Giustino
nacque nei primi anni del secolo II a Flavia Neapolis (antica Sichem), nella
Siria Palestinese (l’antica Samaria). Suo padre, Prisco, era probabilmente, di
origine latina; la famiglia era pagana. Non sembra che Giustino abbia conosciuto
bene la cultura e la religione samaritana e giudea, perché la vita dei
cittadini di Flavia Neapolis, non offriva molte occasioni di contatto con il
popolo giudaico. Si formò culturalmente in ambiente greco e dai suoi scritti
risulta ch’egli aveva una preparazione molto vasta (conosceva la retorica, la
poesia, la storia e, particolarmente la filosofia).
I problemi filosofici attirarono presto la sua
attenzione. La sua ricerca filosofica della verità guidò Giustino verso
Cristo: egli stesso ci offre una descrizione del suo lungo e difficile
itinerario filosofico verso il Cristianesimo attraverso lo storicismo, la
filosofia peripatetica e quella pitagorica.
Finalmente la filosofia platonica gli offrì una certa
soddisfazione perché orientava la sua vita verso la contemplazione di Dio.
Dopo una breve iniziazione in questo sistema filosofico,
Giustino si ritirò in un luogo solitario, sperando di trovare, nel silenzio e
nella solitudine, la vera felicità e la sapienza. La soluzione però non gli
venne dal platonismo, ma da un misterioso vegliardo, incontrato durante una
passeggiata, il quale gli confidò che la perfetta sapienza non si trova nei
libri dei platonici, ma nei testi dei Profeti, ed è il Cristo che come il Verbo
incarnato offre agli uomini la perfetta salvezza e la felicità.
“Queste cose, racconta Giustino e molte altre mi disse
quel vecchio, ma non è questo il momento di riportarle. Poi se ne andò,
raccomandandomi di pensarci su. Non lo rividi più; ma la mia anima fu come
illuminata a giorno da un fuoco improvviso. Mi trovai innamorato dei profeti e
delle persone amiche del Cristo. Pensai e ripensai a tutte quelle parole e
capii: capii che questa era la sola, vera e utile filosofia. Ecco com’è e
come mai sono filosofo. Vorrei anzi che tutti provassero quello che sento io, e
che non si allontanassero dalla dottrina del Salvatore”.
Giustino cominciò allora a leggere i libri sacri e
trovando in essi la risposta definitiva al suo desiderio di salvezza, si lasciò
battezzare. Non conosciamo l’anno e il luogo del suo Battesimo; si suppone che
sia avvenuto a Efeso verso l’anno 130.
Probabilmente la descrizione del suo itinerario
spirituale, narrato nel Dialogo con Trifone, è una costruzione letteraria,
piuttosto che una fedele riproduzione della verità storica; in ogni caso, però,
essa ci manifesta un aspetto fondamentale della vita e del carattere di
Giustino: la sete, la profonda e sincera ricerca della verità e la lealtà del
suo cuore disposto a sacrificare per essa ogni cosa.
Prima del Battesimo, egli cerca dappertutto con tutto lo
slancio della sua nobile anima; dopo dedica la sua vita alla predicazione della
verità e la sua morte, infine, ne costituisce la testimonianza più bella.
Giustino è arrivato al Cristianesimo attraverso la ricerca filosofica del vero
e da cristiano è rimasto filosofo di Cristo. Non si può parlare di una sua
conversione nel senso che generalmente si dà a questo termine: accettare il
Cristianesimo non significò, per lui, rinnegare il passato, ma concludere
felicemente il suo lungo itinerario verso la verità e ricevere una risposta
integrale, completa e soddisfacente al suo desiderio di salvezza e di felicità.
Il Cristianesimo è, per lui, la sola vera filosofia.
Anche dopo il Battesimo, Giustino manifesta la sua stima
verso le diverse dottrine filosofiche, perché vede tracce della sapienza
cristiana anche nella dottrina di Socrate e di Eraclito, e presenta Socrate come
un profeta del Verbo divino. Accettare la dottrina di Cristo significa quindi
completare, integrare e concludere la ricerca della sapienza. Giustino però
confessa che la sapienza di Cristo non costituì per lui l’unico motivo per
accettare il Cristianesimo. Giustino era stato scosso dalla testimonianza dei
martiri. “Stavo ancora approfondendomi nella dottrina di
Platone quando venni a conoscenza delle accuse lanciate contro i cristiani. Ma
vedendoli così intrepidi di fronte alla morte e ai patimenti, cose che ogni
altro mettono i brividi, pensavo tra me non era possibile che persone del genere
vivessero nel male e nell’attaccamento ai piaceri. In
verità, datemi un uomo lussurioso, sfrenato, che mangi avidamente carne umana,
il quale voglia poi affrontare la morte privandosi di questi piaceri.
