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Brani metaletterari
Luigi CAPUANA, brano tratto dalla recensione ai Malavoglia di Verga (1881)
Giovanni. VERGA, la Prefazione al racconto L’amante di Gramigna (orig. 1880, rist. 1897)
Giovanni VERGA, la Prefazione ai Malavoglia, che funge da prefazione all’intero ciclo dei Vinti (1881)
Novelle
La lupa (versione stampabile in formato .rtf)
La roba (versione stampabile in formato .rtf) analisi del testo del Baldi
Brani tratti da I Malavoglia (versione stampabile in formato .rtf)
Il mondo arcaico e l’irruzione della storia (dal capitolo I)
L’abbandono del nido e la commedia dell’interesse (tratto dal cap. IX)
Il vecchio e il giovane: tradizione e rivolta (tratto dal cap. XI)
Brani tratti da Mastro-Don Gesualdo
La tensione faustiana del self-made man (dalla parte I, capitolo IV) con analisi del Baldi
1) Luigi CAPUANA, brano tratto dalla recensione ai Malavoglia di Verga (1881)
Il Balzac, il gran padre del romanzo moderno, ha i suoi predecessori ai quali sta, forse, meno attaccato che i suoi successori non stiano a lui. Il Flaubert, i De Goncourt, lo Zola che hanno fatto e che fanno altro se non svolger meglio, ridurre a maggior perfezione quelle parti della forma del romanzo rimaste nella Comédie humaine in uno stato incipiente o imperfetto? Il naturalismo, i famosi documenti umani non sono una trovata dello Zola. Bisogna non aver letto la prefazione del Balzac al suo immenso monumento per credere che il trasportare nel romanzo il metodo della storia naturale sia una novità strana e pericolosa. Senza dubbio l'elemento scientifico s'infiltra nel romanzo contemporaneo e lo trasforma più pesantemente, con più coscienza, nei lavori del Flaubert, dei De Goncourt e dello Zola; ma la vera novità non istà in questo. Né stà nella pretesa di un romanzo sperimentale, bandiera che lo Zola inalbera arditamente, a sonori colpi di grancassa, per attirar la folla che altrimenti passerebbe via, senza fermarsi (…). Un’opera d'arte non può assimilarsi un concetto scientifico che alla propria maniera, secondo la sua natura d'opera d'arte. Se il romanzo non dovesse far altro che della fisiologia o della patologia, o della psicologia comparata in azione, (…) il guadagno non sarebbe né grande né bello. Il positivismo, il naturalismo esercitano una vera e radicale influenza nel romanzo contemporaneo, ma soltanto nella forma e tal influenza si traduce nella perfetta impersonalità di quest'opera d'arte. Tutto il resto, per l'arte, è una cosa molto secondaria, e dovrebbe esser tale anche nei giudizii che si pronunziano intorno ai lavori rappresentanti, più o meno efficaci, della nuova formula artistica. (…) Nei romanzi del Balzac, questo sparire dell'autore avviene ad intervalli. Egli si mescola ogni po' all'azione, spiega, descrive, torna addietro, fa delle lunghe divagazioni prima di lasciar i suoi personaggi a dibattersi soli soli colle loro passioni, col loro carattere, colle potenti influenze del lor tempo e dei luoghi; e l'onnipotenza del suo genio non si mostra mai così intera come quando le sue creature rimangon libere, abbandonate ai loro istinti, alla loro tragica fatalità. I suoi successori intervengono assai meno di lui nell'azione o non intervengono affatto. Si può dire che la loro opera d'arte si faccia da sé, piuttosto che la faccian loro. E questo semplicissimo cambiamento ha già prodotto una rivoluzione che il volgo dei lettori difficilmente sarà nel caso d'apprezzare nel suo giusto valore. I Malavoglia si rannodano agli ultimissimi anelli di questa catena dell'arte. L'evoluzione del Verga è completa. Egli è uscito dalla vaporosità della sua prima maniera e si è afferrato alla realtà, solidamente. Questi Malavoglia e la sua Vita dei campi saranno un terribile e salutare corrosivo nella nostra bislacca letteratura. Lasciateli fare e vedrete. Se avranno poi la consacrazione (e se la meritano) d'una traduzione francese, eserciteranno un'influenza anche in una sfera più larga e conteranno per qualche cosa nella storia generale dell'arte. Giacché finora nemmeno lo Zola ha toccato una cima così alta in quell'impersonalità ch'è l'ideale dell'opera d'arte moderna. C'è voluto, senza dubbio, un'immensa dose di coraggio, per rinunziare così arditamente ad ogni più piccolo artificio, ad ogni minimo orpello rettorico e in faccia a questa nostra Italia che la rettorica allaga nelle arti, nella politica, nella religione, dappertutto. Ma non c'è voluto meno talento per rendere vive quelle povere creature di pescatori, quegli uomini elementari attaccati, come le ostriche, ai neri scogli di lava della riva di Trezza. (…) Un romanzo come questo non si riassume. È un congegno di piccoli particolari, allo stesso modo della vita, organicamente innestati insieme. L'interesse che ispira non è quello volgare, triviale del come finirà? ma un interesse concentrato che vi prende a poco a poco, con un'emozione di tristezza dinanzi a tanta miseria, dinanzi a quella lotta per la vita, qui osservata nel suo primo stadio quasi animale, e che l'autore s'accinge a studiare nelle classi superiori con una serie di romanzi legati insieme dal titolo complessivo: I Vinti. L'originalità il Verga l'ha trovata dapprima nel suo soggetto, poi nel metodo impersonale portato fino alle sue estreme conseguenze. Quei pescatori sono dei veri pescatori siciliani, anzi di Trezza, e non rassomigliano a nessuno dei personaggi d'altri romanzi. Non è improbabile che il Verga si possa sentir accusare di minore originalità quando il suo soggetto lo condurrà fra la borghesia e le alte classi delle grandi città, perché allora le differenze dei caratteri e delle passioni appariranno meno spiccate; ed è bene notarlo fin da ora.
