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Conferenza tenuta dalla prof.ssa Ilaria Ramelli e poi trasformata in un articolo apparso in «Aevum» LXX (1996), pp. 75-80, dal titolo Petronio e i Cristiani: allusioni al vangelo di Marco nel Satyricon?
Sommario:
1. L'intertestualità come chiave di lettura del romanzo antico
E’ noto che il Satyricon costituisce,
insieme alle Metamorfosi di Apuleio, l’unico testo della letteratura latina
appartenente al genere del romanzo, e che con questo titolo noi indichiamo in
realtà un amplissimo frammento di un’opera la cui estensione precisa ci
sfugge: la tradizione manoscritta ce ne ha conservato solo i libri XV e XVI, e
parte del XIV.
Del genere letterario del romanzo in generale, e quindi anche del romanzo
antico e del Satyricon in particolare, si è occupato uno studioso, M. Bachtin,
con un saggio del 1979 dal titolo Estetica e romanzo (Einaudi 1979), al quale
è opportuno rifarsi per inquadrare correttamente il testo nei suoi elementi
strutturali. Assunto fondamentale del saggio di Bachtin è che il romanzo come
genere sia per sua natura polifonico, cioè che sia caratterizzato dalla
molteplicità come elemento distintivo: essa si manifesta a livello delle voci
narranti, dei punti di vista della narrazione e anche della molteplicità dei
generi letterari che il romanzo come un raccoglitore può accogliere ed
inglobare al proprio interno; la pluridiscorsività che si realizza in questo
modo nel romanzo è ciò che ne costituisce la struttura costante in tutte le
epoche del suo manifestarsi. Bachtin applica questa categoria interpretativa
anche al romanzo antico, che egli distingue in tre tipologie differenti che si
possono così riassumere: 1) il romanzo "di avventure e di prove",
rappresentato eminentemente dal cosiddetto "romanzo greco" o
"sofistico": le Etiopiche di Eliodoro, Leucippe e Clitofonte di
Achille Tazio, Le avventure di Cherea e Calliroe di Caritone, Abrocome e Anzia
o Racconti Efesii di Senofonte Efesio, e Le avventure pastorali di Dafni e Cloe
di Longo Sofista. 2) il romanzo "biografico", al quale sono
ricondotti l’ Apologia di Socrate e il Fedone di Platone, oltre alle
biografie retoriche che hanno origine dagli encomi, a loro volta discendenti
dagli antichi threnoi o, in ambiente latino, dalle laudationes funebres; ne
sono un esempio le Retractationes di Agostino; all’interno di questa
tipologia Bachtin distingue poi la biografia "energetica",
rappresentata dalle Vite di Plutarco, che porta ad una progressiva rivelazione
del carattere del protagonista, dalla biografia "analitica", il cui
autore più tipico è Svetonio; 3) il romanzo "di avventure e di
costume", rappresentato in senso stretto solo dalle già citate
Metamorfosi di Apuleio e dal Satyricon di Petronio, che Bachtin avvicina al
romanzo picaresco europeo moderno, in quanto in entrambi quello che egli
definisce "tempo di avventura" si intreccia strettamente nella
narrazione al "tempo quotidiano".
Proseguendo nella sua analisi, lo studioso sottolinea in particolare la
caratteristica della pluridiscorsività del Satyricon, che si manifesta sia
nella varietà dei punti di vista che si incrociano nel romanzo, sia nella
molteplicità di allusioni e riprese dei più svariati generi letterari.
