L'eros secondo Lucrezio

 

L’epicureismo, come del resto le altre filosofie ellenistiche, è una dottrina a forte impronta terapeutica, poiché intende guarire l’uomo dalla sofferenza, affrancandolo dalle sue grandi paure e passioni. Se si tratta della paura della morte o di quella degli dèi, ad affrancarcene sarà una corretta conoscenza della natura mortale di anima e corpo o della vera condizione della divinità. Se si tratta dell’ambizione, della passione del potere o della ricchezza, a guarircene sarà l’educazione a soddisfare i bisogni elementari in un contesto di serena amicizia e di reciproco aiuto. Se si tratta infine della sofferenza che troppo spesso si instaura nei rapporti d’amore, a liberarcene sarà sempre la conoscenza della fisiologia e delle motivazioni del desiderio.

 

1. L’EROS SECONDO PLATONE E ARISTOTELE

Platone aveva collocato il desiderio erotico nell’anima concupiscibile, situata a sua volta nei visceri e negli organi sessuali. Questa parte dell’anima (l’epithymetikón) doveva essere costantemente controllata dall’anima razionale (il logistikón) in alleanza con l’anima irascibile (lo thymós), perché solo con l’imposizione di un comportamento temperante essa avrebbe potuto contribuire al buon equilibrio dell’individuo e dunque alla concordia della comunità politica di cui egli è parte. Come si legge nel libro VIII della Repubblica (559 e ss.), infatti, il venir meno di questa azione di controllo porrebbe sullo stesso piano tutti i desideri umani (da quello della conoscenza, il più nobile, a quello del potere, della ricchezza, fino al più pericoloso di tutti, quello appunto dell’eros) e porterebbe all’anarchia nell’individuo e di conseguenza all’insorgere della tirannide nella città.

Aristotele compie una delle sue operazioni concettuali più sottili rispetto al maestro trasformando l’epithymía erotica platonica nella funzione fisiologica della riproduzione, come pure il desiderio di cibo e di bevande in funzione fisiologica dell’alimentazione. La terza parte dell’anima, infatti, non è più per Aristotele l’”anima desiderante” (epithymetikón) di Platone, bensì l’”anima nutritiva” o “vegetativa” (threptikón, phytikón), organica e pertanto solidale con le esigenze e le condizioni del corpo. I suoi desideri escono così dalla dimensione della turbolenza psicologica (che necessita la costante azione repressiva della ragione e dello thymós platonici) per entrare in quella della normalità biologica, sorvegliata dalla semplice azione moderatrice della ragione, la stessa che un buon padre - secondo l’esempio spesso evocato da Aristotele - esercita all’interno della propria famiglia per garantirne un sereno equilibrio.

Gli epicurei, gli stoici, e con loro i medici alessandrini, operano all’indomani di questa rivoluzione “fisiologica” dell’anima e delle sue prerogative, e in modi diversi la proseguono, la integrano o la modificano anche per quanto riguarda il problema dell’eros.

 

2. L’EROS SECONDO LUCREZIO

Lucrezio, che è la nostra fonte privilegiata per quanto riguarda la concezione epicurea dell’amore, riconduce il desiderio erotico tra quelli naturali (l’esperienza del piacere, la procreazione) ma non necessari, per poi mettere in guardia il suo lettore-discepolo affinché non lo trasformi in volontà di possesso del proprio partner o di fusione con lui: si tratterebbe infatti di un desiderio irrealizzabile, e quindi destinato a veicolare sofferenza certa. Il desiderio erotico è resentato come del tutto naturale (De rerum natura IV, 1037-1048).

Ma dopo la descrizione della naturalità del desiderio erotico, che l’uomo potrebbe soddisfare proficuamente se solo si limitasse ad avere rapporti amorosi senza illusioni di possesso (cfr. vv. 1063-1075), Lucrezio si richiama alla teoria dei simulacra - le “pellicole atomiche” che si distaccano dalla superficie dei corpi e ci permettono di conoscere la realtà, dunque anche i nostri simili -, per ricordarci che della persona amata non possiamo avere altro che queste immagini inconsistenti: pertanto ogni tentativo di impadronirsi del corpo della persona amata o di diventare tutt’uno con lei non solo non sarà mai soddisfatto, ma sarà anche fonte di sicura sofferenza (De rerum natura IV, 1091-1096). Il concetto viene ribadito con la descrizione dell’amplesso, il momento più carico di questo tipo di illusioni (De rerum natura IV, 1105-1111).

