Il De brevitate vitae e la tematica del tempo

 

 

1. Riflessioni sul tempo precedenti a Seneca

 

2. Il De brevitate vitae

 

3. La concezione del tempo in Seneca

4. La concezione del tempo dopo Seneca

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Riflessioni sul tempo precedenti a Seneca

 

È un tema intrecciato con problematiche esistenziali, quindi da sempre l'uomo vi ha riflettuto, spesso coinvolgendovi altre tematiche importanti (l'etica, la riflessione su Dio, l'aldilà, ...).

 

Già nell'ambito della lirica greca arcaica, Mimnermo (VII secolo), paragonando gli uomini alle foglie, che, nate a primavera, in autunno appassiscono e muoiono, individua il tempo come inesorabile viaggio verso le tristezze della vecchiaia.

 

Come le foglie che fa germogliare la stagione di primavera
ricca di fiori, appena cominciano a crescere ai raggi del sole,
noi, simili ad esse, per un tempo brevissimo godiamo
i fiori della giovinezza, né il bene né il male conoscendo
dagli dèi. Oscure sono già vicine le Kere,
l'una avendo il termine della penosa vecchiaia,
l'altra della morte. Breve vita ha il frutto
della giovinezza, come la luce del sole che si irradia sulla terra.
E quando questa stagione è trascorsa,
subito allora è meglio la morte che vivere.
Molti mali giungono nell'animo: a volte, il patrimonio
si consuma, e seguono i dolorosi effetti della povertà;
sente un altro la mancanza di figli,
e con questo rimpianto scende all'Ade sotterra;
un altro ha una malattia che spezza l'animo. Non v'è
un uomo al quale Zeus non dia molti mali.

(fr. 2 D.)

 

Sul rapporto fra gli uomini e le foglie, puoi leggere uno stimolante approfondimento che collega le diverse letterature di molte epoche.

 

 

 

 

Ovviamente ne tratta anche il più antico frammento filosofico, quello di Anassimandro di Mileto (VI secolo a. C.), pervenutoci attraverso Simplicio (Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13), con la seguente citazione:

Tra quanti affermano che il principio è uno, in movimento e infinito, Anassimandro, figlio di Prassiade, milesio, successore e discepolo di Talete, ha detto che principio ed elemento degli esseri è l'infinito, avendo introdotto per primo questo nome del principio. E dice che il principio non è né l'acqua né un altro dei cosiddetti elementi, ma un'altra natura infinita, dalla quale tutti i cieli provengono e i mondi che in essi esistono:

«da dove infatti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo».

e l'ha espresso con vocaboli alquanto poetici.

Suggerisce la presenza di una ciclicità periodica necessaria, e tale sarà l'idea fatta propria dai Pitagorici.

 

Il tempo è ancora al centro dell'opposizione fra Eraclito e Parmenide, il quale, negando il divenire, nega anche il tempo. Zenone approfondisce il pensiero del maestro, giungendo a dire che il tempo neppure è pensabile, perché riducibile ad un attimo non misurabile.

 

Platone nel Timeo lo definisce come «immagine mobile dell'eternità»: come il mondo sensibile è imitazione di quello intellegibile (il primo mutevole, il secondo eterno), così il tempo è imitazione dell'eternità. Non a caso il tempo viene identificato con il movimento circolare: se si vuole rappresentare l'eternità con qualcosa di movimentato, senz'altro ciò che meglio la rappresenta è il cerchio, il movimento circolare in cui si compie un giro per poi tornare al punto di partenza. Infatti il tempo è caratterizzato dal non essere eternità ma tornare sempre su se stesso. La cosa più simile a ciò che non si muove mai è quella che torna sempre su stessa, così come la cosa più simile che l'uomo possa fare per eternarsi è il riprodursi ciclicamente. Dunque il tempo è la plasmazione dell'eternità ideale da parte del Demiurgo. La conseguenza è che non c'è un tempo prima del mondo, perché è solo con la nascita del mondo sensibile che il Demiurgo ha calato nella realtà sensibile l'imitazione di eternità. Questa è una visione ben diversa da quella cristiana nella quale la divinità in un certo momento decise di creare il mondo.

 

 

Nel IV libro della Fisica (Fisica, IV, 10, 218 a) Aristotele tratta il problema del tempo. Si potrebbe sostenere, dice, che il tempo non esiste, dato che è composto di passato e di futuro, di cui l'uno non esiste più quando l'altro non esiste ancora:

 

Che dunque o non esista affatto, o che esista a stento e in modo oscuro, si potrebbe supporre da queste considerazioni. In effetti, una parte di esso è stata e non è, una parte sarà e non è ancora

(Fisica, IV, 10, 217 b, 34)

 

Egli però respinge questa teoria. Il tempo, dice, è moto che ammette una numerazione:

 

Pertanto il tempo non è movimento, ma il movimento lo possiede in quanto misura. Eccone la prova: giudichiamo il più e il meno col numero, un movimento sarà maggiore e minore col tempo. Il tempo è, pertanto, un certo numero. E poiché il numero è in due sensi (infatti chiamiamo numero sia ciò che viene numerato, sia ciò che è numerabile, sia ciò con cui numeriamo), il tempo è ciò che è numerato e non ciò con cui misuriamo.

