contro... il reo, Il Baronio infatti, doveva rappresentare il delinquente che era stato colto in flagrante e messo a sedere sullo sgabello dei colpevoli. L’abate Maffa eseguiva l’ordine con eloquenza e non senza acredine, perché si sa che è più facile parlar male della gente, che dirne bene, e poi... si trattava di far piacere al Santo. Cesare riceveva pazientemente quella pioggia di male parole, di accuse, di rimproveri, di note sui suoi difetti, di improperi contro la sua persona e anche contro la sua patria Sora, cosa questa che lo mortificava maggiormente. A questo punto veniva il rovescio della medaglia: San Filippo comandava al Maffa di fare l’elogio del Baronio e alla fine si metteva pure lui a lodare il suo discepolo dicendo che sapeva molto bene scrivere libri, che li scriveva più bene del suo superiore, che sapeva predicare, insegnare il catechismo, e concludeva: “Sappiate però che costui è un barbaro”

 

TENTAZIONE

Filippo fu sempre tra le occasioni maggiori al male. Le sue prime reclute le aveva cercate tra i grandi peccatori, sodomiti e usurai dei banchi. Aveva tuttavia sempre rifuggito l’apostolato tra le peccatrici. Ma anche qui le occasioni non mancarono: anzi appunto perché le rifuggiva, alcune di queste, veri demoni incarnati, quasi reputandosi offese, cercarono tutti i modi di far cadere il Santo con assalti metodici e studiati. Una volta una certa Cesaria era riuscita a tirarlo in casa, fingendo malignamente di volersi convertire. Ma Filippo, giunto sulla stanza di costei, capì presto l’inganno, e senza attendere oltre si diede ad una fuga precipitosa. La donna rimase cosi indispettita che non trovando altro modo per vendicarsi, gli fece volare addosso uno sgabello. Aveva capito che non avrebbe più potuto raggiungerlo diversamente.

 

VISIONI

Filippo era a letto in seguito ad una crisi di renella. Lo assistevano due medici, Angelo da Bagnorea e Rodolfo Silvestro, quando ad un tratto il santo si alza a sedere gridando: Madonna mia benedetta! Madonna mia Santissima! Uno dei medici, scansa le cortine e vede Filippo che si rizza col corpo e si curva con la testa stendendo e ritirando le braccia come se volesse abbracciare qualcuno verso i piedi. Temendo per il male dell’infermo, tenta di calmarlo e si accinge a tenerlo fermo con forza. Filippo lo respinge piangendo e gridando:

Lasciatemi stare, lasciatemi stare! Oh! non volete che abbracci la Benedetta Madre mia che mi viene a visitare? Tornando poco dopo al sentimento della presenza altrui, tutto vergognoso si nasconde singhiozzando sotto le lenzuola.

 

Un’altra estasi rimasta famosa, avvenne nel 1559 quando Papa Paolo IV aveva ordinato di esaminare gli scritti di Fra Girolamo Savonarola. San Filippo, lo sappiamo, era della parte del frate. Così i Domenicani. Tra avversari e partigiani, l’accanimento era al parossismo. Mentre i teologi stavano a discutere, i devoti di fra Girolamo si radunavano in una stanza del Convento della Minerva che era in mano ai Domenicani, e li, davanti al Santissimo Sacramento esposto, pregavano continuamente il Signore che allontanasse dal frate il pericolo della condanna. Fu in una di queste riunioni che Filippo ad un certo punto viene preso da irrigidimento estatico. Lo si vede con gli occhi sbarrati e con una espressione di immensa gioia mentre fissa il Santissimo. Portato in una camera vicina, si attende che rinvenga. Rinviene finalmente dopo lungo tempo tutto lieto e pieno di fervore. Al Superiore del Convento che lo assediava di domande, finisce col far comprendere che aveva visto il Signore in atto di benedire i fedeli, assicurandolo che l’esito della controversia era stato favorevole a fra Girolamo. Di fatto le opere del Savonarola non furono condannate. Solo qualche proposizione fu censurata, ma il nome del frate era salvo.

 

IL TAUMATURGO

Un piccolo ebreo, Agostino Buoncompagni, stava imparando il catechismo sotto la direzione di Filippo, quando all’improvviso si ammalò così gravemente da essere dichiarato in fin di vita. Filippo ne fu contristato perché pensava al male che ne avrebbero detto gli Ebrei se fosse morto, e perché sarebbero state impossibili in seguito altre conversioni di questa gente. Ci pensò un po’ finché decise di non lasciarlo morire: nella sua fede era sicuro che il Signore lo avrebbe salvato. Corse in camera del malato, si chinò su di lui stringendoselo tra le braccia e pregando fervorosamente, mentre con tremiti, ad intervalli, esclamava: Non voglio che costui mora! E non mori, perché dopo pochi momenti fra lo stupore dei medici, era completamente guarito. 

