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Riprendendo le critiche già avanzate da Epicuro e tendenti a evitare i piaceri non necessari, Lucrezio si deve confrontare con una tradizione di segno opposto e con l’esperienza anticonformista dei poetae novi e della loro morale libera. Ne esce una satira violenta contro le lusinghe dell’amore e per certi versi il ritorno alla serietà della morale tradizionale.
1. L’EROS PLATONICO E L’AMORE-PASSIONE DELLA TRADIZIONE LIRICA
1.a. L’amore nei dialoghi platonici
Un’ampia sezione del libro IV del De rerum natura è dedicata alla passione amorosa e ai suo effetti devastanti sull’equilibrio psichico dell’uomo. Lucrezio ci offre in questo libro l’analisi “clinica” e la relativa terapia di una condizione che egli considera appunto patologica.
Una visione così pessimistica si doveva confrontare nell’antichità con idee e concezioni filosofiche sull’amore di natura completamente differente. La più nota di queste concezioni è la dottrina platonica, che riserva all’amore un’appassionata celebrazione. Il dialogo platonico nel quale è esposta questa concezione è il Simposio: il filosofo “mette in scena” un banchetto in cui alcuni dei più famosi personaggi della vita politica e culturale ateniese del V secolo a.C. pronunciano a turno un elogio di Eros, considerato dalla tradizione religiosa come un dio antico e potente. L’intervento più originale è senza dubbio quello del grande poeta comico Aristofane (vissuto tra il V e il IV secolo a.C.), che inventa un mito per spiegare la reciproca attrazione tra gli amanti e il loro desiderio di unirsi e di fondersi in un’unica entità.
Aristofane racconta che originariamente gli uomini erano costituiti da due metà, l’una maschile, l’altra femminile, oppure da due parti, entrambe dello stesso sesso. Tali creature primitive furono punite da Zeus per la loro sfrontatezza e tagliate in due per diminuire la loro forza. Da quel momento ciascuna metà desidera ardentemente di riunirsi con l’altra parte di se stessa per ricostruire l’unità originaria.
PLATONE
Dunque da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riporta all’antica natura. Ciascuno di noi, pertanto, è come una contromarca di uomo, diviso com’è da uno in due, come le sogliole. E così ciascuno cerca sempre l’altra contromarca che gli è propria.
(Simposio 191 c-d; trad. G. Reale)
LUCREZIO
Ma spesso la donna è sincera e mentre ricerca M insieme col maschio la gioia suprema lo sprona a toccare la meta d’amore. Altrimenti gli uccelli, gli armenti, le belve; le piccole bestie e le grandi e vacche e cavalle non potrebbero al maschio piegarsi e giacere se non le bruciasse d’amore natura e non fosse per loro una gioia l’assalto del maschio. Non vedi le coppie, legate a mutuo piacere, come soffrono strette nei ceppi comuni?
(De rerum natura IV 1195-1204; trad. E. Cetrangolo)
La posizione di Aristofane non coincide tuttavia con quella di Platone. Dopo gli elogi di Eros degli altri commensali prende la parola Socrate, portavoce dell’autore. Il maestro di Platone sostiene che Eros non è un dio, perché altrimenti possederebbe già bellezza e bontà; piuttosto è un demone, che aspira a possederle. Egli si rivela dunque filosofo in quanto desideroso di quella sapienza che ancora non gli appartiene.
PLATONE
La giusta maniera di procedere da sé o di essere condotti da un altro nelle cose d’amore è questa: prendendo le mosse dalle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere il Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così giungendo al termine, conoscere ciò che è il Bello in sé.
(Simposio 211 b-c; trad. G. Reale)
Nella concezione platonica dell’eros l’amore filosofico è indubbiamente superiore all’amore sensuale. Quest’ultimo però non rappresenta un ostacolo per la sapienza, ma in base al principio platonico dell’imitazione esso deve essere considerato un’immagine dell’eros spirituale: entrambi conducono a quella “generazione nella bellezza” che esprime un desiderio di immortalità, una tensione verso il sovrasensibile. Una lettura consigliata potrebbe a questo punto essere il Fedro di Platone, dove le idee sull’amore sono inserite in un meraviglioso quadro che tratta della sorte dell’anima.
