Analisi critica de La coscienza di Zeno

 

Alberto Marvisi

"Il successo: La coscienza di Zeno"

 

Il romanzo è in sostanza senza trama. E' suddiviso in vari capitoli, corrispondenti al resoconto di diversi episodi e situazioni della vita del protagonista: Zeno Cosini. Anziano ed agiato borghese, che vive coi proventi di un'azienda commerciale, avuta in eredità dal padre, ma vincolata da questi, per la scarsa stima che aveva del figlio, alla tutela dell’amministratore Olivi. I resoconti riguardano il vizio del fumo, la morte del padre, la storia del suo matrimonio, la moglie e l’amante e la storia di un’associazione commerciale. Vi è poi un capitolo finale intitolato Psico-analisi, che si ricollega strutturalmente alla Prefazione ed al Preambolo. Dal che si deduce che il romanzo non è altro che una serie di sondaggi fatti da Zeno sul proprio passato e scritti per il suo psicanalista, vagamente indicato con la sigla Dottor S. e pubblicati da costui per dispetto, allorché Zeno decide di liberarsi di lui, interrompendo la cura, con in più una specie di ricatto sui diritti d’autore. La natura della malattia di cui soffre Zeno non è chiara; è più una convinzione, del resto nata con lui, com’egli stesso afferma, che un dato oggettivo e reale e se i sintomi sono prevalentemente di ordine psichico e denunciano un vago disagio sociale, anche il fisico tuttavia non ne resta immune, poiché a quei turbamenti risponde sempre con intoppi e faticose articolazioni. Zeno ovviamente ci narra il tutto in prima persona e questa è la seconda novità, dopo quella della frantumazione della trama, di questo terzo romanzo rispetto ai due che l'hanno preceduto. Il senso finale del libro sembra niente affatto essere l'elogio della cura e della salute, quanto proprio quello di un'apologia convinta della malattia come un contenuto capace di illuminarci sulla più vera e profonda nostra realtà di uomini ormai irrimediabilmente vecchi, il cui unico riscatto sembra essere affidato appunto alla consapevolezza ironica di tale condizione, alla coscienza, insomma, che funziona così da mastice fra i vari capitoli, all'interno dei quali poi, presi singolarmente, è possibile individuare, per quanto ancora scheletriche, delle specie di trame. Eccole in breve:

Il fumo: Zeno pensa che la causa della sua malattia sia il vizio del fumo. Decide di liberarsene, prima con propositi precisi fatti a se stesso e vincolati a date scritte un po' ovunque, sottolineate da un solenne U. S. (ultima sigaretta) e poi facendosi ricoverare in una casa di cura, dove però non passa nemmeno una notte, perché, preso dalla sua solita irragionevole gelosia per la moglie, corrompe l'infermiera e se ne torna bellamente a casa, dove la moglie, fedelissima, lo accoglie con un benevolo sorriso.

La morte del padre: si narra delle civili incomprensioni che dividono padre e figlio. Il padre ha difficoltà a convincersi che il figlio, sempre pronto a ridere a sproposito, sia effettivamente pazzo. Il figlio da parte sua è piuttosto ribelle, ma solo in teoria, dentro di sé insomma, perché oggettivamente si può dire che sia un ragazzo abbastanza tranquillo ed ubbidiente. Ma ecco che il padre si ammala di edema cerebrale. Si mette a letto. Il figlio lo vuole curare, lo costringe, anche perché il medico così gli ha consigliato di fare, a stare a letto, e quando il padre vuole a tutti i costi alzarsi egli usa la forza. Il padre con un ultimo sforzo alza il braccio e muore. La mano ricadendo colpisce il volto del figlio. Uno schiaffo. Volontario? Questo dubbio Zeno se lo porterà dentro per tutta la vita.

