|
Attraverso la testimonianza di Cicerone, che si lancia in attacchi veementi contro la dottrina di Epicuro - prevalentemente in due opere, le Tusculanae disputationes e il De finibus bonorum et malorum, dandone una lettura politico-ideologica più che filosofica, è possibile capire come essa fu percepita e interpretata a Roma.
Cicerone non trascura innanzitutto agli epicurei l’accusa di viziosità: il piacere di Epicuro, con tutta la sua raffinata gamma di sfumature e la tendenza quasi ascetica ad allontanarsi da qualsiasi artificio nell’uso di quanto offre la natura, si trasforma nel godimento del vino e del sesso senza alcun limite. Allo stesso modo i divulgatori della filosofia epicurea tra il popolo, che pure ebbero un certo successo, sono bollati da Cicerone come edonisti e come cattivi scrittori che allettano la plebe con la proposizione di piaceri volgari. Questa accusa era certamente fondata, ma non aveva niente a che fare con la vera e rigorosa filosofia di Epicuro; si trattava di malevole e facili interpretazioni, forse dovute a maestri che non avevano lo stesso rigore del fondatore. Certo non era facile seguire le regole di Epicuro nella loro reale portata: lo stesso Epicuro, preoccupato per un eventuale fraintendimento della propria dottrina, afferma:
«quando diciamo che il piacere è il fine della vita beata, non ci riferiamo ai piaceri dei dissoluti e a quelli che si ritrovano nella soddisfazione dei sensi - come ritengono alcuni ignoranti che dissentono da noi o ci fraintendono -, ma all’assenza di dolore nel corpo e di turbamento nell’anima. Giacché non simposi e continue feste, non godere di giovanetti e donne, né gustar pesci o quant’altro offre una mensa sontuosa rendono dolce la vita, ma sobrio raziocinio che indaghi le cause di ogni scelta e rifiuto e bandisca quelle opinioni per le quali la maggior confusione si impadronisce degli animi»
(Epistola a Meneceo 130-132; trad. M. Positano).
Comunque l’interpretazione volgare dell’epicureismo è più un mezzo per screditare la dottrina che l’evocazione di un vero e proprio pericolo. È ben più grave agli occhi di un difensore accorto della secolare tradizione di impegno e sacrificio a favore dello stato come Cicerone che gli epicurei predichino il distacco dalla vita pubblica, la vita appartata come farmaco per giungere alla felicità.
Per capire il rapporto tra epicureismo e vita politica a Roma può essere esaminata la figura di Cesare: il suo epicureismo, che si prestò anche a interpretazioni volgari con riferimento alla sua propensione al vizio e ai piaceri, non gli impedì certo di partecipare alla vita pubblica. Del resto anche a Sallustio la giovanile simpatia per il pitagorismo non precluse la carriera politica e a Gaio Memmio, il discepolo di Lucrezio, gli insegnamenti del maestro non impedirono di seguire il cursus honorum e di ottenere il governatorato in Bitinia. Alcuni hanno pensato che la presenza di cesariani tra gli epicurei, le simpatie di Cesare e, al contrario, l’odio di Cicerone per la filosofia di Epicuro nascondessero un retroscena di ordine politico, vale a dire che l’ambiente del futuro dittatore avesse decise preferenze per una filosofia che, favorendo il disimpegno politico del cittadino, si era indirizzata a soluzioni monarchiche. In realtà proprio l’"incoerenza" di Cesare e di Memmio e le simpatie epicuree di Bruto e Cassio, uccisori di Cesare, e di Attico, amico di Cicerone, sono la prova che l’adesione all’epicureismo non sempre era coerente.
Infine uno dei principali motivi di sospetto verso la dottrina epicurea è la sua condanna della religio e l’idea dell’assenza di un piano provvidenziale che governi le azioni degli uomini: per gli epicurei, infatti, gli dèi vivono un’esistenza separata dal mondo e la religione è solo un’invenzione dell’uomo, uno degli "errori" che l’umanità ha compiuto in quanto non soccorsa dalla forza della ragione. A Roma invece la religione era un formidabile strumento di legittimazione del potere e di controllo delle masse: ogni manifestazione pubblica assumeva connotati religiosi; dai sacrifici ai giochi del circo, dai funerali di uomini illustri ai trionfi dei generali, persino l’attività politica e le pubbliche deliberazioni comportavano un cerimoniale religioso, e ogni errore invalidava l’atto. Quindi ogni negazione del culto previsto e codificato dalla tradizione si trasformava immediatamente in una pericolosa messa in discussione dell’autorità politica e dell’ordine costituito.