1b. La tematica amorosa nella letteratura dell’età di Lucrezio: Catullo
Alcuni studiosi hanno ravvisato elementi epicurei nello spirito di
freschezza e di novità della poesia dei poetae novi e soprattutto
nell’anticonformismo della loro esperienza di vita: il culto per la poesia
leggera, il gusto del lepos - che come si sa è termine riferito al
fascino di Venere e alla grazia dello stile che compare nel proemio del
De rerum natura (I, 15 e 28) e nella dedica a Cornelio Nepote del
Liber di Catullo (I, 1) -, il culto dell’amicizia, il disinteresse per
la dimensione pubblica dell’esistenza unito al disprezzo per la fama, la
gloria militare, le ricchezze ottenute a costo di gravi rischi. Tuttavia
l’amore come esperienza totalizzante che non va evitata, ma che assume anzi
il carattere di una vera e propria ragione di vita, l’elemento fondamentale
dell’esperienza neoterica, bastava a segnare la distanza con il pensiero
degli epicurei e a costruire un’immagine completamente diversa, e per certi
versi meno tradizionale, dell’eros. A questa nuova concezione contribuivano
essenzialmente due elementi: da un lato la nascita della dimensione
dell’otium, cioè della vita privata, a spese delle pubbliche virtù del mos
maiorum, dall’altro una parziale emancipazione sociale, economica, giuridica
e sessuale delle donne dei ceti elevati. Come Lesbia appunto.
La vicenda poetica ed esistenziale di Catullo è in questo senso esemplare. Leggiamo due passi emblematici: nel primo il poeta rivolge un’accorata preghiera agli dèi perché lo liberino dal tormento della passione; nel secondo, la chiusa della traduzione-rielaborazione della più famosa ode di Saffo (fr. 31 Lobel-Page), constata amaramente la causa dei suoi mali:
CATULLO
O dei, se è vero che siete misericordiosi, o se mai proprio in punto di morte avete recato a qualcuno l’aiuto supremo, volgete lo sguardo su me infelice e, se sono vissuto senza colpa, strappatemi dal cuore questo male che mi conduce a rovina [...]
Sono io che voglio guarire e liberarmi da questo male oscuro. 0 dei, fatemi questa grazia in cambio della mia devozione.
(carme LXXVI, 17-20; 25-26; trad. F. Della Corte)
L’ozio, o Catullo, ti è molesto:
a causa dell’ozio ti esalti e troppo ti agiti:
l’ozio ha perso regni e città
un tempo felici
(carme LI, 13-16; trad. F. Della Corte)
2. L’ANTIEDONISMO DELLA TEORIA DEL PIACERE DI EPICURO E IL RITORNO ALLA MORALE TRADIZIONALE IN LUCREZIO
2a. L’antiedonismo della teoria epicurea del piacere
Epicuro aveva classificato i piaceri in tre categorie: 1) naturali e necessari; 2) naturali ma non necessari; 3) né naturali né necessari. In questo quadro l’amore carnale era collocato all’interno della seconda categoria: esso è, per Epicuro (Epistola a Meneceo 132) un ostacolo all’atarassia in quanto fonte di turbamento e di continua inquietudine. Lo stesso amplesso veniva ritenuto da Lucrezio, in una realistica rievocazione (De rerum natura IV, 1077 e ss., vedi punto 1a.), fonte di un piacere incompleto e illusorio; per Epicuro poi l’atto sessuale poteva essere addirittura dannoso. Dalla condanna non si salva neppure l’amore coniugale: il saggio infatti deve preferire al matrimonio quell’amicizia nella quale il filosofo indicava uno dei valori più alti. E un atteggiamento antiedonistico che entra in conflitto con l’immagine vulgata del piacere epicureo.
