I Romani e l'amore

 

LA TESTIMONIANZA DI LUCREZIO

Nel corso della sua lunga e sarcastica descrizione delle lusinghe d’amore Lucrezio sembra confermare l’immagine comunemente diffusa della sessualità a Roma: egli esordisce infatti con una disamina su basi fisiologiche del rapporto amoroso escludendone la componente affettiva, per poi dispiegare un attacco contro la passione amorosa sentita come fonte di schiavitù per t’uomo, una debolezza degna di un poeta elegiaco e del suo otium. Si tratta dunque di un attacco alle forme libere e rivoluzionarie nei rapporti tra i sessi che si stavano introducendo in Roma, di una decisa negazione della libertà dei costumi sviluppatasi di pari passo con la penetrazione del I’otiuni privato nei suoi vari aspetti. In questo Lucrezio si trova al fianco della morale tradizionale: egli sottolinea soprattutto l’aspetto avvilente dell’infatuazione amorosa dal punto di vista del vir Romanus, che rischia, se sottoposto a una donna o a un altro uomo, di non essere più vir nel pieno dei suoi diritti. Due corollari sono evidenti in questa posizione: che il sesso, per certi versi libero, viene scisso da qualsiasi forma di affetto o di amore in senso romantico-borghese, e in secondo luogo che la posizione del maschio risulta dominante e questo genera disparità nel rapporto tra amante e amata (o amato).

 

LA LIBERTÀ SESSUALE A ROMA

La grande libertà sessuale del mondo romano, o meglio la mancanza di quelle limitazioni che poi introdurrà il cristianesimo (rapporti solo eterosessuali finalizzati alla procreazione nell’ambito del matrimonio; predominio della componente dell’affetto e della solidarietà), è riconducibile a cause ben precise.

La prima è la disponibilità assoluta, materiale, ma anche affettiva e sessuale, degli schiavi, o comunque una disparità tra le classi sociali ideale per perpetuare quella disparità di rapporto amante-amata/o di cui si è detto sopra. Tacito (Annales XIV, 42, l) ci tramanda un evento tragico: «Non molto tempo dopo il prefetto della città Pedanio Secondo fu ucciso da uno schiavo, o perché gli avesse negato la libertà, per la quale aveva già patteggiato il prezzo, o perché lo schiavo, preso d’amore per un amasio, non avesse tollerato nel padrone un rivale». Tacito si riferisce al fatto, eccezionale, che lo sfortunato prefetto era caduto vittima di una rivalitàamorosa omosessuale nella sua domus; è evidente che abusi da parte del padrone sugli schiavi dovessero essere la norma, mentre non era normale che uno schiavo si ribellasse in questo modo. Ancora più indicativi sono i piccanti ricordi di gioventù di Trimalcione, il ricco liberto protagonista della parte giunta fino a noi del Satyricon di Petronio, che diede precocemente inizio a una fortunata carriera come schiavo sessuale dei suoi primi padroni (Satyricon 75, 1 I ).

La seconda causa è la grande diffusione della prostituzione nelle città romane (e mediterranee in generale). Come ci informa la commedia antica, la prostituzione era anche incentivata dalla pratica di esporre i neonati indesiderati, in special modo le femmine, che venivano spesso raccolte e avviate su questa strada (e talvolta dotate di un’istruzione che le donne “oneste” non ricevevano). La prostituzione non solo era del tutto legale, ma era accettata anche dai tradizionalisti come una componente essenziale dell’ordine sociale, una valvola di sfogo per gli istinti sessuali utile a preservare l’integrità delle famiglie: sarà anche per questo che Cicerone non solo non pensa a interdire ai giovani la frequentazione delle prostitute, ma la ritiene una pratica non estranea «alla morale e alla tolleranza dei nostri antenati» (Pro Caelio 48). È evidente peraltro che l’altissimo numero di prostitute nelle città antiche (ma anche in metropoli come la Venezia del Cinquecento o la Londra e la Parigi dell’Ottocento, o anche in alcune città contemporanee del Terzo Mondo) è dovuto sia alla concentrazione di ricchezza nelle città stesse, sia alle condizioni di miseria materiale di gran parte della popolazione, che faceva dei mestieri sessuali una forma di sussistenza quotidiana (meretrix, “colei che guadagna”): lo dimostra il fatto che, al di là dei rapimenti o delle esposizionidi fanciulli, spesso erano le madri a offrire i propri figli a chiunque potesse pagare. A Crotone, la scena della seconda parte del Satyricon, viveva una matrona «tra le più rispettabili» che campava «appioppando figlio e la figlia a vecchi senza prole» perché si procacciassero l’eredità in cambio dei loro favori (Satyricon 140).

