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Il De Vulgari Eloquentia, scritto da Dante durante l'esilio, tra il 1303 ed il 1305, è un trattato in latino progettato in quattro libri, di cui solo il primo e parte del secondo furono portati a termine; la scelta del latino e l'andamento accademico lo destinano, a differenza del Convivio, ad un pubblico di specialisti, italiani e non.
Il tema delle risorse del volgare come lingua letteraria viene inserito in un elaborato quadro storico e filosofico, per giungere a un'analisi della situazione linguistica ai tempi di Dante.
L'opera si apre proclamando la supremazia del volgare, lingua naturale che si impara fin dall'infanzia, sul latino, ritenuto da Dante una lingua artificiale inventata dai dotti, che si apprende solo con lo studio; disegna poi un percorso storico che parte dalla lingua ebraica donata da Dio ad Adamo, per giungere all'episodio biblico della torre di Babele, causa della differenziazione linguistica.
Tra le lingue parlate al suo tempo, Dante si sofferma sul volgare del si, usato in Italia, e ne passa in rassegna 14 varietà regionali: nessuna di esse offre un linguaggio letterario degno di trattare argomenti elevati ed utilizzabile in ogni parte della penisola; esso dovrebbe essere infatti aulico e curiale, adatto cioè ad essere parlato nella corte d'Italia se essa fosse governata unitariamente da un principe. Poiché questa corte non esiste, occorre che, a creare un volgare illustre, cooperino i più validi letterati delle varie parti d'Italia, superando i particolarismi delle parlate locali, sull'esempio di quanto hanno iniziato a realizzare i poeti siciliani e stilnovisti. Il trattato si interrompe nel momento in cui Dante sta illustrando i caratteri dello stile tragico, il più elevato secondo la retorica medievale.
Tale testo costituisce il primo 'capitolo' della storia della questione della lingua.
Se vuoi, puoi leggere una sintesi estesa del contenuto dell'intera opera.
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