Proprio su questo aspetto si è incentrato il dibattito critico successivo,
sviluppando ampiamente le ricerche sulla intertestualità nel Satyricon
soprattutto per quanto riguarda la messa a fuoco delle parodie dei generi
letterari su cui il testo appare costruito. Così è stato particolarmente
studiato il rapporto tra il romanzo greco e il Satyricon, ed in questo ambito
è stato spesso sostenuto che il romanzo di Petronio si pone come inversione
parodistica dei modelli greci: il tema strutturante di opere come quelle citate
di Caritone o di Senofonte Efesio, costituito dall’amore contrastato di una
coppia di giovani e dalle peripezie che attraversano per coronare la loro
unione, risulta rovesciato nel Satyricon nel rapporto omosessuale dei due
protagonisti. Ci sono d’altra parte studiosi che, come Sullivan, non
condividono appieno questa ipotesi, e sostengono invece che sia il Satyricon
sia i romanzi greci si rifarebbero al comune modello dell’ epos, e che quindi
le analogie strutturali che si riscontrano tra il romanzo latino e quelli greci
sarebbero giustificate da questa comune ascendenza. Ancora, sono stati oggetto
di indagine anche i riferimenti che Petronio dissemina nella sua opera ad
autori latini, in particolare a Virgilio, la cui opera sarebbe parodiata e/o
imitata nel cosiddetto Bellum civile, cioè quella sezione in versi che Eumolpo,
uno dei protagonisti, recita nella parte iniziale del testo (che, come è noto,
è un prosimetro, cioè un componimento misto di prosa e versi): anche su
questo argomento però i pareri sono discordi, dal momento che secondo altri
qui Petronio intenderebbe parodiare il poema epico di Lucano, più che quello
di Virgilio. Molto nota invece e sicuramente più fondata è l’individuazione
nel Satyricon di un intento parodistico dell’Odissea, individuato e descritto
tra gli altri anche da Courtney, Klebs e Fedeli. I punti a sostegno di questa
tesi sono molti, e a mio avviso probanti: si tratta non tanto della ripresa
dell’ira di Poseidon che perseguita Odisseo nel poema, parodisticamente
adombrata da Petronio nella persecuzione del dio Priapo nei confronti del
protagonista Encolpio, né della struttura "odissiaca" (incentrata
cioè sulle peripezie di viaggio) delle avventure narrate nel romanzo, quanto
piuttosto di elementi di dettaglio, ma perciò stesso assai più significativi,
che depongono a favore di questa tesi. Ad esempio è molto significativo che il
già nominato Encolpio assuma, in una avventura di seduzione di una matrona, il
nome di Polieno: e nell’Odissea polyainos è un epiteto che viene
attribuito da Omero al solo Odisseo. Analogie evidenti presentano poi alcuni
episodi, come quello in cui il protagonista del romanzo, per sottrarsi ai suoi
inseguitori, si attacca sotto ad un letto, con un evidente ripresa
dell’espediente con cui Odisseo fugge dalla caverna del Ciclope attaccandosi
sotto il ventre dell’ariete avviato al pascolo.
2. Riferimenti alla cultura giudaica nel Satyricon
Da quanto fin qui detto risulta evidente che
il tema della intertestualità che correla il Satyricon a svariati
generi letterari greci e latini è da tempo al centro delle ricerche e del
dibattito. Invece è solo in tempi più recenti che sono stati messi in luce
alcuni riferimenti (oggetto di parodia o di semplice allusione) alla cultura
ebraica che sarebbe possibile riscontrare nel romanzo: uno studioso in
particolare, J. Clarke, in un articolo dal titolo Jewish table manners in
the Cena Trimalchionis (Costumi conviviali giudaici nella cena di
Trimalcione), pubblicato sul Classical Journal n. 87 del 91/92, ha rilevato
nell’episodio centrale della parte superstite del Satyricon alcuni
riferimenti all’ebraismo. Ad esempio, l’atto, compiuto da Trimalcione alla
sua tavola, di lavarsi le mani sulla testa di uno schiavo, solitamente
interpretato come un gesto di sovrano disprezzo del padrone, ha invece una
precisa analogia con una consuetudine giudaica riscontrata da Clarke nel
trattato giudaico del Berakoth. Analogamente, quando nel cap. 34 del Satyricon,
sempre nel corso della cena, due Etiopi con lunghi capelli portano del vino e
lo versano sulle mani dei convitati, saremmo di nuovo in presenza di
un’usanza giudaica. Schiavi con lunghi capelli (pueri capillati)
compaiono anche in un altro passo del romanzo, nel cap. 70: qui essi recano in
un bacile d’argento dell’unguento con cui cospargono i piedi dei convitati,
suscitando la sorpresa del narratore per un costume che egli giudica
stranissimo. Un commento del genere dimostra chiaramente che anche in questo
caso ci troviamo di fronte ad un’usanza estranea all’area culturale romana,
e da ricondursi, secondo il Clarke, sempre all’ambiente giudaico.
Sull’esempio di questo studioso, le ricerche di echi e riprese di elementi
della cultura giudaica nel Satyricon si sono moltiplicati, estendendosi anche
all’ambito dell’onomastica. In questo settore, già da tempo è stato
osservato che i nomi dei personaggi sono assegnati da Petronio con intenzione
allusiva a personaggi o vicende del mito: Labate ad es. osservava che Corace
(nome del servo che rivela agli heredipetae l’inganno di Encolpio ed Eumolpo
nell’avventura di Crotone) è con ogni evidenza ripreso dal mito della
cornacchia (korax) punita da Apollo per la sua attività di delazione di cui
parla Callimaco in un suo inno. Estendendo l’indagine anche all’area
linguistica semitica alla ricerca di analoghe allusioni, Bauer ha interpretato
il nome di Trimalcione come composto da un prefisso tri-, di significato
intensivo, associato alla radice semitica mlk, portatrice dell’idea di
regalità. Trimalcione sarebbe quindi il "tre volte re", titolo certo
adatto alla sua smania di esibizionismo e alla volontà di autocelebrazione che
lo contraddistinguono come parvenu desideroso di ostentare la propria smisurata
ricchezza.