E come il movimento è di volta in volta sempre diverso, così anche il tempo [..].

(Fisica, IV, 11, 219b b, 2)

 

Potremmo anche chiedere, continua, se il tempo potrebbe esistere senza l'anima, dato che non ci può esser nulla da contare se non c'è nessuno che conta, e il tempo implica la numerazione. Sembra che egli pensi al tempo come a un determinato numero di ore, di giorni e di anni. Alcune cose, aggiunge, sono eterne, nel senso che non sono nel tempo; probabilmente pensa a cose del tipo dei numeri. C'è sempre stato il movimento, e sempre ci sarà, perché non ci può esser tempo senza movimento, e tutti ammettono che il tempo sia increato. Su questo punto, i seguaci cristiani di Aristotele furono obbligati a dissentire da lui, dato che la Bibbia ci dice che l'universo ebbe un inizio.

 

 

Per gli Epicurei il tempo non esiste in sé, ma è solo un accidente casuale del moto degli atomi

 

 

Per gli Stoici il tempo si offre agli uomini sotto un'unica realtà, quella del presente, in cui si gioca, attraverso le nostre scelte, la nostra felicità (danno vita a quella che Orazio Grilli chiama «concezione etica del tempo, quale coefficiente o determinante del fattore felicità dell'uomo»).

Accanto a questa considerazione gli Stoici credono nell'avvicendarsi costante  e ciclicamente ripetuto della storia nel tempo, inteso come ordine cosmico.

 

 

In tale contesto filosofico si muovono anche alcuni poeti della letteratura latina.

 

Catullo nel famoso carme 5 del suo libellus, pur volendo apparire spensierato con la sua Lesbia, sembra essere angosciato dal tempo che fugge e dal 'malocchio' che gli invidiosi possono gettare sul loro amore felice.

 

V

5. Viviamo e amiamoci

 

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12

Vivamus mea Lesbia, atque amemus,

rumoresque senum severiorum

omnes unius aestimemus assis!

Soles occidere et redire possunt:

 

nobis cum semel occidit brevis lux,

nox est perpetua una dormienda.

Da mi basia mille, deinde centum,

dein mille altera, dein secunda centum,

deinde usque altera mille, deinde centum.

 

Dein, cum milia multa fecerimus,

conturbabimus illa, ne sciamus,

aut ne quis malus invidere possit,

cum tantum sciat esse basiorum.

Godiamoci la vita, mia Lesbia, l'amore,

e il mormorio dei vecchi inaciditi

consideriamolo un soldo bucato.

I giorni che muoiono possono tornare,

ma se questa nostra breve luce muore

noi dormiremo un'unica notte senza fine.

Dammi mille baci e ancora cento,

dammene altri mille e ancora cento,

sempre, sempre mille e ancora cento.

 

  

E quando alla fine saranno migliaia

per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,

perché nessuno possa stringere in malie

un numero di baci così grande.

 

 

Quasi scontato il richiamo al carpe diem oraziano

 

Carmina III, 30

 

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8

 

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi

finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios

temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati.

Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,

quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare

Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi

spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida

aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

 

Non domandarti – non è giusto saperlo – a me, a te quale sorte abbian dato gli dèi, e non chiederlo agli astri, o Leuconoe; al meglio sopporta quel che sarà: se molti inverni Giove ancor ti conceda o ultimo questo che contro gli scogli fiacca le onde del mare Tirreno. Sii saggia, mesci il vino – breve è la vita – rinuncia a speranze lontane. Parliamo e fugge il tempo geloso: cogli l'attimo, non pensare a domani.

 

 

 

 

 

2. Il De brevitate vitae

 

Il dialogo è scritto fra il 49 d. C. e il 52 d. C., subito dopo il rientro dall'esilio settennale in Corsica, anche se, come buona parte delle opere senecane, si ipotizza un'altra data oscillante fra il 59 e il 62 d. C.

 

 

Nel De brevitate vitae, Seneca riflette sul rapporto dell’uomo con il tempo.

L’esistenza umana non è affatto breve, bensì siamo noi che la rendiamo tale, perché sprechiamo la maggior parse del tempo in attività inutili e viviamo nella costante aspettativa del futuro dimenticando il presente.

