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lunedė 11 aprile, verso le sei del pomeriggio: vespero | cornice III, il fumo avvolge ogni cosa | Marco
Lombardo ( Corrado da Palazzo, Gherardo da Camino e Guido da Castello) |
iracondi
avvolti da un denso fumo, che lo soffoca e acceca (come in vita si
lasciarono accecare e soffocare dall'ira). canto: Agnus Dei |
Comincia il canto decimosesto del Purgatoro. Nel quale l'autor mostra come, entrato nel fummo del terzo girone, dove si purga il peccato dell'ira, truova Marco Lombardo, il quale ragiona con lui del mondo ch'č guasto e della cagione. |
Buio
d'inferno e di notte privata d'ogne pianeto, sotto pover cielo, quant'esser puō di nuvol tenebrata, non fece al viso mio sė grosso velo come quel fummo ch'ivi ci coperse, né a sentir di cosė aspro pelo, che l'occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida mi s'accostō e l'omero m'offerse. Sė come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che 'l molesti, o forse ancida, m'andava io per l'aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva pur: ĢGuarda che da me tu non sia mozzoģ. Io sentia voci, e ciascuna pareva pregar per pace e per misericordia l'Agnel di Dio che le peccata leva. Pur 'Agnus Dei' eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo, sė che parea tra esse ogne concordia. ĢQuei sono spirti, maestro, ch'i' odo?ģ, diss'io. Ed elli a me: ĢTu vero apprendi, e d'iracundia van solvendo il nodoģ. ĢOr tu chi se' che 'l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calendi?ģ. Cosė per una voce detto fue; onde 'l maestro mio disse: ĢRispondi, e domanda se quinci si va sųeģ. E io: ĢO creatura che ti mondi per tornar bella a colui che ti fece, maraviglia udirai, se mi secondiģ. ĢIo ti seguiterō quanto mi leceģ, rispuose; Ģe se veder fummo non lascia, l'udir ci terrā giunti in quella veceģ. Allora incominciai: ĢCon quella fascia che la morte dissolve men vo suso, e venni qui per l'infernale ambascia. E se Dio m'ha in sua grazia rinchiuso, tanto che vuol ch'i' veggia la sua corte per modo tutto fuor del moderno uso, non mi celar chi fosti anzi la morte, ma dilmi, e dimmi s'i' vo bene al varco; e tue parole fier le nostre scorteģ. ĢLombardo fui, e fu' chiamato Marco; del mondo seppi, e quel valore amai al quale ha or ciascun disteso l'arco. Per montar sų dirittamente vaiģ. Cosė rispuose, e soggiunse: ĢI' ti prego che per me prieghi quando sų saraiģ. E io a lui: ĢPer fede mi ti lego di far ciō che mi chiedi; ma io scoppio dentro ad un dubbio, s'io non me ne spiego. Prima era scempio, e ora č fatto doppio ne la sentenza tua, che mi fa certo qui, e altrove, quello ov'io l'accoppio. Lo mondo č ben cosė tutto diserto d'ogne virtute, come tu mi sone, e di malizia gravido e coverto; ma priego che m'addite la cagione, sė ch'i' la veggia e ch'i' la mostri altrui; ché nel cielo uno, e un qua gių la poneģ. Alto sospir, che duolo strinse in Ģuhi!ģ, mise fuor prima; e poi cominciō: ĢFrate, lo mondo č cieco, e tu vien ben da lui. Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate. Se cosė fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto. Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto ch'i' 'l dica, lume v'č dato a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie col ciel dura, poi vince tutto, se ben si notrica. A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cria la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura. Perō, se 'l mondo presente disvia, in voi č la cagione, in voi si cheggia; e io te ne sarō or vera spia. Esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia, l'anima semplicetta che sa nulla, salvo che, mossa da lieto fattore, volontier torna a ciō che la trastulla. Di picciol bene in pria sente sapore; quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, se guida o fren non torce suo amore. Onde convenne legge per fren porre; convenne rege aver che discernesse de la vera cittade almen la torre. Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Nullo, perō che 'l pastor che procede, rugumar puō, ma non ha l'unghie fesse; per che la gente, che sua guida vede pur a quel ben fedire ond'ella č ghiotta, di quel si pasce, e pių oltre non chiede. Ben puoi veder che la mala condotta č la cagion che 'l mondo ha fatto reo, e non natura che 'n voi sia corrotta. Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, due soli aver, che l'una e l'altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo. L'un l'altro ha spento; ed č giunta la spada col pasturale, e l'un con l'altro insieme per viva forza mal convien che vada; perō che, giunti, l'un l'altro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga, ch'ogn'erba si conosce per lo seme. In sul paese ch'Adice e Po riga, solea valore e cortesia trovarsi, prima che Federigo avesse briga; or puō sicuramente indi passarsi per qualunque lasciasse, per vergogna di ragionar coi buoni o d'appressarsi. Ben v'čn tre vecchi ancora in cui rampogna l'antica etā la nova, e par lor tardo che Dio a miglior vita li ripogna: Currado da Palazzo e 'l buon Gherardo e Guido da Castel, che mei si noma francescamente, il semplice Lombardo. Dė oggimai che la Chiesa di Roma, per confondere in sé due reggimenti, cade nel fango e sé brutta e la somaģ. ĢO Marco mioģ, diss'io, Ģbene argomenti; e or discerno perché dal retaggio li figli di Levė furono essenti. Ma qual Gherardo č quel che tu per saggio di' ch'č rimaso de la gente spenta, in rimprovčro del secol selvaggio?ģ. ĢO tuo parlar m'inganna, o el mi tentaģ, rispuose a me; Ģché, parlandomi tosco, par che del buon Gherardo nulla senta. Per altro sopranome io nol conosco, s'io nol togliessi da sua figlia Gaia. Dio sia con voi, ché pių non vegno vosco. Vedi l'albor che per lo fummo raia giā biancheggiare, e me convien partirmi (l'angelo č ivi) prima ch'io li paiaģ. Cosė tornō, e pių non volle udirmi. |
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