Felsina
Bonomia
Molti nomi per una città sola, per un sogno soltanto, nei
secoli, nomi con cui la conoscono i suoi abitanti, uomini, donne, bambini e
Fate.
Questa è la storia della Bologna delle Fate, Felsina, la
storia della Nostra città.
La storia della mia città.
Questa è una città che mi ha visto crescere, cambiare, amare,
detestare, ma molto di più l’ho vista io, Dama Tanachvil, nei secoli, dei
secoli…
Questa città è la madre mai avuta accanto, la sorella
desiderata, la figlia sognata in silenzio, questa città è vino e scherzi
crudeli, è sangue che scorre in terra fertile, acque sotterranee che sussurrano
segreti da finestre improvvise, merli e mattini rossi che sorvegliano
dall’alto, quattro croci in quattro punti, quattro porte antiche e dodici poi,
questa è Felsina, la mia Felsina, questo è il modo in cui io l’ ho vista
nascere, questa è la
(Una piccola introduzione:
Quella che state per leggere
non è la storia di Felsina che tutti potrebbero raccontarvi.
Questa è la storia di un tempo
mitico, lontano come i sogni che al mattino sono già dimenticati.
Ognuno dei protagonisti di
questa storia potrebbe darvi una diversa versione dei fatti, ma del resto è
sempre così.
Questa è la storia della Corte di
Felsina raccontata da una dei suoi protagonisti, Dama Tanachvil, Tredicesima
Vestale, Dama dell’Oblio, io.)
“Siamo fatti della sostanza di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è
cinta di sonno.”
Dai sogni di creature che appena avevano risalito la
scoscesa china dell’incoscienza, creature che vivevano di notti fredde, appena
illuminate dal bagliore flebile di fuochi umidi, vestite di pelli mal conciate,
creature spaventate dall’ignoto, da un sogno di abbandono e solitudine, in un’
epoca che non ha nome, da quel sogno nacqui io, Dama Tanachvil.
Gli uomini allora erano vicini alle creature dei boschi e
delle paludi, la loro vita era dura ed essenziale, ma i loro sogni erano già
forti e i loro incubi erano terribili e roventi. Di quest’epoca la memoria si
perde ogni istante di più, ed è con queste pagine che sulle mie spalle carico
il peso di strapparne il ricordo dalle spire del tempo, prima che le nebbie
dell’oblio lo inghiottano.
Ricordo un fiume, ricordo la notte e i sussurri e il mio
primo ricordo è la voce di mia madre. Dalle sue parole conosco il profumo di
mio padre, il vento dell’est, quel vento stesso che una notte arrivò, sulle
rive del fiume, a prendere l’innocenza e l’amore dello spirito acquatico che mi
diede la vita. Allora gli uomini non conoscevano ancora vergogna, onore,
doveri, vivevano con l’istintualità’ dei nostri fratelli animali e così faceva
lei, che non aveva nome, ne paura alcuna.
Ma la notte che mio padre giunse ad amare la fata del fiume
ogni cosa cambiò e quella stessa notte presi vita io, la malinconia,
l’abbandono, la paura della solitudine, quel sottile terrore di essere
disonorate, tradite, abbandonate, che da quel momento le donne della razza
umana provarono nel congiungersi col proprio amante, anima e corpo. Insieme a
me nacque la prudenza, l’astuzia, l’arte dell’inganno e l’istinto di fuga,
insieme a me che crescevo ogni notte di più, nel ventre di mia madre e nella
mente delle creature umane.
Prima di nascere conoscevo la voce di fata, i suoi
sussurri, conoscevo la civetta, messaggero della notte, conoscevo il cinghiale,
valanga dell’istinto, conoscevo il guizzare argenteo dei pesci, il ronzio caldo
delle api, il sibilo sottile delle serpi mi cantava la ninnananna, le fusa dei
felini come controcanto, nella notte e nel tempo senza appigli.
Ma i miei occhi non potevano vedere e il mio primo ricordo
d’ immagini è la mia stessa sensazione di presenza, circondata da una sottile
nube rossastra, scintillante e gioiosa. Ricordo il mio primo istante di vita
come se fosse appena accaduto, Mia madre, dissolta in brillanti scintille
cremisi, mi sorride e canta, mentre il vento, mio padre, la chiama dalle cime
degli alberi, per unirsi a lei, ancora, e ancora e ancora, per sempre.