A questa vana illusione, si aggiungono altri pericoli per gli innamorati: la dispersione delle proprie forze, il trovarsi in balia dell’amato, il dilapidare la propria sostanza, il trascurare i propri doveri, o infine, il patetico delirio dell’innamorato che scambia i difetti della persona amata per qualità. Paradigma del buon comportamento amoroso è il mondo animale, che si limita a seguire gli impulsi della natura e a propagare la specie, come si legge nei primi versi del poema (De rerum natura I, 10-20), o nel paragone tra la donna onesta e generosa e le femmine degli animali (De rerum natura IV, 1192-1200).

 

3. L’EROS SECONDO LO STOICISMO

Per gli stoici, l’amore è di per sé un impulso naturale, ma rientra nella temibile dimensione passionale non appena oltrepassa la giusta misura che è regolata dalla ragione. Il medico e filosofo Galeno (II secolo d.C.) ci riporta questa preziosa testimonianza di Crisippo (III secolo a.C.), il sistematizzatore dello stoicismo antico, riferita alla dinamica degli impulsi naturali in genere:

In questo senso si è parlato anche della smodatezza dell’impulso, in quanto esso oltrepassa quella simmetria naturale che gli è propria. Ciò che intendo dire diverrà più chiaro con questi esempi. Il movimento delle gambe nel camminare non supera una certa misura rispetto all’impulso, ma corrisponde ad esso in maniera tale che, se si voglia, ci si può fermare e cambiare strada. Se invece si corre, tale movimento non si verifica in questa misura, ma la supera in eccesso, di modo che si è trascinati in avanti e non si può facilmente cambiare strada, una volta che così si è cominciato. [...] Insomma, nel caso della corsa si verifica un eccesso rispetto all’impulso, nel caso dell’impulso si verifica un eccesso di questo rispetto alla ragione. La giusta misura dell’impulso naturale è quella regolata dalla ragione, fino a tanto che questa agisca e fino a tanto che lo consideri opportuno.

(De placitis Hippocratis et Platonis IV, 2; trad. M. Isnardi Parente)

 

Quanto all’amore, non è un caso che Seneca, stoico di età imperiale, nel suo trattato De matrimonio, per noi perduto ma in parte citato da Gerolamo nell’Adversus Iovinianum, così si esprima sul rapporto uomo-donna:

Ogni amore con la donna di un altro è una vergogna, ma lo è anche con la propria, se non evita l’eccesso. Il saggio deve amare sua moglie secondo ragione, senza abbandonarsi alla passione: gestisce infatti gli impulsi del piacere senza gettarsi con precipitazione nel coito. Nulla è peggio di amare la propria donna come se si trattasse di un’amante.

(De matrimonio, framm. 84-85 Haase; trad. M. Menghi)

 

Più che i risvolti sociologici di questa testimonianza, per cui Seneca, e non è l’unico al suo tempo, vieta l’adulterio tanto per la donna quanto per l’uomo, sanzionandone anche la passionalità che di solito vi si esprime, è l’insistenza su una gestione razionale del sentimento d’amore che qui soprattutto interessa. Come si verifica secondo gli stoici lo scivolamento dell’amore nella passione, e quali sono i suoi effetti sul soggetto?

Per lo stoicismo la passione è un impulso eccessivo che sfugge al controllo della ragione, ma nel momento in cui ciò si verifica, il portato passionale finisce col diventare una seconda natura della nostra anima (che è solo ragione) e col sopraffarla, come un cancro invade un corpo sano. Ma qual è la dinamica? La ragione, strumento di conoscenza sovrano di noi stessi e del mondo che ci circonda, ha la possibilità, anche riguardo alla nostra condotta morale, di giudicare in anticipo se il nostro comportamento sarà buono o malvagio grazie a “rappresentazioni” esterne di noi stessi o di altri (le phantasiai), che di volta in volta può accettare e fare proprie, oppure rifiutare. Le accetta se esse sono conformi alla ragione, le rifiuta se non lo sono. La nostra anima sarà dunque invasa dalla passione nel momento in cui la ragione esprime un giudizio errato su una rappresentazione esterna che sarebbe da rifiutare e che invece accoglie. Riprendendo gli esempi di cui sopra, il saggio sa in anticipo che correre a perdifiato è pericoloso perché non ci si può fermare quando si vuole, e quindi cammina, soddisfacendo in modo “ragionevole” il naturale impulso umano di muoversi. Quanto all’amore, il saggio sa anche che ogni comportamento passionale nei confronti del proprio partner (la gelosia, un eros sfrenato, la volontà di possesso, la trasgressione del proprio dovere) è nocivo per l’anima, e quindi lo rifiuta in anticipo.