Non cercherebbe piuttosto di godersi la vita di quaggiù
e di sottrarsi ai magistrati, anziché offrirsi alla morte denunciandosi da
solo?...”.
Giustino dedicò la sua vita alla diffusione della
sapienza di Cristo, particolarmente tra le classi intellettualmente più
preparate. Giustino, però, non limita il suo insegnamento a piccoli gruppi di
fedeli e di catecumeni, ma rivolgendosi a tutti coloro che cercano sinceramente
la verità, diffonde, con l’insegnamento e con gli scritti, la conoscenza
della dottrina cristiana e difende il Cristianesimo contro le critiche dei
giudei e della filosofia greca.
Anche dopo il Battesimo, egli vestì il mantello dei
filosofi, visitò i principali centri culturali dell’impero, fondò una scuola
sul modello delle q scuole filosofiche ed insegno a “tutti quelli che
venivano”. Verso l’anno 135 ad Efeso s’incontrò con un rabbino e lo
scambio di idee avuto con questo interprete giudaico della S. Scrittura, è
narrato vent’anni più tardi, nel Dialogo con l’ebreo Trifone. Sembra però
che il suo contatto con il giudaismo non sia stato molto frequente; preferiva
l’ambiente della filosofia greca che gli era molto più familiare. La morte di
Giustino, come la sua vita, è una splendida testimonianza alla verità e fu
probabilmente la conseguenza del conflitto avuto con il filosofo cinico
Crescente. Nella Il Apologia, egli parla degli intrighi di costui che imputava
ai cristiani le solite accuse correnti nel mondo romano, specialmente
quella di ateismo, creando a Roma una situazione molto pericolosa per quanti si
professassero discepoli di Cristo. Reagendo alle false accuse di Crescente con
la pubblicazione della sua Il Apologia, indirizzata al senato romano, Giustino
rivelò di aver avuto delle pubbliche dispute con Crescente e di averlo confuso
dimostrandogli che le sue asserzioni erano vere e proprie calunnie. Crescente,
però, non si arrese e denunciò il suo avversario alle autorità. Giustino fu
messo in prigione, insieme con alcuni discepoli.
Non conosciamo con esattezza l’anno della sua morte, ma
generalmente si suppone che sia il 165, sotto l’imperatore Marco Aurelio.
La vita di questo filosofo degli inizi dell’era
cristiana ci può far riflettere soprattutto sulla necessità, per incontrare la
luce e la vera sapienza di cercarle ove esse si trovano realmente, cioè nella
Parola di Dio espressa nella Bibbia.
Tanta gente che oggi si definisce in ricerca trascura
spesso senza volerlo questa via indispensabile. Se non possiamo svolgere nei
loro confronti il ruolo del vecchio di Efeso, possiamo almeno pregare per loro,
affinché incontrino al più presto Colui che costituisce lo scopo della loro
ricerca.
GIUSTO,
GIUSTINIANO, GIUSTINO
L'origine
del nome è latina da Justinianus che a sua volta deriva da Justus (jus=
diritto + sto= ci sto: io sono nel diritto) cioè: uomo giusto, onesto.
Il nome ricorda l'imperatore Giustiniano (482-565) che
fece grandi opere e riorganizzò il diritto romano. Sono anche molti i santi che
portano questi tre nomi: Giusto, Giustino, Giustiniano. Oggi il nome è molto
meno usato che nel passato.
LA
RAGIONE CRISTIANA
Giustino,
grande filosofo cristiano del II secolo, era nato a Nablus, in Samaria.
Nel
163 d.C., sotto l’imperatore Marco Aurelio, viene arrestato a Roma con altri
cristiani, perché nella sua scuola faceva meravigliosa propaganda per il
cristianesimo.
Ecco le principali battute del dialogo tra lui e il
prefetto Rustico, durante il processo.
Rustico:
Quale dottrina professi?
Giustino:
Per tutta la vita sono andato in cerca della verità. Ho studiato profondamente
tutte le filosofie orientali, greche e romane; ma finalmente mi sono incontrato
con la dottrina vera!
Rustico:
E qual è questa dottrina vera?