La storia del matrimonio: Zeno incontra in Borsa Giovanni Malfenti, furbo commerciante, che gli diviene maestro in affari, amico e suocero, nonché suo secondo padre. Giovanni ha una moglie e quattro figlie: Ada, la bella e la seria, Alberta, la più giovane fra le tre da marito e la più vicina allo spirito di Zeno, Augusta, la strabica, ed Anna la più piccola, una bimba. Zeno diventa abituale frequentatore del loro salotto e le intrattiene con storielle amene, di cui l'unica a non compiacersene è proprio quella per cui Zeno le diceva, e cioè Ada. La sua corte ad Ada si complica poi per l'entrata in scena di un rivale, Guido Speier, giovane bello ed elegante e come Zeno suonatore di violino, ma di lui molto più abile. Ada ne è veramente incantata e Zeno è decisamente destinato alla sconfitta, tanto che, attraverso una serie di vicende altamente comiche, che vanno da una seduta spiritica imbastita da Guido e mandata a monte da Zeno per dispetto, alla proposta di matrimonio fatta in successione e per sbaglio a ciascuna delle tre sorelle maggiori, arriverà a fidanzarsi con Augusta, delle tre proprio l'unica che Zeno non avrebbe mai pensato di sposare. Il matrimonio invece si mostrerà azzeccatissimo: Augusta sarà veramente la moglie ideale.

La moglie e l'amante: l'amante si chiama Carla, è una giovane del popolo, che, per continuare i suoi studi musicali, s'affida prima alla beneficenza d'Enrico Copler, amico di Zeno e poi a quella di Zeno stesso. La relazione non turba i rapporti con Augusta, anche perché ovviamente non ne è a conoscenza. Crea solo spazi e contraddizioni dentro la coscienza di Zeno, ma il modo in cui Zeno li supera ci dà ancora un esempio della sua natura, vale a dire della sua malattia. Carla poi vuole vedere Augusta. Mossa controproducente. Carla ne resta affascinata. Sente un vago rimorso a tradirla. Lascia Zeno e decide di sposare il maestro di musica, che Zeno stesso le aveva procurato. Forse era ciò che Zeno, cui nel frattempo era nata una figlia, voleva e non voleva.

Storia di un'associazione commerciale: racconta della fondazione di una casa commerciale da parte di Guido Speier, e di come viene condotta in malissimo modo. Zeno, messi da parte i vecchi complessi, si offre di aiutarlo nell'amministrazione. Ma Guido è veramente un incapace e l'azienda ha i giorni contati. Un affare sbagliato rende la situazione davvero insostenibile. Guido simula un primo tentativo di suicidio ed ottiene dalla moglie un prestito per risollevare le sorti della ditta. Ma gli errori da parte sua continuano, aggravati anche dalle perdite in Borsa, e così non gli resta che inscenare un secondo suicidio, ma questa volta per una serie di circostanze imprevedibili, gli va male e muore. Zeno si rivela a questo punto abilissimo: giocando in Borsa riesce a dimezzare il debito del cognato e si conquista in parte la stima di Ada, che le sofferenze psichiche hanno precocemente invecchiato. Ada inoltre è anche molto rammaricata perché Zeno non è andato al funerale di Guido. Zeno, infatti, non è giunto in tempo, perché, a causa degli impegni in Borsa, è arrivato all'ultimo momento e, inconsapevolmente, ha anche sbagliato funerale. Ada lascia così Trieste e con i figli si reca in Argentina dove i due suoceri la stanno aspettando.

Nel capitolo conclusivo de La coscienza di Zeno, Psico-analisi, ci sono due passi illuminanti su ciò che fu per Svevo la questione della lingua, e più precisamente su varie ambiguità che lo scrittore ci presenta: il rapporto terapia analitica-invenzione, memoria-emozione e creazione-menzogna. Una problematica molto moderna, ma vediamo in dettaglio:

"Il dottore presta fede troppo grande a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! E' proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto".

Ed ancora:

"È così che a forza di correre dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già una menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c'erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l'aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato".

L'atteggiamento sveviano nei confronti della psicanalisi è qui ed altrove molto ironico. Egli sa che la ricchezza di una psiche è fatta anche dai materiali rischiosi che chiamiamo nevrosi, sa che la distinzione drastica fra malattia e salute è schematica ed improduttiva, sa infine che proprio nella gestione attiva delle proprie nevrosi risiede il rapporto più sano possibile con la vita.