Seneca, nel suo intento educativo-didattico, affida alle sue tragedie (come pure al trattato De ira) il compito di prospettare al suo pubblico il danno che possono arrecare alcune phantasíai errate nel momento in cui la nostra ragione le accoglie. Si tratta della strategia dell’eikasmós, della rappresentazione, a scopi profilattici, degli effetti devastanti della passione (lo stesso, del resto, faceva Crisippo con le tragedie di Euripide). Così, per quanto riguarda la dinamica e il danno di un amore non razionale, egli nella tragedia Fedra ci mette a parte della vicenda della moglie di Teseo, che si innamora perdutamente del figliastro Ippolito. Potrebbe trattarsi di una semplice phantasía, destinata a essere rifiutata dalla ragione, ma Fedra se ne lascia lusingare, attratta dal brivido dell’incesto e dal piacere che le deriva dal fatto di vincere passo dopo passo le proprie paure. Il tarlo dell’amore la invade a poco a poco, la rende folle: infine, approfittando dell’assenza del marito (in viaggio agli Inferi dove si è recato per riportare Proserpina sulla terra), la donna decide di dichiararsi a Ippolito, cominciando col rifiutare l’appellativo di madre con cui egli, in segno di rispetto, era solito chiamarla. Ecco le sue parole:

 

FEDRA

Quello di madre è un nome solenne, troppo importante: un nome più umile si adatta meglio a quello che sento. Chiamami sorella, Ippolito, o schiava, sì, schiava è meglio. Per te sopporterò ogni prova. Se tu me lo chiedessi, attraverserei le alte nevi, calcherei i gioghi ghiacciati del Pindo; se tu me lo ordinassi, non esiterei a passare attraverso i fuochi e le schiere nemiche, offrendo il mio petto alle spade sguainate. Prendi il potere e tienimi come una schiava: il regno non fa per una donna. Tu invece, che hai il fiore primaverile della gioventù, reggi da forte i tuoi sudditi col potere di tuo padre; proteggi una supplice, la tua schiava, dopo averla presa tra le tue braccia; abbi pietà di una vedova.

(Fedra 609-623; trad. M. Menghi)

 

“Schiava” della passione, “vedova”, non solo del marito che spera non ritorni più dal suo viaggio, ma anche della ragione, Fedra è disarmata di fronte al proprio male e destinata a una fine orrenda. Al rifiuto sdegnato di Ippolito, seguono infatti l’ira di Teseo finalmente tornato, le menzogne della moglie che accusa il figliastro di aver tentato di sedurla, la maledizione del padre sul figlio, la tragica morte di costui e infine il suicidio di Fedra. Come l’ira, l’invidia, o il desiderio di potere e di ricchezza, anche la passione d’amore “ammala” l’anima nello stesso modo in cui gli agenti patogeni ammalano il corpo. La passione è dunque malattia.

È il caso di soffermarsi brevemente sulla natura delle phantasíai, oggetto di tanta attenzione da parte degli stoici. A differenza dei simulacra epicurei, che entrano nell’anima del soggetto indipendentemente dalla sua volontà e ne stimolano il desiderio amoroso, l’accogliere o il rifiutare le phantasíai implica per gli stoici un atto volontario, dunque una precisa responsabilità morale, conseguenti al giudizio che la ragione esprime su di esse. Anche le phantasíai erotiche non sono altro che l’oggetto del desiderio di comprensione-possesso che deriva dall’assensio dato a esse dalla ragione. Ma tale desiderio diventa tutt’uno con i suoi desiderata, per il fatto di essere speranza, attesa, anticipazione del godimento di una determinata phantasía. Desiderare è possedere in anticipo, come dice il Vangelo di Matteo (5, 28): «Chi guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore». Il soggetto è insomma attivo e responsabile in questo processo, e non più passivo come chi per Lucrezio è visitato ed eccitato dai simulacra di corpi seducenti.

 

Tratto da M. Menghi, Novae voces, Lucrezio, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori 2007, pp. 126-130


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