Ero sola. Abbandonata. E sapevo ogni cosa, ma più di ogni
conoscenza era forte la consapevolezza dell’abbandono, il primo della mia vita,
la grande eredita’ di mia madre.
Conobbi gli uomini, i loro sogni lievi, i loro incubi
pulsanti, mi innamorai della forza del loro dolore, dell’energia delle loro
speranze, a quell’epoca visitavo le loro notti, a volte invisibile, a volte
manifesta, parlavo loro senza voce alcuna, portavo loro la voce dell’acqua e
del vento e fu da loro che seppi dell’esistenza di un’altra creatura di Sogno e
Incubo. Non conoscevo il suo nome, ma la paura e il fascino che sugli uomini
esercitava e all’epoca sentii come se avessi trovato in lui un fratello. In lui
era lo spirito del caos primigeno e immaginai che fosse antico quanto lo stesso
caos e la vita, lui era l’indistinta melma dell’incoscienza, il brodo
primordiale che tutto crea e tutto divora, era orrore ed energia creativa,
viveva tra l’incubo e la palude, signore di ogni cosa e del nulla, molto tempo
dopo seppi che il suo nome era Ikrnofrett, molto tempo dopo seppe che il mio
era Tanachvil.
Lo amai come si ama il proprio simile, osservandolo
attraverso gli incubi dei cacciatori, ma per molto tempo restai sola.
Non c’era la città, non c’era nulla che le somigliasse.
Poi il tempo passò e sui rilievi e le pianure gli uomini
impararono a proteggersi dall’inverno, a conservare ciò che conquistavano con
la caccia, a curare la Madre Terra in modo che concedesse loro i suoi frutti e
lentamente, con fatica, si liberarono dalla schiavitù dei propri bisogni.
Dalle grotte e i giacigli impararono a ricavare rifugi,
impararono come intrecciare, mescolare, chiudere, sino a costruirsi baluardi di
fango e sterpi contro l’inverno.
Vidi il nascere dei primi rudimenti di civiltà, ma queste creature ancora non avevano coscienza, non si conoscevano e non sapevano darsi un nome.
Ogni giorno però le loro abilità crescevano e ormai i loro
accampamenti parevano prendere una forma, era vicino il tempo in cui avrebbero
rotto la loro crisalide e avrebbero dato a loro stessi il nome di Etruschi.
Fu allora che mi spostai verso il monte, attraverso boschi
di infinita bellezza, cavalcando il vento, e assistetti al primo minuscolo
mattone che avrebbe composto un villaggio, quello che oggi, secoli e secoli
dopo, archeologi e studiosi hanno chiamato Monte Bibele, ma che allora non
aveva nome.
Accadde in quel momento.
Erano passati anni, forse secoli, allora non avevo
coscienza del tempo che passava, nemmeno so se esistesse il concetto di
scorrere del tempo, certo, le stagioni giravano, l’astro lucente sorgeva e
tramontava e la Signora della Notte prendeva il suo posto per poi addormentarsi
all’alba, ma ancora oggi non so stabilire quando fu esattamente che Lei
giunse.
Cantavo sulle rive di un torrente, nuda e senza tempo e d’improvviso ogni cosa vibrò e
sembrò illuminarsi, le nubi che ammantavano il cielo sembrarono tremare e
paralizzarsi. Mi sembrò che ogni essere del bosco, del monte e del piano fosse
immobile, in attesa e poi, dal villaggio, concreto, palpabile, arrivò il suono
di una voce, eppure le parole che udii non erano state pronunciate
”Io SONO”
Allora ogni cosa prese vita nuovamente, l’acqua cantò, gli
alberi scossero chiome e radici, il vento prese a danzare e danzando, nei suoi
cerchi, spazzò via la spessa coltre di nubi, rivelando lo splendore accecante
della Luna Piena sul bosco e il piano, inondando ogni cosa con la sua presenza,
dilagando in luce opalina, colmando ogni vuoto, donando il lume della coscienza
di essere, lenendo ogni dolore come un balsamo.
Piansi.