2) G. VERGA, la Prefazione al racconto L’amante di Gramigna (orig. 1880, rist. 1897)
Ha la forma di una lettera indirizzata a Salvatore Farina (1846-1919), romanziere e giornalista, direttore della «Rivista minima», su cui il racconto di Verga fu pubblicato. Farina era contrario alle tendenze veriste e per questo Verga si rivolge a lui argomentando i suoi convincimenti letterari.
Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l'abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, press'a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'esser stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne; il misterioso processo per cui le passioni si annodano , si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotteraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditorì, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l'argomento di un racconto, e che l'analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d'arrivo, e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l'effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all'arte dell'avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell'uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell'immaginazione, che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando nel romanzo l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l'impronta dell'avvenimento reale, l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sè, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d'origine.
3) Giuseppe VERGA, la Prefazione ai Malavoglia, che funge da prefazione all’intero ciclo dei Vinti (1881)
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l'uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra; e ambizione nell'Onorevole Scipioni, per arrivare all'Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell'azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l'educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all'idea, in un'epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un'uniformità di sentimenti e d'idee. Perché la riproduzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell'argomento generale.
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l'accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l'attività dell'individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorio universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell'attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani.
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l'Onorevole Scipioni, l'Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l'esistenza, pel benessere, per l'ambizione - dall'umile pescatore al nuovo arricchito - alla intrusa nelle alte classi - all'uomo dall'ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini; di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge - all'artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un'altra forma dell'ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere.
Milano, 19 gennaio 1881
(il brano che segue è tratto dalla novella che troviamo in Vita dei campi - 1880)
Le ragazze del villaggio sparlarono di lei perché andò a lavorare subito il giorno dopo la morte della sua vecchia, e perché non aveva messo il bruno; e il signor curato la sgridò forte, quando la domenica successiva la vide sull’uscio del casolare, mentre si cuciva il grembiule che aveva fatto tingere in nero, unico e povero segno di lutto, e prese argomento da ciò per predicare in chiesa contro il mal uso di non osservare le feste e le domeniche.
La povera fanciulla, per farsi perdonare il suo grosso peccato, andò a lavorare due giorni nel campo del curato, acciò dicesse la messa per la sua morta il primo lunedì del mese; e la domenica, quando le fanciulle, vestite dei loro begli abiti da festa, si tiravano in là sul banco, o ridevano di lei, e i giovanotti, all’uscire di chiesa, le dicevano facezie grossolane, ella si stringeva nella sua mantellina tutta lacera, e affrettava il passo, chinando gli occhi, senza che un pensiero amaro venisse a turbare la serenità della sua preghiera - ovvero diceva a se stessa a mo’ di rimprovero che si fosse meritato: - Son così povera! - oppure, guardando le sue due buone braccia: - Benedetto il Signore che me le ha date! - e tirava via sorridendo.
Una sera - aveva spento da poco il lume - udì nella viottola una nota voce che cantava a squarciagola, e con la melanconica cadenza orientale delle canzoni contadinesche: Picca cci voli ca la vaju’ a viju. A la mi’ amanti di l’arma mia!...
- È Janu! - disse sottovoce, mentre il cuore le balzava dal petto come un uccello spaventato, e cacciò la testa fra le coltri.
E il domani, quando aprì la finestra, vide Janu col suo bel vestito nuovo di fustagno, nelle cui tasche cercavano entrare per forza le sue grosse mani nere e incallite al lavoro, con un bel fazzoletto di seta nuova fiammante che faceva capolino con civetteria dalla scarsella del farsetto, il quale si godeva il bel sole d’aprile appoggiato al muricciolo dell’orto.
- Oh, Janu! - diss’ella, come se non ne sapesse proprio nulla.
- Salutamu! - esclamò il giovane col suo più grosso sorriso.
- O che fai qui?
- Torno dalla Piana -.
La fanciulla sorrise, e guardò le lodole che saltellavano ancora sul verde per l’ora mattutina.
- Sei tornato colle lodole.
- Le lodole vanno dove trovano il miglio, ed io dove c’è del pane.
- O come?
- Il padrone m’ha licenziato.
- O perché?
- Perché avevo preso le febbri laggiù, e non potevo più lavorare che tre giorni per settimana.
- Si vede, povero Janu!
- Maledetta Piana! - imprecò Janu stendendo il braccio verso la pianura.
- Sai, la mamma!... - disse Nedda.
- Me l’ha detto lo zio Giovanni -.
Ella non aggiunse altro, e guardò l’orticello al di là del muricciolo. I sassi umidicci fumavano; le gocce di rugiada luccicavano su di ogni filo d’erba; i mandorli fioriti sussurravano lieve lieve e lasciavano cadere sul tettuccio del casolare i loro fiori bianchi e rosei che imbalsamavano l’aria; una passera, petulante e sospettosa nel tempo istesso, schiamazzava sulla gronda, e minacciava a suo modo Janu, che aveva tutta l’aria, col suo viso sospetto, di insidiare al suo nido, del quale spuntavano tra le tegole alcuni fili di paglia indiscreti. La campana della chiesuola chiamava a messa.