Polemizza contro gli occupati, uomini che vivono costantemente fuori di sé, dedicati interamente ad attività inutili e superflue, che rendono vuota e breve la vita. Si trova nascosta la profonda critica di Seneca contro la società romana a lui contemporanea, anche se in realtà tale messaggio resta valido anche oggi.

Ma il saggio sa trarre il miglior frutto da ogni attimo della sua vita (XIV, 1; trad. Ramondetti): «I soli fra tutti ad avere il tempo a loro disposizione sono coloro che lo dedicano alla saggezza, i soli a vivere; perché non si limitano a conservare bene il tempo della loro vita: al loro aggiungono quello di ogni età; tutti gli anni che sono trascorsi prima di loro, sono un loro guadagno acquisito». Alla fine, prende corpo l’esortazione a Paolino a non insistere oltre il necessario nella propria carriera e a optare per una vita contemplativa (XIX, 1: recipe te ad... tranquilliora, tutiora, maiora).

Non ha carattere sistematico ed argomentativo, ma procede per immagini e motivi, senza una precisa linea espositiva.

 

 

L'opera è dedicata a Paolino, prefetto dell’annona, nonché suo suocero. Spesso nel corso dell'opera troviamo termini tecnici appartenenti al lessico economico, che doveva essere molto familiare al destinatario.

 

 

 

 

 

3. La concezione del tempo in Seneca

 

Seneca ha sempre considerato e vissuto il tempo come segno della precarietà delle cose. Questo senso della fuga del tempo percorre tutta l'opera di Seneca:

 

De brevitate vitae IX, 3

Quid securus et in tanta temporum fuga lentus menses tibi et annos in longam seriem, utcumque aviditati tuae visum est, exporrigis? De die tecum loquitur et de hoc ipso fugiente.

Perché tu, tranquillo e indifferente in tanto fuggire del tempo prefiguri per te una lunga serie di mesi e di anni, a seconda che appaia opportuno alla tua avidità? (Virgilio) ti parla di un giorno e di un giorno che fugge.

 

Epistulae ad Lucilium, 49.2

Infinita est velocitas temporis, quae magis apparet respicientibus. Nam ad praesentia intentos fallit; adeo praecipitis fugae transitus lenis est.

Il tempo scorre velocissimo e ce ne accorgiamo soprattutto quando guardiamo indietro: mentre siamo intenti al presente, passa inosservato, tanto vola via leggero nella sua fuga precipitosa.

 

Le metafore preferite sono tre:

De brevitate vitae VIII, 5

 Nemo restituet annos, nemo iterum te tibi reddet. Ibit qua coepit aetas nec cursum suum aut revocabit aut supprimet; (…) sicut missa est a primo die, curret, nusquam devertetur, nusquam remorabitur.

Nessuno ti restituirà gli anni, nessuno ti renderà nuovamente a te stesso; la vita andrà per dove ha avuto principio e non muterà né arresterà il suo corso; (…) correrà così come ha avuto inizio dal primo giorno, non cambierà mai traiettoria, mai si attarderà.

 

Dalle metafore emerge il senso di una realtà instabile, di una esistenza perennemente insidiata (su tale concezione avranno certamente influito anche le esperienze personali).

 

Di fronte a tale negatività si erge il polo positivo della dialettica esistenziale, cioè la saggezza. Il saggio trionfa sul tempo perché ne trasforma il valore da quantitativo in qualitativo: non è la durata che conta, ma l'uso che ne fai. Ci sono uomini che inseguono il tempo, riempiendo la propria esistenza di affanni, scadenze, impegni: sono gli occupati, per i quali la vita scorre via inavvertita, i quali « non hanno vissuto a lungo, ma a lungo sono stati al mondo » (DBV VII, 10).

 

Il saggio non ha bisogno né del passato, né del futuro, ma deve concentrarsi sul presente per realizzare in ogni momento la perfezione della vita morale. Il futuro non dipende da noi, e quindi è solo fonte di angoscia e alienazione. Pur non avendone bisogno, il saggio recupera il passato e il futuro come dimensioni psichiche. Il passati, in quanto ben vissuto, e quindi libero dal rimorso, è recuperato dalla memoria (DBV X, 5). e tale recupero si estende oltre i confini di una vita, a quanto di bello e di grande ha prodotto l'umanità (DBV XIV, 1). Il futuro, una volta liberato dall'ansia del timore e della speranza, è recuperato dalla previsione (DBV XV, 5).

Il saggio celebra sul tempo un doppio trionfo, eticamente mediante l'ucronìa, intellettualmente mediante l'omnium temporum collatio che lo rende simile ad un dio (DBV XV, 5).