"Com'era stata più bella la mia vita che non quella dei cosidetti sani",

si sorprende a pensare il vecchio Zeno Cosini. Ed è proprio l'aggettivo "cosidetti" che sbalordisce il lettore di oggi, è un'anticipazione convinta di certe tematiche antipsichiatriche e liberatorie che si sarebbero affermate, tra successi e contraddizioni, solo trent'anni dopo. La coscienza di Zeno è anche la coscienza della precarietà della lingua in cui lo scrittore si esprime, la consapevolezza di trovarsi fuori dai canoni della letteratura posteriore. La diversità di Svevo non è solo linguistica ma anche culturale: la sua posizione è quella dell'intellettuale di frontiera. Ciò può apparire un handicap ma al contrario agisce come fatto positivo che gli permette, ad esempio, di aggredire la problematica psicanalitica senza nessun complesso d'inferiorità, ed anzi da un'angolazione ironica tagliente, assolutamente estranea all'ottica che nei confronti della psicanalisi adottano gli scrittori contemporanei. Il silenzio di Svevo dal 1898 al 1923 non è un vuoto nel quale improvvisamente fiorisce La coscienza di Zeno, ma in realtà un periodo d'ininterrotta riflessione, di scavo profondo e di tensione verso la maturità umana, culturale ed espressiva, al termine del quale si situa l'esperienza della fase più alta della sua trilogia romanzesca. La coscienza di Zeno è una conferma ed una smentita dei due romanzi precedenti. Conferma l'ossessione tematica dell'autore incentrata sul fallimento e la sconfitta, e ne smentisce sul piano del linguaggio il determinismo, proprio in quanto è capace di sviluppare il suo gioco su due tavoli cambiando continuamente le carte: il tavolo della meccanica sociale mercantile-borghese ed il tavolo dell'ambiguità della psiche. Ciò che unifica il tutto è l'ironia, la disincantata "scienza della vita", la coscienza. La coscienza di Zeno Cosini è, appunto, la sola scienza che egli possieda, ed il solo suo disperato ed inalienabile bene. Il capolavoro, quindi, si pone come il momento decisivo e conclusivo di un processo tutt'altro che casuale e caratterizzato da sporadici sprazzi di felicità creativa, vissuto piuttosto dallo scrittore attraverso una ricerca condotta per venticinque anni in coerenza col principio che:

"Scrivere a questo mondo bisogna, ma pubblicare non occorre".

Al di là della "leggenda" del trentennale silenzio, quindi, è ormai chiaro che Svevo, malgrado il peso delle delusioni e l'incomprensione che circondava la sua opera, abbia continuato a lavorare non per vizio, ma nella convinzione che la lenta elaborazione della sua arte esigeva un impegno tutt'altro che sporadico, proteso alla ricerca dei significati più interni e segreti, in un certo senso da sempre già oltre la preoccupazione dei riconoscimenti ufficiali. Ne fanno fede diversi passi tratti dalla sua autobiografia:

"I suoi amici possono testificare ch'egli mai ammise che i suoi romanzi valessero poco. Sapeva chiaramente dei loro difetti ma non si decideva d'attribuire a questi il suo insuccesso. Era perciò vano un altro sforzo ulteriore. Credette sempre che anche a chi ha il talento di fare dei romanzi spetti una vita degna di essere vissuta. E se per ottenerla bisognava rinunziare all'attività per cui si era nati, bisognava rassegnarsi".

Ed ancora:

"Egli s'era messo a scrivere La coscienza di Zeno. Fu un attimo di forte travolgente ispirazione. Non c'era possibilità di salvarsi. Bisognava fare quel romanzo. Certo si poteva fare a meno di pubblicarlo, diceva".