Una testimonianza in tal senso ci viene da Diogene Laerzio (III secolo d.C.) nella sua opera sulla vita e la dottrina dei filosofi antichi:
DIOGENE LAERZIO
Gli epicurei ritengono che il saggio non debba innamorarsi [...]. Sostengono che l’amore non è mandato dagli dei [...]. Sostengono che l’amplesso non giova mai, c’è da contentarsi che non nuoccia. Il saggio non dovrà sposarsi né avere figli, come dice Epicuro nei Casi dubbi e nei libri Sulla natura; se si sposerà lo farà solo in circostanze particolari della vita; in certi casi poi se ne asterrà di proposito.
(Vite dei filosofi X, 118 e 119; trad. M. Isnardi Parente)
2b. Il piacere erotico come illusione in Lucrezio
In versi celebri Lucrezio smonta l’enfasi neoterica per l’amour-passion svelando gli inganni e le civetterie delle donne (De rerum natura IV, 1155-1169) e procedendo a un ribaltamento sistematico di tutti i tópoi della lirica d’amore, soprattutto il motivo del servitium amoris (IV, 1052-1057). Il piacere amoroso si rivela illusorio perché Venere inganna gli amanti insinuando nell’amante i simulacra della persona amata; si genera il desiderio che, contrariamente alla legge di natura e a quanto affermano i poeti d’amore, non è placato dalla presenza della persona amata, ma fa ardere il petto di feroce passione (dira cuppedine, IV, 1090). La perdizione fisica ne è la conseguenza. Un ultimo argomento contro l’amore viene preso dalla morale tradizionale romana: l’illusione d’amore conduce l’infelice amante alla rovina economica, e con le sostanze della famiglia se ne va anche la fama. È meglio quindi dimenticare qualsiasi idea romantica dell’amore e considerarlo, come vuole il maestro Epicuro, solo un piacere naturale non necessario, da soddisfare con una sessualità “fisiologica”, lontana da qualsiasi complicazione affettiva.
Dopo che si è evidenziato per entrambi una sorta di ritorno alla tradizione, è da notare un’ultima convergenza tra Lucrezio e Catullo, due poeti per molti lati così lontani. Nel poeta epicureo l’ansia di diffondere l’insegnamento del maestro o la disillusione per i vani atteggiamenti degli uomini lo riporta a volte a cullarsi nell’etica tradizionale e nell’ossequio al passato; nonostante il rifiuto dell’età dell’oro, per esempio, Lucrezio idealizza la vita “naturale” dei primi uomini, lontani dal progresso ma anche dal vizio.
Allo stesso modo il Catullo disilluso dei carmi del discidium, del distacco da Lesbia, si aggrappa disperatamente al concetto religioso di fides mutuato dal mos maiorum e giunge a interpretare il suo rapporto con la donna nei termini altrettanto sacri del matrimonio. Non è un caso che anche Lucrezio concluda la digressione sull’amore dando un quadro positivo della vita affettiva nel rapporto tra un uomo e una donna in cui la consuetudo ha sostituito la passione amorosa: sembra di cogliere un’affinità tra la serenità del vincolo matrimoniale e il valore dell’amicizia, unica fonte di piacere nelle relazioni umane.
Confronta il seguente testo di Lucrezio sull’amore coniugale con le idee del maestro, mediate dal commento di Cicerone, che nel corso del ragionamento sembra essere dalla parte della visione fisiologica del sesso, come pura attrazione, propria di Epicuro. Forse almeno in questo punto Lucrezio si stacca da lui.
LUCREZIO
Non è per influsso divino né per le frecce di Venere che a volte si ama una donna di poca bellezza. La femmina stessa talvolta, con modi gentili e modesti, col nitore del corpo, può indurti a trascorrere i giorni, la vita, con lei. L’abitudine poi produce l’affetto [...].
(De rerum natura IV, 1278-1283; trad. E. Cetrangolo)
CICERONE
Veniamo ai maestri di virtù, ai filosofi, che dicono che l’amore non ha niente a che fare con la libidine, e in ciò disputano con Epicuro, che, a mio avviso, non è poi tanto in errore. Che cos’è infatti codesto amore dell’amicizia? Perché nessuno ama un giovane brutto né un vecchio bello?
(Tusculanae disputationes IV, 70; trad. G. Burzacchini e L. Lanzi).
Tratto da M. Menghi, Novae voces, Lucrezio, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori 2007, pp. 138-143