 

Fra i negotia che rubano tempo all'uomo ci sono anche gli affari pubblici e questo sconvolge il mos tipicamente romano. Il saggio deve sapersi dedicare interamente all'otium: non all'otium desidiosum, cioè il darsi a faticose attività ricreative (condannate come negotia degli occupati - DBV XII-XIII), ma l'otium cum studiis, cioè il tempo libero dedicato alle nobili attività dello spirito, mirabilmente riassunte alla fine del capitolo XIX: «Ora, finché il sangue è caldo, pieni di vigore dobbiamo tendere a cose migliori. Ti aspettano in questo genere di vita molte buone attività, l'amore e la pratica delle virtù, l'oblio delle passioni, il saper vivere e il saper morire, una profonda quiete delle cose».

 

Puoi scaricare l'opera in lingua originale con la traduzione a fronte.

 

 

4. La concezione del tempo dopo Seneca

 

S. Agostino

 

Nell'undicesimo libro delle Confessioni Agostino analizza il problema del tempo. Il punto di partenza è dato dal racconto biblico che presenta la creazione come una successione di operazioni e di eventi.

 

Primo problema: quando Dio ha creato il mondo?

Da questo racconto sembra risultare che la creazione avvenga nel tempo, sia frutto di una decisione da parte di Dio e comporti dunque un mutamento nella sua volontà. In particolare, ci si può anche chiedere che cosa facesse Dio prima della creazione. Questa domanda presuppone che anche Dio sia nel tempo.

In realtà, secondo Agostino, Dio è fuori dal tempo, è nell'eternità e non crea le cose nel tempo. Con la creazione delle cose, Dio crea anche il tempo, quindi non esiste tempo prima della creazione.

 

Secondo problema: che cosa è il tempo?

Parrebbe ovvio considerare il tempo come la somma di passato, presente e futuro, ma il passato non è più e il futuro non è ancora. Parrebbe dunque che soltanto del presente si possa dire che é. E allora che cosa significa che è?

Se il presente fosse sempre attuale, sarebbe l'eternità. In realtà esso esiste come presente solo a condizione di tramutarsi in passato e di non essere ancora futuro. Il tempo allora sembra esistere solo in quanto "tende a non essere". Di fatto però esso non può essere nulla, dal momento che percepiamo e misuriamo gli intervalli di tempo, distinguendo tra brevi e lunghi. Gli intervalli di tempo sono divisibili all'infinito; se trovassimo il non ulteriormente divisibile, questo sarebbe il presente. Ma se il presente è un intervallo, si divide in qualcosa di passato e in qualcosa di futuro: il presente non ha estensione; si dà allora soltanto il continuo tradursi del futuro nel passato. Per cogliere la vera realtà del tempo occorre guardare nell' interiorità.

 

Terzo problema: la memoria e il ricordo

Se il passato è oggetto di ricordo, e questo ricordo è vero, chi lo ricorda deve vederlo e quindi in qualche modo il tempo deve essere. Parlando del passato noi non esponiamo le cose che sono passate, ma usiamo parole formate secondo le immagini impresse nel nostro animo delle cose nel loro accadere. La memoria ha la facoltà di trattenerle; essa, però, è qualcosa che si possiede al presente. La memoria, allora, non è altro che presente del passato.

Un discorso analogo vale anche per le altre due dimensioni del tempo: il futuro non è altro che attesa presente di ciò che sarà e il presente attenzione presente a ciò che è. Le tre dimensioni del tempo sono dunque tre "presenti" nella nostra anima: eventi passati , presenti e futuri sono in quanto sono presenti nella nostra anima.

 

Quarto problema: come si misura il tempo?

Solitamente per misurare il tempo che trascorre si assumono come termine di riferimento i moti degli astri, ma Agostino capovolge la prospettiva: non sono questi moti a determinare l'unità di misura del tempo.

È piuttosto il tempo ad essere il fondamento della determinazione della durata di questi stessi moti; un moto astronomico, infatti, potrebbe mutare. Il tempo invece è distensio animi, un distendersi dell'anima. È questo a darci la misura del tempo. Ciò che viene misurato dall'anima non sono, quindi, le cose nel loro trascorrere, ma l'affezione che esse lasciano e che permane nella nostra anima anche quando esse sono trascorse. 

Le tre dimensioni del tempo non sono altro che tre articolazioni del distendersi dell'anima: il ricordo, il prestare attenzione a qualcosa , l'attesa. L'anima consente di connettere le tre dimensioni temporali in un'unità. La conseguenza è che, se non ci fosse l'anima, non ci sarebbe il tempo. L'unità divina, invece, comprende nel presente stabile della sua eternità tutto ciò che è stato, è e sarà. In tal modo, l'unità divina è la garanzia che il tempo, che è traccia della nostra lacerazione e lontananza da essa, non trascini tutto verso il non essere.


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