Per la prima volta, le mie lacrime di lava scorsero
torrenziali e calde, ma erano roventi fiumi di gioia e per la prima volta
parlai e col cuore colmo di potere ed estasi dissi “Madre!”
Piansi, perché sentivo che un’epoca era finita, che un giro
della ruota era completo, piansi, perché sentivo che una nuova epoca stava per
iniziare, che l’era che oggi chiamiamo
Eta’ del Sogno
aveva avuto inizio.
Tra di noi, creature di sogno e incubo, tra noi esseri dei
boschi e delle paludi, tra gli uomini e le donne dei rozzi villaggi, era
arrivata la splendente madre della Luna, la selvaggia cacciatrice, la signora
delle messi e della vita, l’oscura e lucente Regina delle cose che sono, furono
e saranno,
Damia.
Mentre i secoli passavano lenti come ingranaggi ciclopici,
Damia camminava e camminando dava vita al sogno di Felsina.
Ad ogni suo passo lieve nascevano desideri e sogni
dolcissimi, ad ogni suo passo grave sbocciavano incubi e silenzi innominabili,
ad ogni suo gesto gli alberi divenivano più verdi, i prati più morbidi, i
ruscelli più limpidi, ad ogni suo respiro le foreste si infittivano, le foglie
aprivano gli occhi e le bestie accorrevano, a darle il benvenuto.
Fu così, che una notte, una notte di cui non esiste la
data, Damia, Regina di Felsina, chiese al tronco nodoso di un Noce di piegarsi
per lei, alle sue fronde di divenire baldacchino, si sedette e attese.
La radura in mezzo agli alberi alti e scuri era rischiarata
dalla Luna crescente, foriera di ogni cosa nuova, l’aria era mite e
delicatissima.
Per un attimo il Vento divenne gelido e la Luna fu oscurata
da qualcosa di enorme, Damia sollevò lo sguardo verso il cielo e la vide. La
Signora di Felsina si alzò in piedi, per dare il benvenuto alla sua prima
suddita.
Dalla falce argentata della Luna ali nerissime di corvo
antico scesero in ampi giri, fino a compiere tre volte tre cerchi intorno al
trono della Regina, poi, quando l’alato mistero stava per posarsi, ci fu un
bagliore di oscurità e Northia posò il primo piede sull’erba umida e morbida.
Le sue ali nere di corvo si aprirono in tutta la loro
ampiezza, le sue braccia si spalancarono,
e i suoi occhi, ciechi e onniveggenti, si abbassarono col capo, per
rendere omaggio alla Signora.
Damia che si era alzata le andò incontro, sollevò il capo
alla fata dalle ali nere e la baciò sulla fronte, la baciò sugli occhi, la
baciò sulle labbra, la baciò sulle mani, il cuore, il ventre e i piedi e tutto
risplendeva attorno a loro, di oscura luce e splendente tenebra.
Il fato cieco e implacabile aveva preso il suo posto al
fianco di Damia.
Si dice che in quel preciso istante Northia abbia portato a
Felsina il suo dono e che prima ancora di dire qualsiasi altra cosa abbia
svelato a Damia, la giovane e antica Regina, il destino suo e di tutta la
corte, da quel giorno alla fine dei tempi, si dice che Northia abbia raccontato
ogni cosa, che avesse profetizzato, senza possibilità di errore, la mia
imminente venuta, tutto quello che seguì poi, fino ad ora, fino ai secoli del
Sogno Perduto, alle città fatte di ferro, e ancora oltre, sino alla fine di
ogni cosa.
Ma questo è qualcosa che solamente Damia e Northia
conoscono e il segreto è con loro, ovunque esse siano.
Io posso raccontare ciò che accadde poi.
Northia aprì nuovamente le scure ali lucenti e lasciò che
da ognuna cadessero dodici piume nere, che il vento sollevò in aria, facendole
danzare sempre più in alto, leggere, lente, solenni.
Poi, ognuna delle dodici piume di Corvo, si paralizzò nel
punto in cui si trovava, girò su se stessa, prima lentamente, poi sempre più
veloce, fino a divenire un turbine che per un istante confuse i sensi di Damia,
di Northia e i miei, che dal sentiero d’argento osservavo la scena.