Giustino:
Quella di Gesù di Nazareth: liberarci cioè dagli idoli vani e adorare
l’unico Dio vivo e vero: creatore del cielo e della terra, salvatore
dell’umanità.
Rustico:
Sei dunque cristiano?
Giustino:
SI, lo sono e me ne glorio e con me questi miei amici.
Allora
il prefetto, corrucciato, comandò:
Riunitevi
qui tutti insieme: prestate ossequio divino all’imperatore e sacrificate agli
dei, altrimenti sarete condannati a morte, come atei!
Per tutti rispose Giustino:
Noi rifiutiamo sì l’idolatria; ma per questo non siamo
atei: adoriamo un Dio spirituale, Padre di Gesù! Nessuno che sia sano di mente
passerà dalla religione vera a quella falsa!
Quando il prefetto ordinò che fossero torturati, tutti
risposero:
Fa’ pure quello che vuoi: noi siamo cristiani e
rimarremo tali ad ogni costo. Piuttosto la morte, che sacrificare agli idoli
falsi!
Allora il prefetto di Roma pronunziò la sentenza:
« Giustino di Nablus di Samaria e quanti con lui non
hanno voluto sacrificare agli dei e prestare ossequio divino a Marco Aurelio
Imperatore, a norma della legge romana, siano flagellati e decapitati! ».
Così Giustino e compagni firmarono con il sangue la loro
professione di fede cristiana.
DAGLI
SCRITTI DI GIUSTINO
Il
valore del segno della croce
. Ponete mente difatti a tutte le cose che sono al mondo e
vedete se, senza questa figura, si possano costruire e combinarsi. Il
mare, ad esempio, non si fende se questo trofeo, sotto il nome di vela, non stia
intero sulla nave; la terra non si ara senza di esso; gli zappatori e i
meccanici non compiono il lavoro se non mediante arnesi fatti a questa foggia.
La forma umana poi per nessun’altra caratteristica si distingue da quella
degli animali irragionevoli, che per essere eretta e possedere l’estensibilità
delle mani e presentare sul volto il naso, per il quale si compie la
respirazione vitale, così disposto sotto la fronte da formare appunto una
croce. Per bocca del Profeta fu detto: Il respiro della nostra faccia è Cristo
Signore (Lam 4,20). E ad attestare la potenza di queste figure stanno i vostri
stessi emblemi, cioè i vessilli e i trofei, con i quali voi sempre marciate,
ostentando, anche se ciò facciate senza porvi mente, in essi appunto il segno
del dominio e del potere. E i simulacri, che innalzate, dei vostri Imperatori
morti, con iscrizioni che li deificano, non hanno anch’essi questa foggia? E
ora che abbiamo cercato, per quanto era in noi, di convincervi, sia con
ragionamenti, sia mostrandovi il valore di questo segno, ci sentiamo esonerati
d’ogni responsabilità, se voi restate increduli.
Giustino,
Prima apologia, 55
La
conversione di un filosofo
Mi
sentivo totalmente attratto dal desiderio di comprendere le cose immateriali. La
contemplazione delle idee platoniche dava ali al mio pensiero. Ritenevo di
essere diventato in poco tempo un saggio e, nella mia sufficienza, speravo di
vedere Dio subito, perché tale è infatti l’obiettivo della filosofia di
Platone.
In questo stato d’animo, presi un giorno la risoluzione
di saziarmi di solitudine lontano dal consorzio umano, e partii per una località
situata in prossimità del mare. Mi stavo avvicinando a questo luogo in cui
contavo di trovarmi solo, quando un vegliardo dall’aspetto venerabile e
dall’incedere dolce ma al tempo stesso solenne, si mise a seguirmi a poca
distanza. Mi girai verso di lui e mi fermai per rendermi conto chi in realtà
egli fosse e che cosa mai volesse. «Mi conosci?» egli mi disse. Io risposi di
no... «Sono preoccupato per i miei familiari. Essi mi hanno lasciato per andare
all’estero, e vengo a vedere se per caso non stiano per rifarsi vivi da un
momento all’altro, da qualche parte. E tu, che ti ha condotto qui?».
«A me piace - risposi - andarmene in giro in questo
modo, perché così posso, senza impedimento alcuno, dialogare con me stesso; e
questi luoghi sono assai adatti alla meditazione filosofica».
«E' dunque il ragionamento - riprese il vegliardo e non
tanto l’azione e la verità che ti attirano? E pensi di più alla speculazione
che non all’azione?».
