NEL DESERTO DELLA INCERTEZZA

..ci accompagna 
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso 
o un vizio assurdo. ....
... una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio....
Scenderemo nel gorgo muti.
Da Cesare Pavese, 22 marzo ‘50, Poesie, Torino 1961

 

          Estranea generalmente al medico, e soprattutto alla sua formazione, è una consapevole elaborazione culturale del problema antropologico e sociale della morte.

         

          Questa estraneità, sostituitasi al sincretismo religioso e mitico che ha caratterizzato, e in parte ancor oggi caratterizza numerosi aspetti della cultura occidentale industriale e postindustriale, è il risultato di un processo di complessa ma determinata rimozione, in un clima di aneticità, più che di a-religiosità.  

          L' estraneità del medico è certamente importante per le conseguenze che essa assume per il singolo paziente e per il suo particolare gruppo sociale di appartenenza. I termini e il significato della concreta e obbligata impostazione culturale e impositività normativa di comportamenti derivano anche dalla legislazione sanitaria, dalle opportunità economiche del singolo paziente e dalle possibilità di intervento su malattie terminali. Queste ultime sono in rapporto al livello organizzativo e tecnologico delle strutture sanitarie disponibili.

          La rimozione e l’occultamento di questa problematica nel rapporto diretto paziente-medico determinano ulteriori problemi e sofferenze.

       A un’analisi etnologica la morte di un “individuo” è un avvenimento che determina una “crisi”, non solo nel gruppo familiare, ma anche in quello più ampio della stirpe, della discendenza, del clan, della tribù. È questa la ragione per cui in tutte le culture, non soltanto a livello arcaico o “primitivo”, si ritrova una reazione alla morte anche attraverso mezzi mitici e rituali, variamente religiosi. Figurazioni e cerimoniali inducono gli individui a “vivere” la morte con i mezzi offerti dalla società.

          Non è mai stato fatto carico specifico al medico e alle strutture sanitarie, specie nell’età contemporanea, del compito di gestire dal punto di vista psicologico ed etico il problema del paziente terminale.

          La riconosciuta assistenza religiosa, fra l’altro con la persistenza dei cappellani di ospedale, dovunque considerati come estremi “traghettatori”, e quindi spesso poco graditi all’”utenza”, gli interventi “istituzionali” di psicologi e assistenti sociali, insieme alle iniziative anche coordinate di volontariato, talvolta discontinuamente alleviano, ma non affrontano e spesso rimuovono la sostanza del problema. La formazione culturale del medico in termini di “medicina palliativa” è assai carente; infatti il medico tende più spesso a fare riferimento a una sorta di codice cavalleresco in cui l’unica regola è vincere o soccombere: la dimensione attiva ed efficace della medicina palliativa è spesso misconosciuta o rimossa.

         

          La medicina, specie con i suoi ospedali più tecnologici, con le sue procedure sempre più esclusive, con la sua necessità di essere “estrema”, evita parzialmente al gruppo sociale di appartenenza, alla famiglia, di condividere la stessa visione della sofferenza; le norme igienico-funerarie rimuovono quasi del tutto la visione diretta e la cura stessa dei morti.

          In effetti, assistiamo all’accoglimento legislativo e regolamentato della incapacità culturale di una società che non sa più suggerire come si fa a trattare con chi sta per morire, che non fornisce regole o sostegno a chi sceglie o deve convivere, specie se prolungatamente, a casa o in ospedale, con un paziente terminale. Ostacola o rimuove l’esigenza del contatto fisico con la sofferenza; contatto umano, non verbale, che spesso è il più grande sollievo per chi sente di morire. Esorcizza quindi, sino a ridicolizzarla, a escluderla, o a elevarla a tragica pubblica ma astratta celebrazione, la “veglia” e il “compianto” dei moribondi e dei morti.

     Il lacerante senso di angoscia e di ingiustizia del malato in ospedale che pensa o sa di non poter tornare a casa, qualche volta neanche da morto, non trova nessun conforto nella personale partecipazione, sostanzialmente come oggetto, in una spesso maldestra e spersonalizzata, “corale” e tecnologica “lotta” per la vita. La sofferenza fisica, il dolore, la pena del distacco dalle persone care convivono con l’angoscia della possibilità continua di maldestri interventi o di imprevedibili omissioni da parte di chi è coinvolto nelle cure; e il desiderio che, il più possibile inavvertitatamente, da piccole o grandi lacune dell’efficienza sanitaria derivi la risoluzione della personale tragedia di così vivere. E questo nel silenzio omissivo di chi circonda e isola il malato, rimuovendo il pensiero della morte, se non della malattia.