3. il Satyricon, il Cristianesimo e la datazione del Vangelo di Marco
Se quindi anche da questo punto di vista le
ricerche di allusioni nel Satyricon al mondo giudaico hanno ricevuto impulso e
sviluppo, non altrettanto si può dire per quanto riguarda echi e riprese del
Cristianesimo: nessuno ha finora mai avanzato l’ipotesi che anche nei
confronti della cultura cristiana Petronio possa aver sviluppato interessi
parodistici, come pure sarebbe possibile proprio sulla base della teoria
bachtiniana della natura polifonica del romanzo.
A dire il vero Preuschen, uno studioso tedesco, agli inizi di questo secolo
aveva rilevato alcune significative analogie tra il passo del Vangelo di Marco
che narra della cosiddetta "unzione di Betania" (Mc. 14, 3-9) e una
scena della cena di Trimalcione (Sat. 77, 7 - 78, 4). Il brano evangelico, come
è noto, narra che Gesù, mentre si trovava a convito, venne avvicinato da una
donna che gli unse il capo con unguento prezioso, e che Gesù stesso interpretò
questo gesto come prefigurazione della unzione funebre del proprio corpo che di
lì a poco avrebbe avuto luogo. Analogamente, nel brano citato del Satyricon,
Trimalcione fa portare ai suoi servi un’ampolla di nardo (un prezioso
unguento) con cui cosparge i commensali mentre li esorta a far conto di essere
stati invitati ai suoi funerali. Secondo lo studioso tedesco la somiglianza
delle due descrizioni andava spiegata nel senso di una dipendenza del testo di
Marco da Petronio, ma la tesi, subito avversata da molti studiosi di filologia
neotestamentaria quali Goetz, Linder, Holtzmann, non era stata mai presa
seriamente in considerazione. E’ tuttavia interessante notare che ad essa
Preuschen era giunto in ossequio alla teoria invalsa di una datazione
assolutamente tardiva dei Vangeli, che si ritenevano composti in epoca di un
secolo o due posteriore a quella del romanzo di Petronio. Proprio questo punto
invece è stato successivamente dimostrato infondato: negli anni Cinquanta,
negli scavi archeologici condotti a Qumran, una località della Palestina sul
mar Morto, venne rinvenuto un frammento papiraceo di un testo sconosciuto,
etichettato con la sigla 7Q5, e destinato a rivestire una straordinaria
importanza nella questione della cronologia di composizione dei Vangeli.
Infatti la datazione di questo frammento venne stabilita su base archeologica
come anteriore al 68 d. C., e su base paleografica come anteriore al 50 d. C.,
e quando, alcuni decenni dopo il suo ritrovamento, padre O’Callaghan individuò
il frammento come il testo del Vangelo di Marco 6, 52-53, fu subito chiaro che
si era di fronte alla dimostrazione tangibile del fatto che la datazione tarda
della composizione dei Vangeli abitualmente sostenuta nell’ambito degli studi
filologici andava corretta. E’ il caso di notare che il dato così ricavato
della composizione del Vangelo di Marco prima del 50 d. C. viene a confermare
quanto da sempre sostenuto dalla tradizione cristiana fin dal II sec. d. C.:
Papia di Gerapoli e Clemente di Alessandria, seguiti da Ireneo e Tertulliano,
affermano che san Pietro sarebbe venuto a Roma agli inizi del regno di Claudio
(quindi attorno al 42 d. C.), e che qui Marco avrebbe composto il suo Vangelo
sulla base della predicazione dell’apostolo (cfr. Euseb. Hist. Eccl. III, 19,
15 e VI, 14, 6-9; Iren., Adv. Haer. III, 1, 1; Tert., Adv. Marc. IV, 5).