Gli replicai: «E' possibile realizzare un bene più
grande di quello di dimostrare che la ragione governa ogni cosa? Se noi la
abbracciamo e ci lasciamo trasportare da essa, riusciamo a renderci conto del
genere di vita degli altri, dei loro errori, accorgendoci che non fanno nulla di
sensato e di gradito a Dio...».
«Allora la filosofia dà la felicità?» chiese il
vegliardo.
«Certamente - risposi - ed essa sola...».
«Come è dunque - disse allora - che i filosofi possono
farsi un’idea esatta di Dio o parlare di lui con qualche verità, quando non
lo conoscono, non avendolo mai visto né mai udito?».
«Ma, padre, - risposi - la divinità non è visibile ai
nostri occhi come lo sono gli altri esseri viventi; essa è accessibile
unicamente alla sola intelligenza, come dice Platone; e io ne condivido
l’idea... A quale maestro si potrebbe dunque ricorrere, e dove trovare
l’aiuto, se neppure i filosofi non possedessero la verità?».
«Vi sono stati, molto tempo fa - continuò il vegliardo
- degli uomini più antichi di tutti questi filosofi, degli uomini beati, giusti
e amici di Dio. Essi parlavano ispirati dallo Spirito di Dio e predicevano un
futuro che ora si è avverato. Essi vengono chiamati: i profeti. Essi soli hanno
visto la verità e l’hanno annunciata agli uomini... Hanno glorificato Iddio
Padre, creatore dell’universo, e hanno annunciato colui che Dio ha inviato
sulla terra: Cristo, suo Figlio... E tu, prima di ogni altra cosa, prega perché
le porte della luce ti siano aperte, in quanto nessuno può vedere né capire,
se Dio o il Figlio suo non gliene danno la capacità».
Dopo avermi detto tutte queste cose e molte altre ancora,
di cui non è il momento ora di parlare, il vecchio se ne andò, raccomandandomi
di far sì che il mio spirito vi riflettesse. Non l’ho mai più rivisto. Ma,
improvvisamente, un fuoco si accese nella mia anima. Fui preso d’amore per i
profeti, per quegli uomini che sono amici di Cristo. Riflettendo sulle parole
del vegliardo, riconobbi che quella era la sola filosofia sicura e vantaggiosa.
Giustino, Dialogo con Trifone, 2-4.7-8
Confutazione
del fatalismo
Siccome
qualcuno dall’esposizione da noi premessa potrebbe argomentare che noi
affermiamo la fatalità ineluttabile degli eventi che si vanno compiendo, per il
fatto stesso d’esser state predette cose precognite, scioglieremo anche questo
errore. A ciascuno saranno assegnate pene, tormenti, premi a seconda delle sue
opere: questo l’abbiamo appreso dai profeti e ne proviamo la verità. Infatti
se così non fosse, se ogni atto si compisse per fatalità, si distruggerebbe il
libero arbitrio. Se fosse predestinato uno ad essere buono, l’altro malvagio,
né quegli meriterebbe lode, né questi biasimo. E, d’altra parte, se
l’umano genere non ha facoltà di fuggire per libera scelta il male e
abbracciare il bene, non può essere imputato di qualsiasi azione da esso
compiuta. Ma noi dimostriamo che esso per spontanea determinazione tende al bene
o al male. Vediamo infatti il medesimo uomo trascorrere da un eccesso
all’altro; mentre se fosse predestinato ad essere o perverso o retto non
sarebbe mai accessibile a inclinazioni contrarie né muterebbe frequentemente; né
ci sarebbe il buono o il malvagio, giacché si dovrebbe riferire la
responsabilità tanto del bene quanto del male al fato, che risulterebbe così
contraddittorio, o ammettere per vera la teoria accennata secondo cui il bene e
il male non sono nulla, e le definizioni di buono o cattivo del tutto
convenzionali: e questa, come la sana ragione dimostra, è empietà e iniquità
ripugnante. Per noi invece il destino sta in questo, che a chi sceglie il bene
è riservato un degno premio, a chi il male un debito castigo. Dio fece l’uomo
diversamente dagli altri esseri, come alberi e quadrupedi che non posseggono la
capacità di operare a proprio talento. Esso non meriterebbe né ricompensa né
lode se, incapace a scegliere da se stesso il bene, vi fosse costretto da
natura; né se fosse perverso sarebbe giusto il punirlo, non essendo tale per
proprio arbitrio, anzi non potendo essere diverso da quel che è...