L’omosessualità poi era ammessa e praticata in Grecia e a Roma. Tuttavia nel mondo greco sussisteva un rapporto “pedagogico” tra erastés ed erómenos, cioè tra amante e amato, rapporto evidente per esempio tra Socrate e Alcibiade suo discepolo, mentre a Roma questa dimensione non esisteva. L’omosessualità era tollerata, anche se chi la praticava era oggetto di commenti malevoli; soprattutto era particolarmente disonorevole che un uomo di alto rango tenesse un ruolo passivo nel rapporto perché questo minava il concetto di virilità: lo testimoniano le offese che talvolta sono rivolte a uomini politici dai loro avversari oppure, anche, gli insulti osceni che, come voleva il costume tradizionale, i soldati di Cesare indirizzavano al loro generale durante i trionfi.

Da ultimo, bisogna tenere presente la relativa libertà sessuale delle donne romane di alta condizione rispetto, per esempio, alla posizione più sottomessa della donna libera greca. La Lesbia di Catullo, le donne dei poeti elegiaci e la Sempronia che partecipa alla congiura di Catilina ne sono un esempio. Questa libertà si sviluppò soprattutto alla fine della repubblica e coincise con una maggiore emancipazione della donna a livello economico e giuridico e quindi con il decadere dell’istituto tradizionale del matrimonio. Ciò tuttavia non impedì la condanna morale: i comportamenti troppo liberi delle donne furono sempre oggetto di riprovazione da parte dei tradizionalisti e dei benpensanti.

 

L’AFFETTO TRA I CONIUGI

Va peraltro ricordato che a questo quadro generale di libertà sessuale, soprattutto da parte maschile, fanno riscontro forme di convivenza alle quali non era estranea la dimensione degli affetti, nelle quali si andava oltre il vincolo giuridico del matrimonio o la pura ricerca della soddisfazione sessuale: È un’ipotesi del filosofo Michel Foucault e dello storico Paul Veyne che il comportamento maschile e l’etica familiare cambiarono già tra gli ultimi anni della repubblica e la prima età imperiale (e quindi non per l’influsso del cristianesimo, portatore dell’idea di uguaglianza tra i sessi e della dignità di “sacramento” del vincolo matrimoniale) nel segno della fine della logica dello stuprum, la rapacità sessuale, che aveva caratterizzato i rapporti tra il pater familias e i suoi sottoposti, dalla moglie agli schiavi della casa. Si verifica la nascita di una nuova aristocrazia, un’aristocrazia di funzionari uguali tra loro di fronte al potere imperiale, che sostituisce la nobiltà repubblicana mossa dalla logica “violenta” della concorrenza per le cariche pubbliche; questa nuova prospettiva avrebbe mutato la psicologia “virile”, di capo, del nobile romano e l’avrebbe costretto a dare un’immagine di urbanità che fra le altre cose comportava rispettabilità sessuale, continenza, affetto verso la moglie, non più considerata una parte del patrimonio, ma come una compagna da rispettare e sulla quale fare affidamento. Sempre a patto, peraltro, che la moglie o la compagna si mantengano su un livello di rispettosa deferenza nei confronti del marito e delle sue attività, come dimostra il rapporto non impositivo, ma comunque paternalistico tra Plinio il Giovane e la sua terza moglie, l’adolescente Calpurnia. Così Plinio scrive a una zia della ragazza: «Io non dubito che sarà una fonte di grande piacere per te sapere che si è rivelata degna di te e di suo nonno. La sua oculatezza e la sua parsimonia sono della più alta qualità: mi vuole bene, il che è indizio della purezza del suo cuore. A queste virtù si aggiunge un interessamento per la letteratura, che essa ha sviluppato per affetto nei miei riguardi. Ha in mano i miei lavori, li legge frequentemente e addirittura li impara a memoria. Che ansietà prova quando sono sul punto di parlare in tribunale! Quale gioia prova quando ho finito!» (Epistulae IV, 19).

Ma del resto anche Lucrezio, al termine della sua descrizione dei mali dell’amore, lascia un quadro positivo dell’affetto coniugale: «La femmina stessa talvolta, con modi gentili e modesti, col nitore del corpo, può indurti a trascorrere i giorni, la vita con lei. L’abitudine, poi, produce l’affetto: ché il medesimo oggetto, battuto da colpi continui, anche lievissimi, cede ed è vinto con l’andare del tempo» (IV, vv. 1280-1285).

 

Tratto da M. Menghi, Novae voces, Lucrezio, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori 2007, pp. 100-101


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