Nel romanzo la divisione tra autobiografia e racconto è risolta proprio distruggendo la concezione strutturale del romanzo classico, e mettendo in atto una soluzione in parte già sfruttata per i due romanzi precedenti, ma che qui si evolve e si completa facendo di questo libro l'anti-romanzo per eccellenza. Svevo si trova tra le mani un semilavoro che non può diventare un "prodotto finito" se non restando un'opera aperta, involontaria, un testo insofferente verso qualsiasi ideologia, in modo tale che le stesse teorie freudiane, sebbene molto importanti per la genesi del romanzo, vengono utilizzate solo a livello culturale, come puri strumenti tecnici. Lo stesso Dottor S., che nel libro funge da portavoce di esse, è un personaggio più ridicolo che rispettabile. Svevo mediante la scrittura rifiuta la gabbia della scienza assunta come dogma e depositaria della verità vista in modo assoluto. La sua prassi terapeutica è qualcosa che egli non riesce ancora a definire in modo chiaro. Incerto tra scienza e filosofia si rivolge addirittura allo psicanalista triestino dottor Weiss, per chiarire, prima di tutto a se stesso, se il suo ultimo romanzo può essere considerato o meno un'opera psicanalitica, ricevendone una secca smentita. La coscienza di Zeno fonda un modello di letteratura diverso, ma l'autore non ne è consapevole fino in fondo. Nel romanzo dominano l'imprevedibilità, l'ambiguità e perfino la falsità, dal momento che la memoria stesa da Zeno è sicuramente parziale e sviluppa solo i fatti utili alla sua causa essendo egli un nevrotico in cura analitica. Cos'è attendibile di questo romanzo? Il lettore non può fidarsi del protagonista e tantomeno del suo psicanalista, dal momento che il Dottor S. agisce in modo scorretto e puerile, decidendo di pubblicare la memoria del paziente per vendicarsi dell'interruzione della terapia. è quindi chiaro che l'attendibilità della sua prefazione al racconto di Zeno è assai scarsa. Ci accorgiamo così che il romanzo è costruito su una rimozione: quella della verità. La verità è, per Svevo, l'equivalente della salute: due valori assolutamente privi di valore assoluto che sono sottoposti all'inevitabile svolgersi della vita. Alla verità lo scrittore contrappone la parodia, cioè il suo contrario. La verità implica l'immobilità, la parodia il movimento. L'unico senso de La coscienza di Zeno è quello del movimento, del rovesciamento costante, dell'instabilità costitutiva del mondo e della scrittura, ed è un senso alla cui costruzione è chiamato interrogativamente il lettore. La dimensione tragica della vita, così palesemente attiva ed evidenziata nei due primi romanzi, è mutata in questo, fin dall'inizio, verso la dimensione umoristica, uscendone sicuramente arricchita quanto a forza di convinzione drammatica. Svevo sa perfettamente che l'epoca della riproducibilità tecnica dei sentimenti permette di toccare il tragico solo attraverso il comico e si comporta di conseguenza. Il preambolo pone il lettore all'interno del meccanismo. Non siamo più di fronte all'espediente del romanzo-pretesto, la finzione romanzesca è dissipata. Il tentativo che Zeno fa di raccontare la propria vita, ora che è giunto ad un'età avanzata, è dato appunto come tentativo di riacquistare la salute, l'equilibrio e nulla più. Il "Proust italien", come Svevo è stato definito, persegue una strategia assolutamente originale: Proust si dissipa e si realizza in un inseguimento di nomi di paesi e di persone, di amori e di amicizie irrimediabilmente consumati, in cui celebra il suo rito idolatrico, il suo culto dell'effimero e non dell'eterno. Se idolatria è il Tempo perduto, la verità è il Tempo ritrovato, mediante un recupero in cui la memoria involontaria gioca un ruolo centrale. Svevo si serve di altri mezzi: la sua non si pone come una memoria mitica, come passaporto per sfuggire al silenzio ed alla morte. Egli realizza un'operazione in cui la volontarietà della memoria è ancora molto forte, e vale come strumento per chiarire il senso della propria e dell'altrui esistenza, in sostanza senza sperarne privilegi o risarcimenti. Il buonsenso laico e borghese di Svevo, come la sua matrice culturale, non possono essere confusi col decadentismo analitico che circola nelle pagine di Proust. Piuttosto, comune ad entrambi gli scrittori è l'esigenza di apprestarsi nuovi moduli di lavoro fondati sull'autobiografia come momento di sintesi rispetto alla frantumazione dell'esperienza; per cui tutt'e due i grandi romanzieri della crisi della coscienza borghese corrodono qualcosa di più che una tecnica letteraria, agiscono in un certo senso al di là della letteratura. Assai più letterato di loro risulta invece Joyce. Certo è che la particolare forma a episodi "autonomi", ognuno dei quali costituisce una sorta di stazione a ritroso che dal passato si dirige verso il presente di volta in volta incamerando gli elementi di quella che precede, non era pensabile senza il "rifiuto" della letteratura esplicitamente dichiarato dal triestino. La vitalità del romanzo ha origine da questa spallata che lo scrittore dà alle proprie abitudini di impianto e di racconto, per entrare nella propria materia non più come descrittore e commentatore, ma come interprete ed infine elemento attivo. L'autobiografia diventa a questo punto una via obbligata, e Svevo se ne serve con una libertà pari alla distanza ironica che intromette fra sé e questa materia. Il terzo capitolo Il fumo, cala il lettore in una delle situazioni chiave del romanzo. Ancora una volta, ci troviamo in presenza di uno dei perenni miti negativi di Svevo: il proposito di riscatto dei protagonisti e la sua mancata realizzazione, che inevitabilmente li frustra. Ma ora l'oggetto del proposito e la causa della frustrazione sono assolutamente irrisori e banalizzati: la battaglia si svolge fra Zeno e la propria volontà ed il motivo è l'ultima sigaretta. Zeno si abbarbica a continui proponimenti di non fumare più, che d'altronde eluderà sistematicamente rimuovendo poi sempre il rimorso ed il senso di colpa che gliene derivano. Il dramma propende al comico, all'umoristico. La materia è degradata rispetto ai romanzi precedenti, ma è subito più decisamente interna, dotata ormai di quell'ambiguità e contraddittorietà che Svevo attribuisce all'esistenza, e con la quale intende concorrere e misurarsi, operando su un sistema organico di decentramento e di dislocazione ininterrotta:

"Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte che m'aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell'igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?"

La dialettica tra malattia e salute è un altro dei motivi centrali del romanzo, anch'esso ambivalente ed in continuazione slittante dal piano fisiologico a quello psicologico. In realtà, salute, giovinezza e naturale equilibrio psichico sono i doni di un'età fortunata a cui si contrappongono i tristi portati della senilità: la cagionevolezza, la sensazione di esser fuori dal gioco, la finta rivalsa dell'esercizio della coscienza, che è in fondo il vizio più malinconicamente vero della parabola esistenziale. La ricchezza del romanzo si apre fin dalle prime pagine senza segreti: Svevo lavora ormai non più secondo la scala di una progressione logico-narrativa, ma secondo modi che, come abbiamo già evidenziato, obbediscono all'analogia ed all'aggregazione, all'associazione di idee ed al libero fluire della memoria. Lo schema non preesiste, ma sembra crearsi spontaneamente di volta in volta, nel tortuoso ed ineguale percorso dell'analisi. Il lettore è introdotto nell'universo di Zeno, nel flusso tra reale e fittizio del suo tempo e ciò avviene senza schermi protettivi, dal momento che il personaggio assicura di esporsi intero fin dai momenti iniziali. L'episodio della tentata disintossicazione in casa di cura è tipico dell'atmosfera autodenigratoria e dell'andamento da commedia degli equivoci che occupano buona parte del libro: questo "punitore di se stesso" che è Zeno non reggerà neanche una notte nella clinica, ma intanto, prima di ubriacare la vecchia infermiera e di tornarsene a casa, fa in tempo a farsi beffe anche del medico che lo visita. Nell'episodio successivo, cioè quello che racconta la morte del padre, Svevo sposta la tonalità sul tragico. Il padre di Zeno ha fama di essere un abile commerciante anche se in realtà i suoi affari sono diretti dall'attivo signor Olivi. Zeno nota che:

"Nell'incapacità al commercio v'era la somiglianza fra di noi, ma non ve ne erano altre; posso dire che, fra noi due, io rappresentavo la forza e lui la debolezza ".