- Come fa piacere a sentire la nostra campana! - esclamò Janu.
- Io ho riconosciuto la tua voce stanotte, - disse Nedda facendosi rossa, e zappando con un coccio la terra della pentola che conteneva i suoi fiori.
Egli si volse in là, ed accese la pipa, come deve fare un uomo.
- Addio, vado a messa! - disse bruscamente la Nedda, tirandosi indietro dopo un lungo silenzio.
- Prendi, ti ho portato codesto dalla città - le disse il giovane sciorinando il suo bel fazzoletto di seta.
- Oh! com’è bello! ma questo non fa per me!
- O perché? se non ti costa nulla! - rispose il giovanotto con logica contadinesca.
Ella si fece rossa, come se la grossa spesa le avesse dato idea dei caldi sentimenti del giovane, gli lanciò, sorridente, un’occhiata fra carezzevole e selvaggia, e scappò in casa; e allorché udì i grossi scarponi di lui sui sassi della viottola, fece capolino per accompagnarlo cogli occhi mentre se ne andava.
Alla messa le ragazze del villaggio poterono vedere il bel fazzoletto di Nedda, dove c’erano stampate delle rose che si sarebbero mangiate, e su cui il sole, scintillante dalle invetriate della chiesuola, mandava i suoi raggi più allegri. E quand’ella passò dinanzi a Janu, il quale stava presso il primo cipresso del sacrato, colle spalle al muro e fumando nella sua pipa intagliata, ella sentì gran caldo al viso, e il cuore che le faceva un gran battere in petto, e sgusciò via alla lesta. Il giovane le tenne dietro fischiettando, e la guardava a camminare svelta e senza voltarsi indietro, colla sua veste nuova di fustagno che faceva delle belle pieghe pesanti, le sue brave scarpette, e la sua mantellina fiammante. - La povera formica, or che la mamma stando in paradiso non l’era più a carico, era riuscita a farsi un po’ di corredo col suo lavoro. - Fra tutte le miserie del povero c’è anche quella del sollievo che arrecano le perdite più dolorose al cuore!
[Nedda e Janu lavorano insieme al dissodamento di alcuni poderi, e la domenica tornano insieme al paese. Un giorno Nedda, vinta dall’ardore della campagna assolata, si abbandona a Janu. Avuto sentore del suo fallo, tutto il paese la evita. I datori di lavoro ne approfittano per diminuirle la paga. Nedda attende che Janu, andato a lavorare lontano, torni con il gruzzolo per il matrimonio. Però Janu torna senza un soldo, perché ha avuto la malaria. L’indomani riparte per un altro lavoro, la potatura degli ulivi].
Tre giorni dopo udì un gran cicaleccio per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di comari Janu disteso su di una scala a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue. Lungo la via dolorosa, prima di giungere al suo casolare, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, era caduto da un’alta cima, e s’era concio in quel modo. - Il cuore te lo diceva: - mormorava con un triste sorriso. Ella l’ascoltava coi suoi grand’occhi spalancati, pallida come lui e tenendolo per mano. Il domani egli morì.
Allora Nedda, sentendo muoversi dentro di sé qualcosa che quel morto le lasciava come un triste ricordo, volle correre in chiesa a pregare per lui la Vergine Santa. Sul sacrato incontrò il prete che sapeva la sua vergogna, si nascose il viso nella mantellina e tornò indietro derelitta.
Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casipola, al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido. Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l’un dopo l’altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta. Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di morire di fame. Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta; quando le dissero che non era un maschio pianse come aveva pianto la sera in cui aveva chiuso l’uscio del casolare dietro al cataletto che se ne andava, e s’era trovata senza la mamma; ma non volle che la buttassero alla Ruota.
- Povera bambina! Che incominci a soffrire almeno il più tardi che sia possibile! - disse.
Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata. Alla povera bambina mancava il latte, giacché alla madre scarseggiava il pane. Ella deperì rapidamente, e invano Nedda tentò spremere fra i labbruzzi affamati il sangue del suo seno. Una sera d’inverno, sul tramonto, mentre la neve fioccava sul tetto, e il vento scuoteva l’uscio mal chiuso, la povera bambina, tutta fredda, livida, colle manine contratte, fissò gli occhi vitrei su quelli ardenti della madre, diede un guizzo, e non si mosse più.
Nedda la scosse, se la strinse al seno con impeto selvaggio, tentò di scaldarla coll’alito e coi baci, e quando s’accorse che era proprio morta, la depose sul letto dove aveva dormito sua madre, e le s’inginocchiò davanti, cogli occhi asciutti e spalancati fuor di misura.