Dal roteare delle piume si iniziò ad udire un mormorio, un
suono che gradualmente divenne una nenia, una melodia come di un ronzare di api
e allora ogni piuma si aprì come un fiore al mattino e da ognuna di esse
scaturì un’esplosione gloriosa di neri veli e bianche mani. Il mormorio divenne
un canto solenne e il canto divenne Sogno e il sogno divenne sacro. Le dodici
vestali del corteo di Northia presero posto cantando al suo cospetto,
inchinandosi in un istante eterno
davanti al trono di Damia.
Ma d’improvviso qualcosa accadde al fondo della radura, il cantò
fu ripreso da un’altra voce, più profonda, più antica, e il Sacro divenne Magia
e i veli di Notte cominciarono a tremare, la terra dinnanzi ai piedi della
Signora fece udire un cupo brontolio dalla profondità del suo cuore di fuoco.
Con lentezza millenaria eppure con rapidità innaturale, una
piccola figura guadagnò posizione al cospetto di Damia e quando le fu davanti
il fuoco fu la sua voce, rompendo le zolle di prato e zampillando attorno a
loro, in onore della Signora di Felsina.
Northia e Damia guardarono incuriosite la lava che si
intrecciava tra i capelli lunghissimi di una piccola fata ammantata di acqua e
di fuoco, che cantava il canto sacro delle Vestali come le Dodici da sole non
avrebbero mai potuto fare.
E allora io, Tanachvil Velcha, presi il mio posto come
Tredicesima, avvolgendomi nei veli e nel Fato del corteo di Northia.
Non ricordo con limpidezza tutto ciò che accadde poi, ma
ricordo che dopo di me, dalla notte e dall’incubo, apparvero creature di sogno
terribile e per la prima volta gli occhi della corte neonata si posarono sulle
figure di Sogni dalle braccia forti, risplendenti di segni magici, su volti
ruvidi e duri, su energie gloriosamente maschili e omicide, ricordo le corna,
affilate e ritorte, il sorriso sanguinario, la presenza tremenda e pesante di
Castor, ricordo l’imponenza orribile e senza malizia, la voce del sangue che
grida, la divertita e pura crudeltà di Pollux.
Ricordo l’arrivo di incubi e l’arrivo di sogni, nelle notti
e nei giorni giovani della Corte di Felsina.
Insieme e dopo i fratelli, arrivarono sogni dai colori
sgargianti e poi, un sogno bianco, un sogno tenero, che subito ai cacciatori
fece gola, un piccolo coniglio candido, che a grandi balzi prese posto tra la
fantasia degli uomini e quella dei bambini del popolo degli umani, e confortava
i loro sonni con canti intessuti di magia e donava loro piccole bacche dolci e
giocattoli di legno e pietra, alleviava loro il dolore e alle madri insegnava,
in silenzio segreti e astuzie da balia.
Selina arrivò molto prima che il suo vero compito venisse
rivelato al sogno.
Attorno ai fuochi di feste notturne gli occhi delle fate si
incontravano per la prima volta, i loro corpi si univano in danze di amore e di
morte, le braccia verdi e robuste di una creatura piccola e forte creavano per
la corte oggetti meravigliosi e Malachite, mezzosangue come me, divenne il
primo e il migliore fabbro che la terra di Felsina ricordi.
Non ricordo l’ordine in cui arrivarono o nacquero tutti, so
che ci sono falle nella mia memoria, ma ricordo il primo nostro vero Beltane,
che allora non chiamavamo così.
Intorno a grandi fuochi color cremisi facevamo danzare con
noi le bestie nostre sorelle e così Damia donava loro la sua benedizione e gli
uomini del popolo dei villaggi spingevano verso di noi i loro animali, perché
il loro ventre divenisse fecondo e il loro futuro meno incerto.
Mentre danzavamo attorno ai fuochi, Damia cantava e tutti,
ad uno ad uno, venivano presi da sacra passione, le Vestali cingevano di canti
la corte, cullandola, amandola a loro modo, ed io con loro giravo nel cerchio,
innalzando, alle stelle e oltre, l’energia di vita e gioia che la corte creava
nella sua danza sacra.
Poi accadde qualcosa, una giovane fata, una fata di cui non
ho ricordo prima e di cui non so dire se fosse già a corte o se fosse appena
arrivata, si levò col suo canto sopra ogni voce e Damia e il mondo tacquero per
onorare il suo canto.