In base a quanto finora detto, quindi, le datazioni del Vangelo di Marco e del
Satyricon si possono considerare assai più ravvicinate di quanto riteneva
Preuschen agli inizi del secolo. A sua volta però questo ravvicinamento
presuppone come valida l’identificazione dell’autore del Satyricon (e la
conseguente datazione del romanzo) con il Titus Petronius Niger che fece parte
dell’entourage di Nerone, e di cui lo storico Tacito in Ann. XVI, 18,
narra il suicidio, avvenuto tra marzo e maggio del 66 d. C. Tale
identificazione dell’autore del romanzo con il personaggio tacitiano è stata
sostenuta da Rose in un suo articolo (The Date and the Author of the Satyricon,
"Mnemosyne" Suppl. XVI, 1971), ed è oggi accettata dalla stragrande
maggioranza degli studiosi. A definire ulteriormente la collocazione
cronologica del frammento rimastoci del Satyricon, lo stesso Rose rilevava che
sembra di poter rilevare in questo testo allusioni all’incendio di Roma del
64 d. C. di cui Nerone accusò i Cristiani, prendendo da ciò il pretesto per
le persecuzioni: almeno questa parte del romanzo dunque sarebbe stata scritta
per la cerchia dell’imperatore fra il 64 e il 65 d. C. Tutto ciò concorre a
dimostrare la possibilità che Petronio fosse nelle condizioni di aver notizia,
per quanto superficiale, del Cristianesimo, che in quel periodo era anche
praticato a corte: di ciò fa menzione san Paolo in una lettera ai Filippesi
(4, 22), e del resto lo stesso Tacito narra in Ann. XIII, 32 la vicenda di
Pomponia Grecina, una matrona con tutta probabilità cristiana che, processata
nel 57 d. C. dal marito Aulo Plauzio, come era possibile nel diritto
romano, per la pratica di "culti stranieri", venne assolta e
nondimeno perseverava nella fede mantenendo uno stile di vita estremamente
ritirato e riservato ancora negli anni in cui Petronio viveva a corte.
Tutto ciò può allora autorizzare a supporre che, rovesciando la tesi del
Preuschen, non sia stato Marco ad imitare Petronio, bensì Petronio a
riprendere in chiave - come vedremo - parodistica, alcuni passi del
Vangelo di Marco.
4. L'uso del nardo in Sat. 77, 7-78, 2 e Mc 14, 3-9
Quali sono dunque i passi che possono essere
indicati a dimostrazione di questa tesi? Innanzitutto possiamo partire proprio
dalle indicazioni di Preuschen, e in particolare da Sat. 77, 7 - 78, 2: in
questo passo Trimalcione, durante il banchetto, fa recare del vino con cui
saranno lavate le sue ossa dopo la morte, e dell’unguento; come già
ricordato, apre un’ampolla di nardo ed unge i convitati, prefigurando la
propria unzione funebre ed invitando gli ospiti a considerare il pasto come un
banchetto funebre. In Marco, nell’episodio dell’unzione di Betania, mentre
Gesù si trova a mensa, una donna con un vaso d’alabastro di nardo genuino
prezioso lo rompe per versare l’unguento sul capo di Gesù che dice: "Ha
unto in anticipo il mio capo per la sepoltura". Così infatti avviene dopo
la morte di Gesù, quando le pie donne acquisteranno oli aromatici per ungerne
il corpo (Mc. 14, 3-9). Innanzitutto dal confronto di questi due testi è
importante osservare una consonanza verbale: alla ampullam nardi di Sat.
78, 3 corrisponde nel testo di Marco l’espressione alabastron myrou nardou
(14, 3). Ora, noi abbiamo un codice manoscritto (Cantabrigiensis) che conserva
la lezione della cosiddetta vetus latina, cioè di una traduzione latina dei
Vangeli anteriore a quella di san Girolamo. Secondo l’Ammassari il testo del
Cantabrigiensis, che è del V sec., riprodurrebbe una tradizione del I sec. d.
C., cioè dell’epoca di composizione del Satyricon. Ebbene, in questo
manoscritto l’episodio dell’unzione di Betania del Vangelo di Marco
presenta la locuzione ampullam nardi, cioè la medesima presente in Petronio,
con cui viene così a realizzare una perfetta corrispondenza verbale.
Quanto all’uso del nardo, si tratta di un unguento il cui uso era
indubbiamente noto nell’area mediterranea ed anche a Roma, in due ambiti
separati: quello conviviale, e quello funerario. L’impiego funerario del
nardo era riservato presso gli Ebrei alle salme nei sepolcri, mentre a Roma
sembra che fosse legato alla combustione dei cadaveri sulla pira, per
facilitarla e nello stesso tempo per sprigionare un profumo gradevole. Di
quest’uso presso i Romani abbiamo testimonianza in Bell. Hisp. 33, 3 - 4, in
Tibullo e in particolare in Properzio IV, 7, 32: cur nardo flammae non oluere
meae? (la donna del poeta, che gli compare in sogno dopo morta, lo rimprovera
chiedendogli: perché le fiamme della mia pira non hanno avuto il profumo
del nardo?). A queste testimonianze possiamo aggiungere Val. Max. V, 1, 10:
caput autem plurimis et pretiosissimis odoribus cremandum curavit, che fa
riferimento alla medesima consuetudine pur non citando espressamente il nardo.