Ordunque, affermando la predizione del futuro, non
diciamo che esso si attui per fatalità; anzi, siccome Dio preconosce le azioni
di tutti gli uomini, e ha decretato di compensare ciascuno a seconda dei propri
atti, e di punire in misura delle offese contro di lui, appunto mediante lo
spirito profetico egli predice, per indurre l’umanità a comprendere e
ricordare sempre, mostrando così d’interessarsi e provvedere ad essa.
Giustino martire, Prima apologia, 43-44
Il
battesimo nel II secolo
A
quanti si siano convinti e credano alla verità degli insegnamenti da noi
esposti, e promettano di vivere secondo queste massime, viene insegnato a
pregare e chiedere con digiuni a Dio la remissione dei peccati commessi; e con
loro preghiamo e digiuniamo anche noi. Quindi sono condotti da noi nel luogo
dov’è l’acqua e rigenerati nella stessa maniera onde fummo rigenerati noi
stessi: nel nome del Padre di tutti e Signore Iddio, del Salvatore nostro Gesù
Cristo e dello Spirito Santo, compiono allora il lavacro nell’acqua (cf. Mt
28,19). Giacché Cristo ha detto: Se non sarete rigenerati non entrerete nel
regno dei cieli (Gv 3,3). Ora è chiaro a ognuno, che è impossibile, una volta
nati, rientrare nel seno materno. Il profeta Isaia spiega, come sopra scrivemmo,
in qual maniera si sottrarrà ai peccati chi si penta. Dice: Lavatevi, fatevi
puri, togliete il male dalle anime vostre; imparate a operare il bene; difendete
l’orfano e rendete giustizia alla vedova. Venite allora e ragioniamo, dice il
Signore. Se pur siano i vostri peccati come porpora, al pari di lana li schiarirò;
e se siano come cremisi, al pari di neve li sbiancherò. Ma se non mi
ascolterete una spada vi divorerà. Queste cose parlò la bocca del Signore (Is
1,16-20). Ed è questa la ragione che ne insegnarono gli apostoli. Dal momento
che, senza coscienza della prima nostra generazione, per la legge di necessità
nasciamo da umido seme, mediante l’amplesso dei genitori, e siamo procreati
con istinti pravi e inclinazioni perverse; onde non restiamo figli di necessità
e d’ignoranza, ma di elezione e di scienza, e otteniamo la remissione dei
peccati prima commessi, si invoca nell’acqua, su colui che ha deliberato di
rigenerarsi e s’è pentito dei peccati, il nome di Dio Padre e Signore
universale: e questo solo si proferisce nel condurlo al lavacro per
l’abluzione, poiché nessuno è in grado di dare un nome al Dio inesprimibile,
e solo un folle incurabile ardirebbe sostenere che ve ne sia. Tale lavacro è
denominato illuminazione, perché chi accoglie queste dottrine, è illuminato
nello spirito. Nel nome inoltre di Gesù Cristo crocifisso sotto Ponzio Pilato e
dello Spirito Santo, che per mezzo dei profeti predisse tutti gli eventi
relativi a Gesù, riceve l’abluzione l’illuminato.
Giustino, Prima Apologia, 61
La
celebrazione eucaristica della comunità primitiva
Ordunque
noi, dopo avere così lavato chi crede e ha aderito, lo conduciamo
nell’adunanza dei fratelli, come noi ci chiamiamo, onde pregare in comune
fervidamente per noi, per l’illuminato e per tutti gli altri, ovunque siano;
per meritare, dopo aver appresa la verità, di riuscire buoni nelle opere della
vita, osservanti dei precetti e conseguire così la salvezza eterna. Cessate le
preghiere ci abbracciamo con scambievole bacio. Quindi viene recato al preposto
dei fratelli un pane e una coppa d’acqua e vino temperato; egli li prende e
loda e glorifica il Padre di tutti per il nome del Figlio e dello Spirito Santo;
indi fa un lungo ringraziamento [in greco “eucaristia”], per averci fatti
meritevoli di questi doni. Terminate le preghiere e il ringraziamento
eucaristico, tutto il popolo presente acclama: «Amen!». Amen in lingua ebraica
vuol dire «sia». Quando il preposto ha rese le grazie e tutto il popolo in
coro ha risposto, quelli che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ciascuno dei
presenti il pane, il vino e l’acqua consacrati, e ne portano agli assenti.
