Il fanciullino e il superuomo: due miti complementari

 

Due miti diversi con le stesse radici

Il «fanciullino» pascoliano e il «superuomo» dannunziano sono due miti che, pur nascendo negli stessi anni (il romanzo Le vergini delle rocce compare nel 1895, Il fanciullino nel 1897), appaiono antitetici. Per usare l’efficace descrizione di Carlo Salinari, «lì la lussuria e qui l’innocenza, lì la violenza e qui la mansuetudine, lì il tono esaltato e qui la voce smorzata, lì gli oggetti e i paesaggi più esotici e strani, qui gli oggetti e i paesaggi di tutti i giorni, lì il lusso e qui la povertà, lì il dominio e qui la sofferenza». In realtà, a ben vedere, essi hanno le radici nello stesso terreno, sono risposte diverse ma specularmente equivalenti e complementari agli stessi problemi e agli stessi traumi.

 

Le trasformazioni sociali ed economiche a fine Ottocento

Si è già fatto cenno ai grandiosi processi di trasformazione storica che si verificano a fine Ottocento, non solo in ambito europeo ma anche in Italia, e che hanno effetti sconvolgenti sulla coscienza collettiva: la civiltà industriale che assume proporzioni sempre più gigantesche e ritmi produttivi sempre più frenetici, la concentrazione monopolistica che tende a cancellare l’iniziativa del singolo individuo, la complessità labirintica della vita economico-finanziaria e degli apparati burocratici nelle metropoli moderne, che riducono l’individuo ad una trascurabile rotellina in un ingranaggio, priva di possibilità di scelta e di incidenza sul processo complessivo, i conflitti sempre più esasperati fra il capitale e le masse operaie, che sconvolgono la vita sociale con disordini e violente repressioni, lo scatenarsi degli imperialismi aggressivi che entrano in conflitto fra loro e minacciano una guerra apocalittica (che difatti scoppierà di lì a pochi anni, nel 1914).

 

I riflessi sui ceti medi

Tali processi incidono in modo devastante soprattutto sulle masse dei ceti medi, che si trovano come schiacciate tra grandi forze anonime, senza volto, che non sono in grado di dominare, la grande industria, il grande capitale finanziario, gli apparati burocratici, le masse proletarie inquiete e sovversive. Da un lato la nuova organizzazione produttiva, spazzando via tutta una serie di attività che non possono più reggere la concorrenza (la piccola impresa semiartigianale, la piccola proprietà agricola, molte professioni e mestieri antichi), declassa il ceto medio tradizionale a condizioni squallide, talora di vera indigenza; dall’altro genera un nuovo, sterminato ceto medio impiegatizio, totalmente massificato.

 

La crisi di una nozione di uomo

In conseguenza di questi processi sociali, che tendono ad annullare l’individuo, entra in crisi nella coscienza collettiva un’intera nozione di uomo, quale era stata vagheggiata dalla civiltà borghese al suo apogeo, nella fase eroica della sua affermazione: l’individuo libero, energico, sicuro di sé, capace di crearsi il suo mondo con la sua iniziativa e la sua volontà, entro la sua specifica sfera d’azione che è costituita dal lavoro produttivo e dalla famiglia.

 

La declassazione degli intellettuali

Il fenomeno investe con particolare violenza gli intellettuali, che appartengono in larga misura proprio ai ceti medi. Lo scrittore e l’artista si trovano spesso declassati ad una condizione piccolo borghese, privati del peso sociale e del prestigio di cui godevano in passato (la «perdita d’aureola» di cui parla già con lucidissima intuizione Baudelaire), costretti a competere sul mercato per "vendere" i prodotti della loro arte (con risultati spesso fallimentari perché il pubblico, ormai allettato dalla cultura di massa prodotta in serie, li respinge in quanto non assecondano i suoi gusti), in molti casi relegati per la sopravvivenza a mansioni subalterne, non confacenti all’immagine che essi hanno di sé, quelle dell’impiegato, dell’insegnante medio o elementare, del giornalista in fogli di scarsa diffusione, o dell’artista bohémien, che vive precariamente senza mai trovare acquirenti alle proprie opere.

 

Lo smarrimento dinanzi alla realtà moderna

Da questa condizione sociale scaturisce uno stato d’animo diffuso, che si rispecchia nella cultura di questa età, un senso di smarrimento angoscioso di fronte alla complessità della realtà moderna, che appare ostile, minacciosa, soffocante, e sfugge sia alla comprensione sia al controllo degli intellettuali.

 

Pascoli e l’Eden dell’infanzia

Il «fanciullino» e il «superuomo» sono appunto due risposte compensatorie, elaborate da due intellettuali provenienti dai ceti medi provinciali, a questi processi traumatizzanti. Creando il mito dell’infanzia Pascoli «coglie un tratto reale della psicologia e della condizione dell’uomo moderno» (Salinari), e propone quindi una soluzione destinata a suscitare echi profondi nell’anima collettiva: l’idea di un Eden innocente, che si sottragga alle brutture della società contemporanea, in cui non esistano violenze e conflitti laceranti, ma solo fraternità, amore, mitezza, in cui alla spietata logica produttiva si sostituisca la fantasia, la contemplazione incantata e ingenua del mondo. È un mito consolatorio, d’evasione, che esprime un rifiuto della società e della storia, il bisogno disperato di regredire in una condizione fuori del tempo, ignorando gli sviluppi più angosciosi della realtà moderna.