Ora a mio giudizio questi testi non depongono a sfavore di una ripresa di
Petronio del Vangelo di Marco, perché ciò che qualifica il confronto fra i
due testi è il fatto che in entrambi i casi il nardo venga asperso durante un
banchetto in prefigurazione di un suo impiego funerario. A quanto risulta dalle
mie ricerche condotte sul Thesaurus delle lingue greca e latina a questo
proposito, l’impiego conviviale e quello funebre figurano nei testi sempre
separati, e non si trovano associati in nessun’altra scena della letteratura
classica ad eccezione di Petronio. Ovviamente, il testo di Marco presenta poi
dei paralleli sinottici con gli altri evangelisti (l’episodio dell’unzione
di Betania è riportato anche da Matteo e Giovanni), ma è significativo che il
particolare dell’ampolla di nardo figuri solo in Marco, a riprova che è a
questo testo che probabilmente Petronio si rifà, creando una scena grottesca
che ben si adatta al tenore dell’intera cena di Trimalcione: per capirne il
significato, dobbiamo figurarci che essa doveva produrre un effetto analogo a
quello che oggi produrrebbero dei fiori posti ad un banchetto sulla tavola ed
indicati ai commensali come prefigurazione dell’omaggio floreale destinato ai
defunti sulla tomba.
A questo proposito è da rilevare che, come hanno messo in luce molti studi (di
Gagliardi, Petrone, Saylor, ecc.) il tema della morte orchestra tutto lo
svolgimento della cena Trimalchionis dall’inizio alla fine: basta ricordare
la macabra trovata dello scheletrino d’argento che viene portato in tavola ad
un certo punto del banchetto, o la lettura del proprio testamento da parte di
Trimalcione, o ancora la descrizione della propria tomba su cui egli
intrattiene a lungo i commensali, per arrivare ad affermare che l’intero
episodio può essere considerato come una sorta di "ultima cena". Ma
Trimalcione non sta affatto per morire: anzi, egli stesso afferma che un
astrologo gli ha predetto ancora trent’anni di vita (78, 1), e del resto
tutto sembra dimostrare che a questa predizione egli creda senza esitazioni.
Questi elementi lasciano allora supporre che l’immagine da "ultima
cena" cui Trimalcione impronta il suo convito sia ancora una volta
interpretabile come uno stravolgimento parodistico del testo evangelico.
5. Altri raffronti fra Satyricon e Vangelo di Marco
Un ulteriore motivo di raffronto fra il
Satyricon ed il Vangelo di Marco è rappresentato da un altro episodio della
cena di Trimalcione, in cui il canto improvviso di un gallo suscita lo spavento
del padrone di casa, che lo crede presagio di sciagura e di morte (Sat. 74, 1 -
3). Nella tradizione greca e romana tuttavia, al contrario di quanto avviene in
questo episodio, il canto del gallo, come emerge anche dagli studi della
Amiotti, ha sempre valenza positiva, in quanto è collegato all’idea della
vittoria, allo schiudersi delle uova ed in definitiva alla vita. Se si
considera anche che nel passo del Satyricon in esame il gallo è detto
index, termine che significa, fra l’altro, anche "denunciatore",
"accusatore", si può supporre che Petronio abbia inteso parodiare -
il volatile infatti finisce subito in pentola - il testo di Marco, il Vangelo
che più si sofferma sul particolare del gallo nell’episodio del rinnegamento
di Pietro, dove il canto dell’animale denuncia la colpa dell’apostolo ed
annunzia un giorno di dolore e di morte.
Un altro passo ancora del Satyricon potrebbe configurare una parodia della
resurrezione: si tratta di un punto del famoso racconto della matrona di Efeso
(Sat. 111, 5 -6), in cui compaiono alcuni crocifissi condannati da un
governatore di provincia a questa pena, e vegliati da un soldato perché
nessuno abbia a trafugarne i corpi, come invece accade: il terzo giorno infatti
(112, 3) uno di essi viene sottratto e sostituito poi con un altro cadavere,
suscitando lo stupore della gente nei confronti dell’ apparente miracolo di
un’animazione dopo la morte. Per cogliere l’importanza di questo passo ed
il suo significato parodico nei confronti del Cristianesimo, bisogna sapere che
al tempo di Nerone era frequente l’accusa rivolta ai Cristiani di aver
trafugato dal sepolcro la salma di Gesù: Matteo (28, 15) riferisce
esplicitamente questa diceria, evidentemente messa in giro per screditare
l’autenticità della resurrezione. D’altro canto, Nerone promulgò e fece
applicare proprio a partire dal 60 circa il cosiddetto editto di Nazareth, che
sanciva severe punizioni contro chi avesse trafugato dolo malo, cioè con
cattiva intenzione, i cadaveri: gli studi della Sordi e di Grzybeck sostengono
che l’editto avesse come bersaglio primario proprio i Cristiani, e prendesse
spunto dalle accuse loro rivolte e ricordate da Matteo di aver trafugato il
corpo di Gesù. Un contesto del genere sembra quindi supportare in modo
convincente l’ipotesi che in alcuni dettagli dell’episodio della matrona di
Efeso Petronio intendesse parodiare il racconto evangelico della resurrezione
di Cristo.