Questo alimento noi lo chiamiamo eucaristia, e non è
dato parteciparne se non a chi crede veri gli insegnamenti nostri, ha ricevuto
il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione e vive secondo le
norme di Cristo. Poiché noi non lo prendiamo come un pane comune e una comune
bevanda; ma come Gesù Cristo salvatore nostro, incarnatosi per la parola di
Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così il nutrimento consacrato
con la preghiera di ringraziamento formata dalle parole di Cristo e di cui si
nutrono per assimilazione il sangue e le carni nostre, è, secondo la nostra
dottrina, carne e sangue di Gesù incarnato. Gli apostoli difatti nelle loro
Memorie, dette Evangeli, tramandarono che Gesù Cristo lasciò loro tale legato:
preso un pane e rese grazie egli disse loro: Fate ciò in memoria di me; questo
è il mio corpo (Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-25; Mt 25,28); e preso similmente il
calice e rese grazie, disse: Questo è il mio sangue; e a loro soli li offerse.
Ora i funesti demoni ricopiarono un tale atto, introducendolo anche nei misteri
di Mitra. Difatti nei riti dell’iniziazione con certe formule pongono innanzi
un pane e un calice d’acqua e pronunziano delle frasi, come voi sapete o
potete informarvi. Da allora sempre rinnoviamo tra noi la memoria di queste
cose; e quelli dei nostri che posseggono, soccorrono gli indigenti tutti, e
conviviamo sempre uniti. E in tutte le nostre offerte benediciamo il Fattore
dell’universo per il Figlio suo Gesù Cristo e per lo Spirito Santo. E nel
giorno chiamato del Sole ci raccogliamo in uno stesso luogo, dalla città e
dalla campagna, e si fa la lettura delle Memorie degli apostoli e degli scritti
dei profeti, sin che il tempo lo permette. Quando il lettore ha terminato, il
preposto tiene un discorso per ammonire ed esortare all’imitazione di questi
buoni esempi. Di poi tutti insieme ci leviamo e innalziamo preghiere; indi,
cessate le preci, si reca, come si è detto, pane e vino e acqua; e il capo
della comunità nella stessa maniera eleva preghiere e ringraziamenti con tutte
le sue forze, e il popolo acclama, dicendo: «Amen!». Quindi si fa la
distribuzione e la spartizione a ciascuno degli alimenti consacrati e se ne
manda per mezzo dei diaconi anche ai non presenti. I facoltosi e volonterosi
spontaneamente danno ciò che vogliono e il raccolto è consegnato al capo, il
quale ne sovviene gli orfani, le vedove, i bisognosi per malattie o altro, i
detenuti e i forestieri capitati; egli soccorre, in una parola, chiunque si
trovi in bisogno.
Ci
aduniamo tutti dunque il giorno del Sole, perché è il primo giorno in cui Dio,
cangiate tenebre e materia, plasmò il mondo, e in cui Gesù Cristo, Salvatore
nostro, risorse dai morti. (Giustino, Prima
Apologia, 65-67)
La
fede nella risurrezione della carne
E
a pensarci bene, che cosa potrebbe apparirci più incredibile, se noi non
avessimo il corpo, del sentirci dire, che da una piccola stilla dell’umano
sperma possano derivare ossa e nervi e carni formate all’immagine che vediamo?
Se, in via d'ipotesi, voi non esisteste così fatti né così generati, e uno vi
assicurasse categoricamente, mostrandovi da una parte il seme umano e
dall’altra una immagine dipinta, che questa può essere prodotta da quello, se
non vedeste in atto la cosa, la credereste? No; nessuno ardirebbe contestarlo!
Orbene, è per la stessa ragione che, per non averlo ancora visto, non credete
al risorgere dei morti. Sennonché, come al principio non avreste creduto
possibile che da una piccola stilla originassero creature siffatte e pure le
vedete prodotte così dovete ammettere la non impossibilità che i corpi umani
andati in dissoluzione e scompostisi a guisa di semi sulla terra, al loro tempo,
per ordine di Dio, risorgano e si vestano dell’incorruttibilità (cf. 1Cor
15,53).
Di qual possanza degna di Dio intenda, chi afferma il ritorno degli esseri allo
stato da cui sorsero e l’impotenza di Dio stesso a trascendere questa legge,
non sapremo stabilire; ma questo rileviamo, che costui non avrebbe creduto
potersi mai generare esseri, e da tali elementi simili a se stesso e al mondo
tutto quale egli lo vede. Meglio credere perciò in cose impossibili agli uomini
e alla natura, anziché non credervi al pari degli altri; ricordando
l’insegnamento del nostro maestro Gesù Cristo: L’impossibile presso gli
uomini è possibile presso Dio (Mt 19,26).