          Malattia e sofferenza evocano anche in maniera ossessiva il pensiero della fine fisica dell’individuo, persino in termini fittizi o sublimati, come nelle ossessioni, nelle fobie, nelle depressioni e nelle malinconie.

          L’elaborazione del lutto non è un fatto che riguarda in maniera esclusiva il gruppo familiare di appartenenza: tuttavia coinvolge prioritariamente l’individuo che considera se stesso, specie se sofferente o gravemente malato. Ancora più complessi e dolorosi, anche se abbastanza lodevolmente e sempre più spesso contemperati dalla missione delle associazioni di volontariato, sono i problemi dei malati “terminali”, che richiedono una onerosa e defatigante assistenza al proprio domicilio.

          Il necessario distacco psicologico del medico è condizione per una oggettivazione del malato e della malattia. Questa reificata astrazione ritrova i fini di coerente efficienza e di propositiva efficacia.

          Ma l’elusività del medico e della struttura sanitaria assume sempre più i caratteri di un rituale tecnocratico nel confronto con malattie in cui il confine estremo diviene assai sottile. A questo rituale il malato e chi gli è vicino si affidano, richiedendo quasi sempre un tangibile “accanimento” terapeutico; tranne che a ribellarvisi in prossimità o in conseguenza di un definitivo insuccesso.

          La tragedia delle condizioni acute irreversibili, come anche il lento logorio di malattie croniche terminali, variamente inducono e replicano, in un arido contesto postmoderno, il ritorno implacabile del mito e del rito. Del mito della tecnologia e della scienza medica, remunerate per una razionalizzata battaglia contro la malattia; del rito della tecnologia e della scienza medica razionalizzate per una remunerazione di servizi e di prestazioni specializzate.

          Questa potente elaborazione culturale presenta molti elementi di coerenza con le esigenze di ordine e di quieto consenso; è proposta e imposta con gli strumenti dell’informazione e della formazione istituzionale.

          Permane di frequente la fede e la speranza nel miracolo, sostenute proprio dai limiti e dalle incertezze del sapere scientifico e delle possibilità tecnologiche, nella illusione che dalla sofferenza si possa evadere senza la necessità di convivervi e crescervi assieme. Ciò si ripropone nel tentativo di individuale esplorazione di un diverso ignoto, nelle ricercate delusioni di una adesione, troppo spesso autolesionistica, a scelte incongrue o a passività anacronistiche.

 

          All’idea e al credo della immortalità individuale si è sovrapposto da tempo un loro surrogato: il valore “assoluto” e quantificabile della longevità. Questa idealità biologica non coincide del tutto con il diritto e l’istinto di sopravvivenza; non è nemmeno sinonimo di istanze solidaristiche. Nei fatti è divenuta una sorta di icona culturale di società che non riescono ad armonizzare direttive e comportamenti generali per una “vita di qualità” e di libertà individuale.

          Un problema di difficile chiarezza etica e comportamentale diviene quindi la paralizzante aridità di comunicazione: le incertezze del medico, del malato, dei suoi anche remoti congiunti vengono surrogate dalle certezze giuridiche dei comitati etici e delle magistrature. Così diventa possibile considerare l’eutanasia solo in maniera astrattamente remota, una forma di delitto contro la persona intermedio tra il suicidio e l’omicidio volontario; per contro, troppo spesso permane reale il decisionismo sulla vita altrui in condizioni di svantaggio sociale, economico, culturale. Questa aperta contraddizione limita e impedisce persino la libertà di espressione del paziente, oppresso in una gestione della sua compliance a terapie e procedure da medici e contesto sociale. In questa confusione del rispetto della libertà e della vita diviene aleatoria una scelta tra diversi itinerari di “storia naturale di malattia”. La condizione impositiva resta quella degli strumenti che le risorse economiche personali e della comunità consentono per prolungare, in ogni modo, un insano fantasma di longevità con modificate storie naturali di malattia. La possibile “forza” della comunicazione diretta medico-paziente e la esclusività di consapevoli scelte di libertà individuale sono annullate dalla permalosa potenza delle competenze giuridiche, economiche e mediatiche.

 

          Mito e rito hanno però, come nelle culture primitive o arcaiche, l’effetto di indebolire la personalità del defunto nella considerazione dei sopravvissuti, di far regredire in condizioni di “minorità” il morente nella sollecitudine dei suoi congiunti e di chi gli sta vicino, al fine di rimuovere o annullare gli elementi di identificazione, di transfert,  impliciti in qualunque evento luttuoso.

          La morte come evento innaturale, come elemento di disordine e di riduzione del gruppo sociale, come sua quantificabile perdita, richiede prepotentemente una ricerca delle cause. Ciò conduce a una non remota presunzione di colpa, astratta o concreta, attribuita variamente al malato e alla sua malattia, al medico e alla sua medicina, allo stesso gruppo sociale, ai suoi congiunti e ai loro comportamenti, specie nei riguardi del defunto.