E ancora: al cap. 141 del Satyricon i due protagonisti del romanzo, Encolpio ed
Eumolpo, si trovano impelagati a Crotone in una finzione architettata ai danni
dei cacciatori di eredità di cui il paese è affollato: essi hanno fatto
loro credere di essere padroni di un’ingente ricchezza, ed Eumolpo, nel passo
citato, promette agli aspiranti eredi che lascerà tutto il suo patrimonio a
coloro che mangeranno delle sue carni. E’ evidente che, se di parodia del
Cristianesimo si può parlare nel Satyricon, siamo qui di fronte ad
un’irrisione dell’eucaristia.
In conclusione, ritengo opportuno prevenire
una possibile obiezione alla tesi che ho sostenuto, e darle risposta.
L’obiezione è la seguente: gli episodi e le scene del Satyricon che
ho preso in esame potrebbero avere riscontri anche all’interno della
letteratura classica greca e latina, e ad essi Petronio potrebbe essersi
rifatto nelle scene citate: con ciò si escluderebbe la possibilità di
ravvisarvi un intento parodistico nei confronti del Cristianesimo e del Vangelo
di Marco in particolare. Effettivamente, passando in rassegna tutti i romanzi
greci, dal Romanzo di Nino alle Etiopiche di Eliodoro è possibile
riscontrare, ed anche con dovizia, motivi accostabili agli episodi che ho
individuato in Petronio come probabili parodie di Marco: banchetti (Iambl. 6,
un banchetto in un sepolcro, come per la matrona di Efeso, l’unico caso,
credo, in cui al pranzo in questi romanzi sia associata l’idea della morte;
Lucian. II 14; Ps. Luc. 21; Ach. Tat. VIII 15; Long. Soph. III 35 e 38; Eliod.
I 1, IV 1, VI 1), unzioni (Ps. Luc. 51: una donna si unge da un vasetto
d’alabastro), funerali, morti apparenti, false resurrezioni e cadaveri
trafugati (Charit. III 3 - 4; Sen. Eph. III 7; Iambl. 6 e 14; Ach. Tat. III 17
- 18,IV 10; Eliod. II 29), fustigazioni (Charit. III 4; Sen. Eph. II 6),
crocifissioni (Charit. III 4; Sen. Eph. IV 2; Iambl. 2 e 21), nonché il canto
di un gallo (Eliod. I 18, V 3). Tuttavia l’abbondanza di questi riscontri
contribuisce solo a dimostrare come molte situazioni topiche fossero patrimonio
comune del romanzo greco e di Petronio: tuttavia, a mio giudizio, nessuno di
questi passi appare fornito di elementi di raffronto con il testo evangelico
così circostanziati come quelli che ho potuto di poter riscontrare nel
Satyricon: ciò sembra suffragare l’ipotesi che Petronio avesse intenzione di
parodiare proprio il testo di Marco.
Infine vorrei osservare che, se gli accenni alla resurrezione ed
all’eucaristia possono essere ricondotti ad una conoscenza anche generica dei
dogmi cristiani, che Petronio potrebbe aver acquisito anche tramite racconti
orali, i rimandi all’episodio dell’unzione di Betania, con il riferimento
al nardo, e al canto del gallo sembrano invece implicare, per la precisione
delle allusioni che vi si possono riscontrare, una conoscenza del testo scritto
del Vangelo. Il Traina ha giustamente osservato che la parodia presuppone la
conoscenza del testo parodiato da parte del pubblico: ora, le ricerche
storiche, come pure la tradizione cristiana, sembrano confermare la diffusione
del Vangelo di Marco nella Roma petroniana. Il pubblico di Petronio poteva
conoscere il testo dell’evangelista anche in greco, se si tiene conto del
fatto che il livello culturale dei lettori a cui il Satyricon si
rivolgeva era sicuramente alto, come notava già Auerbach quando (in Mimesis,
tr. it., Einaudi 1956, p. 55) scriveva: "Petronio attende lettori di tale
levatura sociale e cultura letteraria da poter subito intendere tutte le
sfumature del mal comportamento sociale e dell’abbassamento della lingua
e del gusto ... un’élite sociale e letteraria che riguarda le cose
dall’alto ... anche Petronio dunque scrive dall’alto, e per il ceto delle
persone dotte". Se così stanno le cose, perché non ritenere possibile
che, tra i numerosi riferimenti culturali che il Satyricon presuppone,
non potesse rientrare anche il Vangelo di Marco?