Dov'è in fondo la vera forza di un uomo pigro e distratto come risulta essere Zeno Cosini? Probabilmente nella caparbietà con cui insiste a difendere dall'altrui intrusione le riserve dei suoi privati egoismi, nell'ostinazione con cui rifiuta di rinunciare ai piaceri minuti della vita, della sensualità e dell'orgoglio, ma più ancora, secondo il rimprovero paterno, nella sua tendenza a ridere delle cose più serie. Ma, si chiede Zeno (e con lui Svevo), cos'è serio a questo mondo? La serietà è dietro le apparenze, e riguarda un sempre più ristretto numero di eventi e di fenomeni. La malattia e la morte del padre si muovono su un piano che amplifica in chiave tragica la situazione drammatico-umoristica che il narratore-paziente Zeno ha definito come:

"Una analisi storica della mia propensione al fumo",

vizioso eccesso al quale egli attribuisce anche l'origine della straripante carica sessuale da cui quasi si sente perseguitato. La sensualità diventa malattia, irrefrenabile erotismo, dissipazione energetica e quindi colpa da espiare. Comanda l'imperativa etica borghese-mercantile, per la quale il momento ludico ed il gioco erotico rappresentano pulsioni e fenomeni pericolosi, alla lunga eversivi di un ordine e comunque poco seri ed indegni di essere esibiti. Il sognatore Zeno, guarendo dall'intossicazione da fumo, guarirà anche, secondo lui, dal suo furioso appetito sessuale. L'evento che segna profondamente il futuro di Zeno è il famoso schiaffo che il padre moribondo lascia cadere sul volto del figlio, come una punizione, al momento del trapasso. Gesto automatico o estremo sforzo per rimanere aggrappato alla vita? Esecuzione di una volontà o atto casuale? Lo schiaffo subisce nella memoria di Zeno la metamorfosi cui vanno soggetti tutti i fenomeni sgradevoli della sua esistenza, in genere con segno positivo. Già durante il funerale, non diventa più l'ultima prova d'incomprensione e d'ostilità di un uomo il cui corpo giaceva ancora "superbo e minaccioso", ma quasi il saluto composto di qualcuno che non si decide a lasciarci. Quella del padre è una forza che non può più offendere, ma Zeno non lo fa notare. La sua abilità nell'evasione, la capacità impeccabilmente tempestiva di servirsi di uno strumento come la sublimazione, la facoltà di rimuovere sistematicamente gli ostacoli che intralciano la sua libertà sentimentale e psicologica, costituiscono in realtà il potenziale più consistente della sua debolezza. Il fatto è che entro i confini del suo territorio egli risulta il più forte e finisce per essere il vincitore. Nessuno potrà violare la sua coscienza: Zeno ha tra l'altro il merito di non elevarsi un piedistallo, di non assumere posizioni eroiche. Se gli è consentita questa libertà, che è pur sempre un privilegio, lascia intuire che si tratta di un patto sociale stretto ben prima di lui, di cui egli fruisce e che gli permette addirittura di presentarsi come "antieroe". Paradossalmente Zeno trasforma i suoi scacchi in affermazioni vantaggiose. Così è negli affari, in cui sovente la sua inettitudine si rivela provvidenziale; così è nell'amore e nel matrimonio. Innamorato della bellissima Ada Malfenti, che lo respinge per sposare l'amabile e mondano Guido Speier, egli sposerà la brutta ma dolcissima sorella di lei, Augusta, quasi per forza d'inerzia e per necessario autoconvincimento che sia la donna giusta. Nella stessa serata Zeno si dichiara ad una dopo l'altra delle tre sorelle Malfenti, quasi in preda ad una smania di autoflagellazione. Due risposte negative: Ada e Alberta. Una risposta affermativa: Augusta. L'ostilità di Ada e della madre, una volta che le cose si sono messe per il verso da loro desiderato, si trasforma in affettuosa considerazione per Zeno. Con un senso della durata temporale di straordinaria suggestione fluidificante, Svevo gioca questa parte del romanzo su molti piani, mediante rimandi continui e continue rispondenze. Il presente, cioè il tempo dell'intelligenza che assiste e registra, s'insinua nel passato vissuto e sollecita i fermenti del passato ipotetico. Zeno agisce da regista e le fanciulle da attrici, nel momento esatto in cui il giovane parla di cose che gli sono avvenute in un passato imprecisato per interessarle e guadagnarne la simpatia. Ma di ciò il lettore ne è informato da un vecchio che racconta di se stesso giovane, rivedendosi nell'atteggiamento di narratore per un pubblico che vuole coinvolgere nel suo piccolo mito, nella costruzione di sé come individuo di eccezione. Marito involontario, Zeno si è lasciato scegliere. Del resto la sua intera esistenza brilla per l'assenza di scelte precise, eppure egli riesce sempre, stranamente, ad imboccare la strada giusta. La sua vera vocazione è quella di un uomo che evita il rischio sotto ogni forma, e si crea un involucro d'ipocondria, di malattia immaginaria, di neutralità di fronte ai conflitti esistenziali, dal quale assistere senza bruciarsi al rovente spettacolo della realtà. Questa è la vera coscienza del personaggio Zeno Cosini: ricerca apparentemente svagata e casuale della consapevolezza del vivere, e al contempo difesa della propria mancanza di qualità. La pratica della memoria non come rimpianto ma come ricostruzione attiva, a questo punto, è data addirittura come polemica nei confronti dei valori borghesi correnti: intraprendenza, spregiudicatezza, senso pragmatico e attivismo pratico; valori tutti volti in primo luogo all'affermazione economica, allo scopo del lucro e del profitto. La moglie Augusta è la difesa dal rischio, l'amante Carla l'avventura senza rischio. I sentimenti di Zeno scivolano continuamente dal drammatico al comico, ed i poli umani di quest'oscillazione sono rappresentati appunto dalla moglie e dall'amante, come già in Senilità Angiolina ed Amalia erano state le personificazioni del piacere colpevole e della purezza sacrificata. Zeno ha lasciato da parte il "mondo sano e regolato" organizzatogli attorno da Augusta per avventurarsi nell'incognita del proibito: ha lasciato la "salute" per entrare nella "malattia". Quando avrà superato suo malgrado l'infatuazione per Carla non sarà per questo guarito dalle sue inquietudini e dalle sue nevrosi. I motivi profondi che hanno spinto lo scrittore a realizzare il suo romanzo-pretesto sono ormai chiari. Nell'ultimo capitolo del libro Zeno-Svevo chiarisce come non gli è possibile rinunciare alla sua identità più autentica, e si libera mediante l'ironia dagli impacci che gli hanno cucito addosso le strutture terapeutiche:

"Da un anno non avevo scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo accanto a lui, perché un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe rafforzato i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono. Ma ora mi ritrovo squilibrato e malato più che mai e, scrivendo, credo che mi netterà più facilmente del male che la cura m'ha fatto. Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che più non duole e far andare via più rapido il presente uggioso".

La rottura col trattamento psicanalitico determina anche una frattura nel flusso cronologico degli avvenimenti narrati. Di colpo ci troviamo a tu per tu col presente. Ed il presente è, ancora una volta, una combinazione di tragedia e grottesco, di tristezza e di riso. L'uomo diventa sempre più furbo e debole perché si affida agli "ordigni" che inventa secondo tecniche più raffinate per "la grande guerra", al punto che l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto, la legge del più forte non ha più valore, alla natura si è sostituito l'artificio ed è così andata persa la selezione naturale. Ecco perché tutte le terapie (e la psicanalisi per prima) non sono radicali ma semplicemente restauratorie. La liberazione non potrà realizzarsi, probabilmente, che attraverso l'utopia, raffigurata nelle battute finali del romanzo con l'immagine apocalittica della distruzione del mondo, di questo mondo, in cui si è perduta la misura dell'uomo e l'unica liberazione, per Svevo, non può che chiamarsi "salute":

"Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie".


 

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