- Oh! benedette voi che siete morte! - esclamò. - Oh! benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me! -
Tratto dal Baldi – Giusso – Razetti – Zaccaria, Dal testo alla storia. dalla storia al testo, edizione modulare 3/1 (Carducci e Verga)
Nedda non dà inizio al Verismo verghiano
Assenza dell’impersonalità
Interventi del Narratore
Il patetismo sentimentale
Evocazione idillica della campagna |
A lungo Nedda fu considerato l’inizio del verismo verghiano, perché abbandonava gli ambienti eleganti e le passioni complicate dei primi romanzi e rappresentava gli umili e loro miserie, sullo sfondo dell’ambiente regionale siciliano. Ma oggi è stato messo in chiaro che non è la scelta di particolari contenuti a qualificare il verismo di Verga, bensì il metodo e la forma, il modo di porsi di fronte alla realtà e di rappresentarla (di questo Verga sarà poi ben consapevole, e lo proclamerà con molta chiarezza a più riprese). Qui ci sono sì dei contenuti che saranno tipici delle opere successive, ma mancano i due tratti distintivi fondamentali del verismo dell’impersonalità verghiano, la rinuncia pessimistica al giudizio e l’impersonalità, che ne è la traduzione formale. Non c’è traccia, in Nedda, di "eclisse" dell’autore, di regressione del narratore all’interno del mondo rappresentato. Al contrario, il narratore si pone in primo piano in apertura, sottolineando come tutto il racconto scaturisca da del narratore un moto della sua memoria: i due piani, quello dell’intellettuale e quello del popolo, sono nettamente distinti. Poi, nel corso del racconto, il narratore interviene frequentemente: ora con esclamazioni che rivelano partecipazione sentimentale alle sventure dell’umile protagonista («la povera formica»; «fra tutte le miserie del povero c’è anche quella del sollievo che arrecano le perdite più dolorose al cuore!»), ora con similitudini dal-la forte carica patetica («al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido»), ora con giudizi polemici contro l’insensibilità della società («quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile»; «Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata»). Questi interventi rivelano nell’autore l’atteggiamento "umanitario" dell’intellettuale illuminato, che si sdegna dinanzi alle miserie della povera gente, condanna le storture sociali, e al tempo stesso si commuove e si china verso i miseri con pietà sentimentale e paternalistica. Ne nasce una rappresentazione melodrammatica e patetica: si pensi alla morte della neonata affamata nel gelo del tugurio, mentre nevica; tutto è costruito in modo da imporre la reazione emotiva, da strappare le lacrime. Siamo agli antipodi rispetto al duro pessimismo del Verga successivo e all’impersonalità rigorosa che ne deriva. Piuttosto una narrazione del genere si colloca esattamente nel clima e nel tono dei suoi romanzi preveristi (come conferma anche la cronologia, visto che Nedda è del ‘74). In più vi è un gusto tutto romantico per la rievocazione, attraverso l’abbandono nostalgico alla memoria, di una realtà esotica e diversa, quella della campagna siciliana, che a tratti appare, al di là del problema sociale, in una luce idillica, quasi un Eden perduto di primitiva spontaneità e ingenuità. Si veda lo sfondo di natura, liricamente evocato, su cui si svolge l’incontro tra Janu e Nedda: le gocce di rugiada che luccicano sui fili d’erba, i mandorli fioriti che sussurrano lievi, l’aria profumata, il canto degli uccelli, la campana che chiama alla messa; e si veda lo sguardo intenerito con cui il narratore contempla il rituale contadino del corteggiamento, col dono del fazzoletto. Il vagheggiamento romantico del mondo rurale siciliano è una componente che perdurerà ancora in Vita dei campi, ma ormai in conflitto con tutt’altre tendenze, come dimostra un racconto come Rosso Malpelo. |
La novella fu pubblicata originariamente sulla «Rivista nuova di scienze, lettere e arti» nel febbraio 1880, poi nello stesso anno fu raccolta in Vita dei campi. La versione seguente è quella del 1897
La lupa
Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna - e pure non era più giovane - era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.
Al
villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di
nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una
cagnaccia, con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si
spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio, con le sue
labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con
quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all'altare di Santa Agrippina.
Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a
Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. - Padre Angiolino di Santa
Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l'anima per lei.
Maricchia, poveretta, buona e brava
ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno
l'avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone,
e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio.
Una volta la Lupa si innamorò di un bel
giovane che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del
notaro; ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni
sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che
si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma lui seguitava a
mietere tranquillamente, col naso sui manipoli, e le diceva: - O che avete, gnà
Pina? - Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli,
quando il sole batteva a piombo, la Lupa, affastellava manipoli su
manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento
sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle
calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: -
Che volete, gnà Pina? -
Una sera ella glielo disse, mentre gli
uomini sonnecchiavano nell'aia, stanchi dalla lunga giornata, ed i cani
uggiolavano per la vasta campagna nera: - Te voglio! Te che sei bello come il
sole, e dolce come il miele. Voglio te!
- Ed io invece voglio vostra figlia, che è
zitella - rispose Nanni ridendo.
La Lupa si cacciò le mani nei
capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò; né più
comparve nell'aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l'olio,
perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolio del torchio non
la faceva dormire tutta notte.
- Prendi il sacco delle olive, - disse alla
figliuola, - e vieni -.
Nanni spingeva con la pala le olive sotto
la macina, e gridava - Ohi! - alla mula perché non si arrestasse. - La vuoi
mia figlia Maricchia? - gli domandò la gnà Pina. - Cosa gli date a vostra
figlia Maricchia? - rispose Nanni. - Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io
le do la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina,
per stendervi un po' di pagliericcio. - Se è così se ne può parlare a Natale
- disse Nanni. Nanni era tutto unto e sudicio dell'olio e delle olive messe a
fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l'afferrò
pe' capelli, davanti al focolare, e le disse co' denti stretti: - Se non lo
pigli, ti ammazzo! -
La Lupa era quasi malata, e la gente
andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più
di qua e di là; non si metteva più sull'uscio, con quegli occhi da spiritata.
Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia, quegli occhi, si metteva a
ridere, e cavava fuori l'abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in
casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli
uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a
potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di
agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini
dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. In quell'ora fra vespero e
nona, in cui non ne va in volta femmina buona, la gnà Pina era la sola anima
viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole,
fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell'afa, lontan
lontano, verso l'Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull'orizzonte.
- Svegliati! - disse la Lupa a Nanni
che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. -
Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola -.
Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra
veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e
gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani.
- No! non ne va in volta femmina buona
nell'ora fra vespero e nona! - singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro
l'erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. -
Andatevene! andatevene! non ci venite più nell'aia! -
Ella se ne andava infatti, la Lupa,
riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle
stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone.
Ma nell'aia ci tornò delle altre volte, e
Nanni non le disse nulla. Quando tardava a venire anzi, nell'ora fra vespero e
nona, egli andava ad aspettarla in cima alla viottola bianca e deserta, col
sudore sulla fronte - e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva
ogni volta: - Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell'aia! -
Maricchia piangeva notte e giorno, e alla
madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una
lupacchiotta anch'essa, allorché la vedeva tornare da' campi pallida e muta
ogni volta. - Scellerata! - le diceva. - Mamma scellerata!
- Taci!
- Ladra! ladra!
- Taci!
- Andrò dal brigadiere, andrò!
- Vacci!
E ci andò davvero, coi figli in collo,
senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché
adesso l'amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e
sudicio delle olive messe a fermentare.
Il brigadiere fece chiamare Nanni; lo
minacciò sin della galera e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a
strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò di scolparsi. - È la
tentazione! - diceva; - è la tentazione dell'inferno! - Si buttò ai piedi del
brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.
- Per carità, signor brigadiere, levatemi
da questo inferno! Fatemi ammazzare, mandatemi in prigione! non me la lasciate
veder più, mai! mai!
- No! - rispose invece la Lupa al
brigadiere - Io mi son riserbato un cantuccio della cucina per dormirvi, quando
gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia; non voglio andarmene.
Poco dopo, Nanni s'ebbe nel petto un calcio
dal mulo, e fu per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la
Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e suo genero allora si
potè preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò e
comunicò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i
curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per
lui che fosse morto in quel giorno, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e
a ficcarglisi nell'anima e nel corpo quando fu guarito. - Lasciatemi stare! -
diceva alla Lupa - Per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte
cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo
sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me... -
Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per
non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne' suoi gli
facevano perdere l'anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi
dall'incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio, e andò a
chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece
pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato
innanzi alla chiesa, in penitenza - e poi, come la Lupa tornava a
tentarlo:
- Sentite! - le disse, - non ci venite più
nell'aia, perché se tornate a cercarmi, com'è vero Iddio, vi ammazzo!
- Ammazzami, - rispose la Lupa, - ché
non me ne importa; ma senza di te non voglio starci -.
Ei come la scorse da lontano, in mezzo a'
seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure
dall'olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che
luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi,
seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi,
e mangiandoselo con gli occhi neri. - Ah! malanno all'anima vostra! - balbettò
Nanni.
La novella fu pubblicata originariamente sulla rivista «La rassegna settimanale» nel dicembre 1880, poi raccolta nel 1883 nelle Novelle rusticane.
La roba
Il
viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di
mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre
verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di
Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga
strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell'ora in cui i campanelli
della lettiga suonano tristamente nell'immensa campagna, e i muli lasciano
ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica
per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: - Qui di chi è? - sentiva
rispondersi: - Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un
paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate
all'ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere
chi passava: - E qui? - Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria
vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all'improvviso l'abbaiare di un cane,
passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul
piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato
bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e
apriva un occhio per vedere chi fosse: - Di Mazzarò -. Poi veniva un uliveto
folto come un bosco, dove l'erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a
marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava
rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le
lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e
i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell'acqua scura; e si
vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense
macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore
echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il
canto solitario perduto nella valle. - Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse
di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli
uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il
sibilo dell'assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande
per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. - Invece
egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un
baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva
come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì
ch'era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch'era un brillante, quell'uomo.
Infatti, colla testa come un brillante,
aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a
zappare, a potare, a mietere; col sole, coll'acqua, col vento; senza scarpe ai
piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli
dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell'eccellenza,
e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in
superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e
diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli
portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola
grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere ilcappello di feltro, perché
costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la
vista, ed egli aveva la vista lunga - dappertutto, a destra e a sinistra,
davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche,
senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano
sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte,
e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in
fretta e in furia, all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una
chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i
contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento
spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un
corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava,
non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il
fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si
vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di
donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata
anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto
a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra
che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della
giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col
soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un
momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non
fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi
come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli,
che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate
nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano
contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo
della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove
sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse
poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per
mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l'arancia
amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari
a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò
adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in
mano, non ne perdeva d'occhio uno solo, e badava a ripetere: - Curviamoci,
ragazzi! - Egli era tutto l'anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola
fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni
volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini
grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto
per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva
più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d'argento, ché lui
non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta
sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli
armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci
voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle
volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l'era fatta lui, colle
sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre
dal batticuore o dalla malaria, coll'affaticarsi dall'alba a sera, e andare in
giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue
mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch'era tutto quello
ch'ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti;
non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è
fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che
pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e
non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e
l'aveva raccolto per carità nudo e crudo ne' suoi campi, ed era stato il
padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e
tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri
dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l'alloggio e il pranzo, al
minchione, sicché ognuno sapeva l'ora e il momento in cui doveva arrivare, e
non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. - Costui vuol essere rubato per
forza! - diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei
calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: - Chi è
minchione se ne stia a casa, - la roba non è di chi l'ha, ma di chi la sa fare
-. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se
veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava
all'improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di
pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo
schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne
il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall'uliveto, e
poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo
palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e
Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro
che lo scudo di pietra ch'era prima sul portone, ed era la sola cosa che non
avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: - Questo solo, di tutta la mia roba,
non fa per te -. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l'avrebbe
pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più
calci nel di dietro.