Dalle sue dita venivano intessuti incantesimi, dai suoi piedi,
che battevano ritmici una danza sull’erba fresca, nascevano fiori, e le fiamme
divampavano e gli uccelli si destavano dal loro sonno e cantavano insieme a lei
e ogni cosa si faceva viva, pulsante, fertile.
Allora Damia pose sul suo capo una corona fatta dei fiori
più belli di tutto il regno e a lei la lasciò in custodia. A lei donò il
privilegio e l’onere di celebrare il sacro rito della notte di Calendimaggio,
inventato dalla corte quella notte stessa.
Così, Kadumba, fu proclamata Sacerdotessa di Maggio e
Felsina Tutta, quella notte, la onorò con doni e grande gioia.
Ma la coroncina di splendidi fiori suscitava i desideri di
molte altre fate e ognuna di loro avrebbe voluto portarla sul capo e ricevere i
complimenti e l’ammirazione che quella notte tutti portavano a Kadumba.
Così, mentre la Sirena delle acque fluenti cantava, mentre
la corte ascoltava ammaliata il suo canto stordente, qualcuno cominciò a dire
che forse quella corona spettava a lei, ad Artemisia, la voce dei flutti.
Qualcun altro levò la voce, resa barcollante dall’
ebbrezza, e affermò con sicurezza che senza dubbio alcuno, se il possesso della
corona fosse stato da mettere in dubbio, il magnifico oggetto sarebbe dovuto
spettare a Tamara, la felina fata dei colli di Roma.
Le voci divennero un brusio diffuso, il brusio divenne una
discussione animata e poi, velocemente, cominciarono ad accendersi i primi
fuochi di lite, che rischiavano di spegnere quelli della festa.
Allora Damia si alzò e ad un suo cenno impercettibile tutta
la corte tacque, in attesa di sentire la voce della Regina.
“I Sogni sono il bene più prezioso per chi li sogna, ed
ogni sognatore crede che il suo sogno sia il più bello, il più splendente e il
più desiderabile…” Damia, ammantata di potere e gloria, splendette come fuoco
di stella sulle sue genti, con la meraviglia degli Dei e la passione della
Terra “Non è possibile sapere,
Felsina mia, quale sia il sogno più ammaliante, il sogno più dolce, il sogno
più appassionante e non voglio che tra di voi scorra l’ira per questo.
Tuttavia…”Nei suoi occhi scorse un lampo di malizia creatrice “…Tuttavia
c’è un modo per soddisfare tutti e tutti scontentare. Un gioco…Io, Felsina mia,
ti propongo un gioco…”
Allora il mondo tacque e si fermò ad ascoltare, la ruota di
Northia ebbe un fremito e compì, impercettibile, un giro.
“D’ora in avanti, la corona di fiori di maggio verrà
contesa dalle dame della corte, ad ogni Calendimaggio, e la corte deciderà chi
sarà stata la più abile, la più astuta e la più bella. Ad ella andrà il premio,
ad ella il titolo di Reginetta di Maggio.”
Si udirono le risa, le grida e gli applausi della corte
tutta. Io e le vestali avemmo un tremito…sentimmo…Come descriverlo a chi non
possiede il dono della preveggenza? Sentimmo come se un nuovo filo fosse stato legato
al telaio del fato, un nuovo tassello fosse stato sistemato e, per un istante
subito caduto nell’oblio, potemmo vedere, tutte insieme, le future conseguenze
di quel gesto. Un brivido, poi Damia continuò:
“Molti onori vengano attribuiti alla Reginetta di
Maggio, fecondo sia il suo letto, felici i suoi amanti, prosperità benedica chi
con lei si congiunge, questo è il dono di Damia, Terra di Felsina, il mio dono”
E la festa riprese, turbinante e estatica, ogni Sogno prese
a danzare e a ridere e i fuochi accarezzavano piedi e labbra, mani e cuore
della corte nella sua prima notte di Beltane.
Potreste sentire molte altre storie su Felsina e il Piccolo
Popolo che la abita, non voglio dirvi se siano false o vere, quella che
troverete raccontata qui forse è soltanto la mia versione, quella di Dama
Tanachvil, questa è Felsina vista dai miei occhi, occhi di lava e malinconia.