D.: Lei parlava per i romanzi greci e per quello di Petronio di luoghi comuni relativi ai banchetti, all’unzione, alle crocifissioni, ecc.: a questo proposito vorrei provocatoriamente chiederle: che cosa ci impedisce di ipotizzare che anche in Marco le scene che presentano queste caratteristiche siano dei luoghi comuni che a sua volta l’autore riprende dal romanzo ellenistico?
R.: La risposta ad una domanda del genere può muovere solo dalla fondamentale questione relativa alla storicità dei Vangeli: è ovvio che l’interrogativo che Lei pone è ammissibile solo se li si ritiene delle pure elaborazioni letterarie prive di storicità, e che ammettono quindi la ripresa di luoghi comuni della tradizione romanzesca. Al contrario di ciò, io personalmente sono convinta del fatto che i Vangeli siano un’autentica testimonianza storica, a prescindere dalle spinose questioni della stratificazione dei contenuti e della durata della fase orale di predicazione che ne precede la stesura scritta. Del resto, che la storicità dei Vangeli sia fondata non è solo frutto di convinzione personale, ma anche e soprattutto un dato ricavabile dai testi stessi: gli evangelisti a più riprese assumono la storicità dei fatti narrati come fondamento esibito del loro racconto: spesso troviamo riferimento nei loro testi alla testimonianza oculare come elemento che avvalora l’autenticità dei fatti. In un contesto del genere, pensare che i Vangeli siano semplicemente centoni di luoghi comuni della tradizione letteraria va contro non tanto alla convinzione personale, quanto alle caratteristiche stesse dei testi che si presentano come resoconti storici. D’altronde, anche tutta la letteratura neotestamentaria ed apologetica tratta i Vangeli come testimonianze storiche: certo, se malgrado questo si vuole negare storicità a tutta questa tradizione solo perché, si dice, è "di parte", lo si può fare, ma allora alla stessa stregua si deve rifiutare storicità anche ai resoconti di tutti gli autori classici, che quanto a parzialità non erano certo inferiori agli evangelisti. La verità è un’altra: che la cosiddetta "parzialità" non è assolutamente un criterio sufficiente per negare storicità a qualsiasi resoconto, tanto meno a quello evangelico, e che se si muove dal presupposto della loro storicità, automaticamente si esclude la possibilità che in essi vi sia la ripresa di luoghi comuni del romanzo.
D.: Ammessa quindi la storicità dei Vangeli, Lei ritiene che si possano escludere anche influssi della tradizione letteraria sul modo di narrare i fatti storicamente avvenuti? Non crede che l’utilizzo di luoghi comuni potesse sembrare agli evangelisti utile per diffondere maggiormente il messaggio e per renderlo più accessibile al pubblico, e che possano essersene serviti in questo modo?
R.: Anche la riduzione dei fatti storici entro i limiti di topoi narrativi secondo me va contro la decisione di storicità esibita dai Vangeli, e nella Chiesa la preoccupazione di salvaguardare l’integrità del resoconto storico fu viva fin dall’inizio: la definizione del canone degli scritti neotestamentari venne operata proprio con lo scopo di escluderne quei testi che, come i Vangeli apocrifi, erano sicuramente più piacevoli dal punto di vista narrativo, e più facilmente sfruttabili a fini di proselitismo, a tutto vantaggio dei testi che invece conservavano la massima fedeltà al dato storico. Con questo non voglio certo escludere in termini assoluti che nei Vangeli siano presenti influssi letterari risalenti alla tradizione culturale greca e giudeo-ellenistica: ma si tratta, a mio avviso, di elementi ininfluenti per quanto riguarda i contenuti del resoconto storico.
D.: Come è stato accolta la tesi che ci ha presentato nell’ambito degli studi accademici?