- Questa è una bella cosa, d'avere la
fortuna che ha Mazzarò! - diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto
ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante
menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un
brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per
fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non
cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno
stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la
diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di
una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela
credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a
prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa
e la chiusa, che Mazzarò se l'acchiappava - per un pezzo di pane. - E quante
seccature Mazzarò doveva sopportare! - I mezzadri che venivano a lagnarsi
delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a
strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in
mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l'asinello, che non avevano da
mangiare.
- Lo vedete quel che mangio io? -
rispondeva lui, - pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono
il padrone di tutta questa roba -. E se gli domandavano un pugno di fave, di
tutta quella roba, ei diceva: - Che, vi pare che l'abbia rubata? Non sapete
quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? - E se gli
domandavano un soldo rispondeva che non l'aveva.
E non l'aveva davvero. Ché in tasca non
teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e
il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non
gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme
una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad
avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può
ne venderla, né dire ch'è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che
cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov'era. Questa è
una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare
della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete
lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a
guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che
ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna
come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il
peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per
invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha
niente! -
Sicché quando gli dissero che era tempo di
lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo,
barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi
tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me! -
(Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, ediz. modul. 3/1)
La scomparsa dei valori
La dinamicità sociale
Il narratore è in sintonia col personaggio
La celebrazione iperbolica dell'accumulo
L'ascesa eroica di Mazzarò
Il carattere "faustiano" dell'eroe
Lo straniamento Rovesciato
La critica della «religione della roba»
Mazzarò eroico e disumano
La conclusione: comicità e tragedia |
La nuova direzione della ricerca verghiana. La roba, insieme con le altre Novelle rusticane, rappresenta perfettamente la nuova direzione della ricerca verghiana dopo i Malavoglia, l'abbandono definitivo di ogni mitizzazione nostalgica e romantica del mondo rurale. Il polo positivo dei valori puri scompare e la realtà risulta tutta dominata dalla logica dell'interesse e della forza. La famiglia non è più il centro ideale di quei va-lori e la loro difesa dalle forze avverse: si pensi a Mazzarò che rimpiange i 12 tarì spesi per il funerale della madre. Né si ha più un universo arcaico, regolato da ritmi ancestrali, da un tempo ciclico, in cui tutto torna sempre identico; il polo contrario, quello rappresentato nel romanzo dal giovane 'Ntoni, ha il sopravvento: al centro della novella si pone il tema della dinamicità sociale che travolge tutti gli equilibri tradizionali, nella figura di un self-made man rurale, che dal nulla si crea una prodigiosa fortuna e la cui scalata sociale è inserita in un ben identificabile processo storico della modernità, la crisi della nobilità di origine feudale e l'ascesa della borghesia. Tranne che all'inizio, dove Mazzarò è visto dalla prospettiva di un ipotetico viandante di livello culturale "alto", che con le sue fantasie trasforma il personaggio in un essere favoloso, l'ottica narrativa è quella consueta al Verga verista, interna al mondo rappresentato, proveniente "dal basso". Ma l'effetto dell'artificio del-la "regressione" è ben differente rispetto a Rosso Malpelo. Là l'eroe era un "diverso" rispetto all'ambiente, dotato di una statura intellettuale e morale infinitamente più alta; qui invece Mazzarò è perfettamente integrato nella logica della lotta per la vita. Quindi in Rosso Malpelo l'ottica del narratore, essendo estranea al-l'eroe, non era in grado di comprenderlo, e stravolgeva malevolmente la sua figura, con un vistoso effetto di straniamento. Qui invece, poiché il narratore è in sintonia con l'eroe e la sua logica, si ha una celebrazione entusiastica, un vero panegirico dell'uomo che si è fatto dal nulla.
I temi ricorrenti della novella. Dato questo modo di presentare Mazzarò, i temi che ricorrono costantemente nella novella sono: 1) l'ammirazione per la potenza dell'accumulo capitalistico, che riesce a creare ricchezze immense, un mondo di cose dalle proporzioni smisurate, epiche; la celebrazione impiega soprattutto la figura dell'iperbole (i mietitori sembrano un esercito di soldati, gli aratri sono numerosi come le lunghe file dei corvi, alla vendemmia accorrono villaggi interi alle vigne di Mazzarò...), ed assume le movenze ampie dell'inno, con cadenze musicali maestosamente intonate; 2) le virtù eroiche del protagonista, l'intelligenza, l'energia infaticabile, ma soprattutto l'ascesi, la capacità di sacrificare tutto alla "roba", per cui Mazzarò appare quasi un santo martire dell'accumulo capitalistico; 3) il tendere inesausto sempre oltre gli obiettivi raggiunti, che fa di Mazzarò una sorta di eroe "faustiano" nel suo Streben, nel suo sogno di potenza senza limiti, che lo spinge a collocarsi in posizione antagonistica addirittura rispetto alla suprema autorità in terra («voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed essere meglio del re»). La novella, grazie all'adozione di un punto di vista narrativo vicino al protagonista, presenta in tal modo la logica della "roba" in una luce epica, mitica, come qualcosa di sovrumano, titanico. Però vi è anche il rovescio della medaglia. Come avveniva per zio Crocifisso nel IV capitolo dei Malavoglia, questa celebrazione, proprio per il suo oltranzismo, produce l'effetto di straniamento "rovesciato": ciò che è strano, abnorme e ripugnante, l'avidità disumana e crudele di Mazzarò, che risalta con perfetta evidenza dall'oggettività dei fatti, appare normale, legittimo o addirittura meritorio nella presentazione del narratore. Ciò, stridendo con la scala di valori morali che è implicita nel racconto e presupposta dal suo congegno, mette crudamente in luce lo stravolgimento profondo di quel mondo che conosce solo l'interesse ed ignora ogni altro valore. Ne scaturisce una critica ferma della «religione della roba»; ma anche qui sono le cose che parlano da sé, senza che l'autore intervenga dall'esterno con giudizi e condanne.