          Permane in enclave culturali sempre più disorganiche e contrastanti con i miti dominanti la concezione religiosa di passaggio, o di prova, attraverso la quale si trapassa a una condizione diversa, di continuità di esistenza in un’altra vita. Le fedi nella preservazione di una superiore individualità o in un cosmico assorbimento e liberazione, senza e oltre i limiti di qualunque individualità, vengono sempre più ignorate o rimosse nella essenzialità comunicativa tra “fruitori” e organizzazione sanitaria.

          La specificità attuale, contraddittoriamente, rimuove e allontana in maniera sistematica il problema. Soprattutto lo elude e lo travalica in un progetto di fantascientifica genetica immortalità. Questo mito tecnologico deriva, per esempio, dal futuribile recupero attraverso tecniche di rianimazione di soggetti ibernati, dalla replicazione di individui con le procedure della clonazione, dalla manutenzione protesica o con etero-xenotrapianti, come surrogato indefinito di immortalità.

          Anche le organizzazioni e le strutture sanitarie si sono adeguate, arricchendosi di comitati e competenze “etiche”, indagando tempestivamente sulla problematicità delle innovazioni e sulla riprovazione o rimozione dei problemi, in una coralità dissonante con epistemologia diritto economia e differenti canoni religiosi.

          Ma non si riconosce una via.

          Il confronto quotidiano del medico coinvolto in un lavoro operativamente clinico è un confronto permanente con l’invisibile ma riconoscibile “convitato di pietra”.

          I drammi convergenti dell’imprevisto e dell’inesorabilità di progressione nelle storie naturali di malattia sono la componente più tragica della vita del medico direttamente coinvolto nelle responsabilità di diagnosi e cura di malati.

Si è rimosso questo senso di responsabilità diretta con lo strumento glaciale e paralizzante della organizzazione delle competenze e con l’impegno alle codifiche di linee guida perfettibili, contingentemente impeccabili.

La coralità di passioni cliniche solitarie trascolora in una “rete” di servizi impersonali e sostanzialmente irresponsabili, in cui il medico si dovrebbe trovare “protetto” da eccessive tensioni e il paziente dovrebbe essere “garantito” da un sistema di sinergie di professionalità. Anche e soprattutto dal punto di vista giuridico questo coinvolgimento multiplo di responsabilità è ritenuto l’ombrello più importante nei confronti dei contenziosi medico-legali. Il rispetto delle “forme” sarebbe la condizione più importante per la sicurezza “professionale” ed economica del medico. Ma è molto meno di un pio desiderio.

          Il punto critico è che in sistemi sanitari più fortemente “burocratizzati” hanno acquistato più spazi lavorativi, influenza decisionale e priorità gerarchiche proprio quelle componenti che si inseriscono in maniera “distante” dalle dirette competenze e responsabilità professionali.

          Questa decisiva distorsione del rapporto medico-paziente ne approfonda sempre più l’allontanamento dal senso di tragedia e di morte, che è in ogni caso presente. Alla tragedia e alla morte divengono sempre più impreparati e indifesi, e quindi ostili, medico e ambiente sociale di appartenenza del paziente.

          L’indicatore culturale più palese di questa situazione è osservabile proprio nelle caratteristiche di formazione professionale delle scuole di medicina, strutturalmente irrigidite in compartimenti segmentati: tecnologici, laboratoristici, giuridici e persino economici.

          Si sono ormai ampiamente “civilizzati” i riti connessi alla vittoria dell’ultimo nemico.

          Riti diversi e variamente consolatori e rassicuranti sono rapidamente minimalizzati, resi incomprensibili. Divengono celebrazione di una simbolica effimera vittoria sull’ultimo nemico sempre più mutilata, e infine definitivamente rimossi.

          Il mito tecnocratico e assai meno gentile oggi sembra avere scelto proprio questo: gli indistinti confini tra la morte e il sonno, la terra di nessuno di una medicina coinvolta in un sogno di “bellezza”, che è solo tensione per una manieristica efficienza. E proprio a ciò, col massimo della benevolenza consentita oggi, sembra tendere.

 

Thanatos, il genio maschile della morte alata degli antichi greci non è donna,

come nell’immaginario di analoghi miti, anche greci, esplicitamente misogini.

È uomo, figlio della Notte, e fratello di Ipnos, il Sonno.

Forse in questa antica rappresentazione si accosta e si inserisce il mito di Endimione,

che chiese ed ebbe in dono da Zeus e da Artemide, per la sua straordinaria bellezza, l’immortalità in un sonno eterno

© Guglielmo Trovato 1996 -

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