 

Papa Clemente VIII soffriva di violenti attacchi di gotta e durante una di queste crisi andò a visitarlo Filippo. Data la familiarità con cui poteva intrattenersi col Papa, si era avvicinato per accarezzargli la barba. Ma il Pontefice, spaventato per il suo male, lo voleva respingere. Filippo gli disse di lasciar fare a lui, e in così dire gli strinse forte le mani doloranti di gotta. Fu il tocco di salute, perché il Papa si trovò libero da ogni sofferenza.

 

SCHEGGE DAI SUOI PENSIERI CONSIGLI

Fuggite le cattive compagnie. Non nutrite troppo delicatamente il corpo; aborrite l’ozio; pregate molto, siate frequenti ai Sacramenti e particolarmente alla Confessione...

 

UMILTA’

“Chi non è atto a tollerare la perdita dell’onore e della stima propria per Gesù Cristo, costui non farà mai profitto nelle cose dell’anima.”

“Figlioli miei, siate umili e state bassi”

“Se voi fate un’opera buona ed altri l’attribuisce a sé, rallegratevene; poiché se vi si toglie la gloria presso gli uomini, la si ritrova presso Dio 

“Pregate il Signore che, se vi dà qualche virtù o qualche suo dono, vi faccia la grazia di tenerlo nascosto, affinché vi conserviate nella santa umiltà

 

SUPERBIA

“La soverchia tristezza non suole avere d’ordinario altra origine che la superbia”

“Non parlate facilmente e senza ragione di voi stessi, dicendo: Io ho detto, io ho fatto...”

 

MORTIFICAZIONE

“Per imparare a fare orazione, ottimo mezzo è conoscersene indegno; vera preparazione alla preghiera è l’esercitarsi nelle mortificazioni. Il volersi dare alla orazione senza mortificarsi è come se un uccello volesse volare prima di mettere le penne..”.

 

PREGHIERA

“Sii umile e obbediente che lo Spirito Santo ti insegnerà a pregare”.

“Ottimo mezzo per imparare a pregare è il leggere le vite dei Santi, non per mera curiosità, ma posatamente, a poco a poco, fermandosi dove l’anima si sente compungere a devozione”

 

SCRUPOLI

“Non voglio scrupoli, non voglio malinconie!”

“Molte volte suole essere maggiore la colpa che, si commette nell’attristarsi della riprensione, che il peccato. di cui siamo stati ripresi”

 

SOFFERENZA

“Nulla è sì glorioso a un cristiano quanto il patire per Cristo”

“A chi ama veramente Iddio, ciò che può avvenire di più dispiacevole è il non avere occasione di patire per Lui. La maggiore tribolazione del vero servo di Dio è il non avere tribolazione”

“La grandezza dell’amore di Dio si conosce dalla grandezza del desiderio che l’uomo ha di patire per amor suo”

“Non cercate mai di fuggire quella croce che Iddio vi manda, perché di sicuro ne troverete un’altra maggiore”

 

AVARIZIA

“Non farà mai profitto nella virtù chi è in alcun modo posseduto dall’avarizia”

“Chi vuole la roba non avrà mai lo spirito”

“Più facilmente si convertono a Dio i sensuali che gli avari”

“Datemi dieci persone veramente distaccate, e con mi dà l’animo di convertire il mondo”.

“Iddio non mancherà di darvi la roba: ma state avvertiti che quando avrete avuto la roba non vi manchi lo spirito”

 

ALLEGRIA

Lo spirito allegro conquista più facilmente la perfezione cristiana che non lo spirito malinconico.  

Finché siamo pellegrini su questa terra, alla nostra allegria si oppone solo il peccato.

 

CASTITA’

Uno dei mezzi più efficaci per mantenersi casto è quello di aver compassione per chi cade per fragilità.  

 

PREGHIAMO CON LA LITURGIA

O Padre, che glorifichi i tuoi santi e li doni alla Chiesa come modelli di vita evangelica, infondi in noi il tuo Spirito, che infiammò mirabilmente il cuore di san Filippo Neri. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

 

1^ Lettura Fil 4, 4-9

Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!

Parola di Dio

Salmo 102 “Benedetto il Signore, fonte della gioia”

 

Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome.

Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici. R

 

Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie;

salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e di misericordia. R

 

Buono e pietoso è il Signore, lento all'ira e grande nell'amore.

Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono,

perché egli sa di che siamo plasmati. R

 

La grazia del Signore è da sempre, dura in eterno per quanti lo temono;

la sua giustizia per i figli dei figli, per quanti custodiscono la sua alleanza

e ricordano di osservare i suoi precetti. R

 

Vangelo Gv 15, 1-8

Dal vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete gia mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”. Parola del Signore

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