La problematicità della visione verghiana. L'impostazione della novella appare dunque intimamente problematica: Mazzarò ha veramente qualcosa di eroico e di epico nella sua dedizione ascetica al suo fine, nella sua potenza creatrice, nel suo tendere faustiano a mete sempre più alte; dall'altro lato però la logica dell'accumulo appare anche in tutta la sua disumana negatività. È quell'atteggiamento verso il «progresso» che si manifesta anche nella prefazione ai Vinti; e lo stesso atteggiamento ricomparirà presto dinanzi ad un altro eroe dell'accumulo capitalistico moderno, Gesualdo. Ma bisogna ancora tener conto della conclusione, che presenta un rovesciamento di prospettive. Nella sua tensione ad accrescere indefinitamente il possesso, Mazzarò non si scontra soltanto con avversari umani, con la società e le leggi economiche, ma con la natura stessa, col limite naturale della vita. Quella tensione va allora incontro al totale fallimento: e, in un gesto disperato e folle, Mazzarò tenta di uccidere le galline, per portare con sé nella morte la «roba». Questa conclusione ha avuto interpretazioni diverse, che ora hanno insistito sulla comicità del gesto di Mazzarò, ora sul suo carattere tragico, terribile. L'oscillazione delle interpretazioni deriva probabilmente dalla problematicità del segmento narrativo finale, che rovescia i termini del resto del racconto. Se in precedenza Mazzarò appariva eroico nella prospettiva del narratore "basso", e meschino e abietto nella prospettiva morale dell'autore, ora il suo gesto di bastonare le galline appare risibile nella prospettiva del narratore, che lo ritiene assurdo, non rispondente ad alcuna logica economica (Mazzarò per lui dovrebbe rassegnarsi e «pensare all'anima»), ma tragico nella prospettiva dell'autore, sensibile al dramma esistenziale dell'eroe, che ha posto la sua ragione di vita nell'accumulo infinito di (roba» ed è sconfitto dai limiti di natura. La duplicità di prospettive, pur rovesciate di segno, mette anche qui in evidenza la problematicità del personaggio. |
Brani tratti da I Malavoglia
Il mondo arcaico e l’irruzione della storia (dal capitolo I)
Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n'erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all'opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev'essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all'Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull'acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron 'Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch'era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla.
Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron 'Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso - un pugno che sembrava fatto di legno di noce - Per menare il remo bisogna che le cinque dita s'aiutino l'un l'altro.
Diceva pure, - Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.
E la famigliuola di padron 'Ntoni era realmente diposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant'ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c'era dipinto sotto l'arco della pescheria della città; e così grande e grosso com'era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avresse detto «sòffiati il naso» tanto che s'era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pìgliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: 'Ntoni, il maggiore, un bighellone di vent'anni, che si buscava tutt'ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l'equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant'Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. - Alla domenica, quando entravano in chiesa, l'uno dietro l'altro, pareva una processione.
Padron 'Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi, «perché il motto degli antichi mai mentì»: - «Senza pilota barca non cammina» - «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» - oppure - «Fa' il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» - «Contentati di quel che t'ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.
Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron 'Ntoni passava per testa quadra, al punto che a Trezza l'avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello, onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria.
Padron 'Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e soleva dire: «Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole» perché «chi comanda ha da dar conto».
Nel dicembre 1863, 'Ntoni, il maggiore dei nipoti, era stato chiamato per la leva di mare. Padron 'Ntoni allora era corso dai pezzi grossi del paese, che son quelli che possono aiutarci. Ma don Giammaria, il vicario, gli avea risposto che gli stava bene, e questo era il frutto di quella rivoluzione di satanasso che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile. Invece don Franco lo speziale si metteva a ridere fra i peli della barbona, e gli giurava fregandosi le mani che se arrivavano a mettere assieme un po' di repubblica, tutti quelli della leva e delle tasse li avrebbero presi a calci nel sedere, ché soldati non ce ne sarebbero stati più, e invece tutti sarebbero andati alla guerra, se bisognava. Allora padron 'Ntoni lo pregava e lo strapregava per l'amor di Dio di fargliela presto la repubblica, prima che suo nipote 'Ntoni andasse soldato, come se don Franco ce l'avesse in tasca; tanto che lo speziale finì coll'andare in collera. Allora don Silvestro il segretario si smascellava dalle risa a quei discorsi, e finalmente disse lui che con un certo gruzzoletto fatto scivolare in tasca a tale e tal altra persona che sapeva lui, avrebbero saputo trovare a suo nipote un difetto da riformarlo. Per disgrazia il ragazzo era fatto con coscienza, come se ne fabbricano ancora ad Aci Trezza, e il dottore della leva, quando si vide dinanzi quel pezzo di giovanotto, gli disse che aveva il difetto di esser piantato come un pilastro su quei piedacci che sembravano pale di ficodindia; ma i piedi fatti a pala di ficodindia ci stanno meglio degli stivalini stretti sul ponte di una corazzata, in certe giornataccie; e perciò si presero 'Ntoni senza dire «permettete». La Longa, mentre i coscritti erano condotti in quartiere, trottando trafelata accanto al passo lungo del figliuolo, gli andava raccomandando di tenersi sempre sul petto l'abitino della Madonna, e di mandare le notizie ogni volta che tornava qualche conoscente dalla città, che poi gli avrebbero mandato i soldi per la carta.