R.: Si può dire che ci sono state reazioni opposte e contrarie. Da un lato, quanti condividono l’identificazione di 7Q5 con il testo di Marco hanno accolto entusiasticamente queste mie ipotesi, poiché esse concorrerebbero a fornire un’ulteriore prova della datazione agli anni 50 del I sec. d. C. dei Vangeli, ed in particolare di quello di Marco. A questo proposito è invalsa la dicitura di "antedatazione", per sottolinearne l’anticipo rispetto alla data considerata più probabile dai filologi, ma in realtà questa è la data che tutta la tradizione ecclesiastica ha sempre sostenuto, e ad essa le mie tesi portano un indubbio sostegno. Dall’altro lato, chi non accetta l’identificazione di 7Q5, e tende quindi a postdatare i Vangeli, ovviamente non condivide le mie supposizioni. Tuttavia vorrei dire che, anche a non voler accettare l’identificazione di 7Q5, bisogna fare i conti con la tradizione cristiana, che indica concordemente per i Vangeli una datazione compatibile con quanto sostengo...
D.: Quale interesse poteva avere un autore come Petronio a fare una parodia dei Vangeli?
R.: Gli anni in cui si presume che il Satyricon (almeno la parte rimastaci) sia stato scritto, sono anni in cui il problema dei Cristiani era fortemente sentito alla corte di Nerone. Nel 64-65 d. C. si assisté ad un forte inasprimento della politica dell’imperatore contro i Cristiani, come dimostrano le persecuzioni di quegli anni ed il già citato editto di Nazareth. Se l’autore del romanzo è quel Petronio intimo della corte neroniana di cui ci parla Tacito, è probabile che la parodia del Vangelo costituisse ai suoi occhi un mezzo per schierarsi in letteratura a favore degli orientamenti ostili al Cristianesimo manifestati dall’imperatore in quel periodo.
D.: Se è vero che Petronio ha questo intento parodistico per compiacere Nerone, e quindi era in buoni rapporti con lui, come si spiega che poi, a distanza di pochi anni, stando al racconto di Tacito, si suicida lasciando un testamento in cui denuncia tutte le nefandezze del principe?
R.: Alla corte degli imperatori era molto facile cadere in disgrazia, poiché bastava spesso la gelosia o l’inimicizia di un personaggio influente per passare in breve tempo da una condizione di favore a quella di bersaglio delle ire del principe. Il Rose accetta la versione tacitiana secondo cui Petronio avrebbe suscitato l’ostilità di Tigellino, il potentissimo prefetto del pretorio della corte di Nerone, e sarebbe di conseguenza nel volgere di pochissimo tempo caduto in disgrazia tanto da essere costretto al suicidio.
D.: Le tesi che ha presentato vengono a modificare anche la tradizionale datazione relativa dei testi evangelici, che vede, anche nella successione canonica, Matteo precedere Marco: secondo quanto Lei afferma, sarebbe quest’ultimo invece il più antico. Come mai allora nella tradizione dei testi canonici è finito per secondo dopo Matteo?
R.: La questione della datazione relativa dei testi evangelici è tutt’altro che semplice e risolta: in effetti la seriorità di Marco rispetto a Matteo è stata sostenuta spesso. Sant’Agostino ad esempio pensava che Marco fosse un pedissequus breviator di Matteo: lo considerava cioè posteriore a quest’ultimo. Agostino leggeva la Vetus latina, ed è da essa che sembra di poter dedurre che Matteo fosse precedente a Marco, come ha recentemente sostenuto anche l’Ammassari in un recente studio sul manoscritto Cantabrigiensis di cui si è già parlato, rappresentante eminente del filone della tradizione neotestamentaria latina precedente san Girolamo. D’altra parte che a Roma negli anni 50 circolasse il testo latino del Vangelo di Marco non esclude che Matteo sia ad esso anteriore. San Girolamo esplicitamente afferma a questo proposito che Matteo primus in Iudaea evangelium Christi hebraeis litteris edidit: su questo dato sembra di poter fondare l’ipotesi dell’anteriorità di Matteo almeno rispetto alla versione latina di Marco, pur restando tutta la questione della cronologia estremamente intricata.
D.: Che cosa pensa dell’ipotesi che la parodia del Cristianesimo che si riscontra nel Satyricon sia motivata, nella logica interna al testo, dall’intento di connotare negativamente Trimalcione anche attraverso la sua adesione ostentata e grossolana alle usanze di una cultura straniera?
R.: Il fatto che Trimalcione sia prototipo dei comportamenti negativi è evidente in tutta la cena, e che Petronio in questo quadro abbia deciso di attribuirgli anche tratti parodici della cultura cristiana sicuramente risponde ad un intento coerente. Esso andrebbe individuato non tanto, come si diceva prima, nel desiderio di compiacere Nerone per i suoi orientamenti politici nei confronti dei Cristiani, quanto in un disegno di impronta più prettamente culturale e letteraria, volto a mettere in ridicolo attraverso un raffinato gioco di allusioni la negatività dei comportamenti del personaggio e della classe sociale di arricchiti che rappresenta.
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