 

Il «nido»

Intimamente collegato col mito dell’infanzia è quello del «nido» familiare, che, chiudendo nel suo ambito geloso, tiepido e avvolgente, può preservare intatta la condizione edenica dell’infanzia, impedire all’uomo di venire a contatto traumatico con il mondo esterno, proteggerlo dall’urgere di forze aggressive e paurose respingendole al di là dei propri confini, creare un clima d’illusoria pace e serenità al proprio interno.

 

La campagna

A loro volta infanzia e nido non possono che collocarsi sullo sfondo idillico della campagna che, in contrapposizione alla vita cittadina nelle metropoli moderne, veri mostri capaci solo di spersonalizzare e alienare l’uomo, di istillargli la smania del possesso e di spingerlo alla competizione e all’aggressività, consente ancora un rapporto innocente e fraterno con la natura, con alberi, fiori, uccelli, garantisce una vita tranquilla, sgombra di angosce e paure, appagata del poco e quindi felice.

 

D’Annunzio celebratore della modernità A questo scontro traumatico con la modernità D’Annunzio, col mito del «superuomo», reagisce in modo contrario, non fuggendo all’indietro ma, per così dire, "in avanti": invece di rimuovere, decide di celebrare proprio ciò che fa paura, l’espansione industriale, la macchina, la guerra, il conflitto sociale violento, il dominio dei più forti che schiacciano i più deboli. Da un lato, in Pascoli, a compensare l’impotenza e la sconfitta, si ha il ripiegamento entro il guscio protettivo delle piccole cose quotidiane e degli affetti più comuni e miti; dall’altro, in D’Annunzio, si ha il rovesciamento immaginario dell’impotenza in onnipotenza, attraverso atteggiamenti attivistici e aggressivi, attraverso l’esaltazione della lotta e del dominio imperiale, l’affermazione oltre ogni limite dell’io e di una sensibilità eccezionale. Alla base di atteggiamenti del genere si possono però ravvisare le stesse angosce, gli stessi traumi, lo stesso senso di impotenza e di sconfitta: difatti affiora costantemente nell’opera dannunziana, come si è potuto ampiamente verificare, l’attrazione per la morte, per il disfacimento, per il nulla, che esercitano un fascino morboso e voluttuoso.

 

L’occultamento delle spinte disgregatrici

La costruzione del mito superomistico non è che il tentativo di occultare quelle spinte disgregatrici, nichilistiche. D’altronde D’Annunzio, prima di approdare al superuomo, aveva proprio esordito con personaggi deboli e sconfitti (Andrea Sperelli del Piacere, Giorgio Aurispa del Trionfo della morte), che si ritraggono con orrore dinanzi alla realtà contemporanea e alle sue novità più sconvolgenti, rifugiandosi nell’interiorità solipsistica o nel culto dell’arte. E solo con una scelta disperatamente velleitaria che D’Annunzio, per reagire alle spinte autodistruttive che sente in se stesso, contrappone a quegli eroi "inetti a vivere" i suoi superuomini dominatori e violenti, dotati, oltre che di sensibilità eletta per la Bellezza, di una forza barbarica e ferina.

 

Il ruolo del poeta vate per D’Annunzio e Pascoli

Quello del superuomo è per sua natura intrinseca un mito "pubblico", destinato ad agire nella collettività: non meraviglia perciò che D’Annunzio, per divulgarlo, abbia assunto le vesti del poeta vate, del tribuno fascinatore di folle, persino del divo che propone il suo «vivere inimitabile» come modello. Per contro si potrebbe pensare che Pascoli, data la sua chiusura intimistica e la fuga dalla storia verso l’Eden dell’infanzia, sia stato indotto a rifiutare ogni ruolo pubblico, di poeta vate. Ma non è così: anche Pascoli, negli stessi anni di D’Annunzio, amò assumere posizioni ufficiali, seppure in forme diverse, più dimesse, meno reboanti, meno appariscenti e divistiche. Era infatti convinto, come abbiamo appena letto, che la poesia pura, espressione dell’ingenua meraviglia del «fanciullino» dinanzi al mondo, potesse essere, proprio in quanto poesia pura, di una «suprema utilità morale e sociale», divulgando un ideale tra francescano e tolstoiano di non violenza, di mansuetudine, di perdono, di pace e fratellanza fra i popoli; riteneva anche che essa potesse avere un valore consolatorio verso il male del mondo e indurre gli uomini a contentarsi della loro condizione, per quanto umile, quindi ad eliminare i dirompenti conflitti fra le classi. Anche il «fanciullino», quindi, cela un vate che diffonde miti e ideologie.

 

Il pubblico

E i due "vati", nonostante le profonde differenze (l’uno aristocraticamente vitalistico e superomistico, l’altro umile, dimesso e modesto), si rivolgevano in fondo allo stesso pubblico, quelle masse piccolo-medio borghesi create dallo sviluppo della civiltà moderna, schiacciate e frustrate dai suoi meccanismi spersonalizzanti: nella parola magica del «superuomo» dominatore quelle masse trovavano riscatto dal loro squallore quotidiano, sentendosi trasportare in un mondo più splendido, fatto di esperienze rare e preziose; nei messaggi del «fanciullino» pascoliano potevano scoprire la bellezza e la "poeticità" segreta che era insita nella loro vita grigia e comune ed essere indotti ad accettarla con umile rassegnazione. Comunque anche il «fanciullino», all’occorrenza, sapeva divenir tribuno, cantore ufficiale delle glorie patrie come in Odi ed Inni, Canzoni di re Enzio, Poemi italici, Poemi del Risorgimento, o celebratore dei miti nazionalistici e colonialistici, come nel discorso sulla guerra di Libia, La grande proletaria si è mossa.

 

(Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, vol. 3/1. D’Annunzio e Pascoli)


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