Il nonno, da uomo, non diceva nulla; ma si sentiva un gruppo nella gola anch'esso, ed evitava di guardare in faccia la nuora, quasi ce l'avesse con lei. Così se ne tornarono ad Aci Trezza zitti zitti e a capo chino. Bastianazzo, che si era sbrigato in fretta dal disarmare la Provvidenza, per andare ad aspettarli in capo alla via, come li vide comparire a quel modo, mogi mogi e colle scarpe in mano, non ebbe animo di aprir bocca, e se ne tornò a casa con loro. La Longa corse subito a cacciarsi in cucina, quasi avesse furia di trovarsi a quattr'occhi colle vecchie stoviglie, e padron 'Ntoni disse al figliuolo:
- Va a dirle qualche cosa, a quella poveretta; non ne può più.
Il giorno dopo tornarono tutti alla stazione di Aci Castello per veder passare il convoglio dei coscritti che andavano a Messina, e aspettarono più di un'ora, pigiati dalla folla dietro lo stecconato. Finalmente giunse il treno, e si videro tutti quei ragazzi che annaspavano, col capo fuori dagli sportelli, come fanno i buoi quando sono condotti alla fiera. I canti, le risate e il baccano erano tali che sembrava la festa di Trecastagni, e nella ressa e nel frastuono ci si dimenticava perfino quello stringimento di cuore che si aveva prima.
- Addio 'Ntoni! - Addio mamma! - Addio! ricordati! ricordati! - Lì presso, sull'argine della via, c'era la Sara di comare Tudda, a mietere l'erba pel vitello; ma comare Venera la Zuppidda andava soffiando che c'era venuta per salutare 'Ntoni di padron 'Ntoni, col quale si parlavano dal muro dell'orto, li aveva visti lei, con quegli occhi che dovevano mangiarseli i vermi. Certo è che 'Ntoni salutò la Sara colla mano, ed ella rimase colla falce in pugno a guardare finché il treno non si mosse. Alla Longa, l'era parso rubato a lei quel saluto; e molto tempo dopo, ogni volta che incontrava la Sara di comare Tudda, nella piazza o al lavatoio, le voltava le spalle.
Poi il treno era partito fischiando e strepitando in modo da mangiarsi i canti e gli addii. E dopo che i curiosi si furono dileguati, non rimasero che alcune donnicciuole e qualche povero diavolo, che si tenevano ancora stretti ai pali dello stecconato, senza saper perché. Quindi a poco a poco si sbrancarono anch'essi, e padron 'Ntoni, indovinando che la nuora dovesse avere la bocca amara, le pagò due centesimi di acqua col limone.
La disgrazia dei Malavoglia (tratto dal cap. III)
Dopo la mezzanotte il vento s'era messo a fare il diavolo, come se sul tetto ci fossero tutti i gatti del paese, e a scuotere le imposte. Il mare si udiva muggire attorno ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di S. Alfio, e il giorno era apparso nero peggio dell'anima di Giuda. Insomma una brutta domenica di settembre, di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come una schioppettata tra i fichidindia. Le barche del villaggio erano tirate sulla spiaggia, e bene ammarate alle grosse pietre sotto il lavatoio; perciò i monelli si divertivano a vociare e fischiare quando si vedeva passare in lontananza qualche vela sbrindellata, in mezzo al vento e alla nebbia, che pareva ci avesse il diavolo in poppa; le donne invece si facevano la croce, quasi vedessero cogli occhi la povera gente che vi era dentro.
Maruzza la Longa non diceva nulla, com'era giusto, ma non poteva star ferma un momento, e andava sempre di qua e di là, per la casa e pel cortile, che pareva una gallina quando sta per far l'uovo. Gli uomini erano all'osteria, e nella bottega di Pizzuto, o sotto la tettoia del beccaio, a veder piovere, col naso in aria. Sulla riva c'era soltanto padron 'Ntoni, per quel carico di lupini che ci aveva in mare, colla Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta, e il figlio della Locca, il quale non aveva nulla da perdere lui, e in mare non ci aveva altro che suo fratello Menico, nella barca dei lupini. Padron Fortunato Cipolla, mentre gli facevano la barba, nella bottega di Pizzuto, diceva che non avrebbe dato due baiocchi di Bastianazzo e di Menico della Locca, colla Provvidenza e il carico dei lupini.
- Adesso tutti vogliono fare i negozianti, per arricchire! diceva stringendosi nelle spalle; e poi quando hanno perso la mula vanno cercando la cavezza. […]
Ciascuno non poteva a meno di pensare che quell'acqua e quel vento erano tutt'oro per i Cipolla; così vanno le cose di questo mondo, che i Cipolla, adesso che avevano la paranza bene ammarrata, si fregavano le mani vedendo la burrasca; mentre i Malavoglia diventavano bianchi e si strappavano i capelli, per quel carico di lupini che avevano preso a credenza dallo zio Crocifisso campana di legno.
- Volete che ve la dica? saltò su la Vespa; la vera disgrazia è toccata allo zio Crocifisso che ha dato i lupini a credenza. «Chi fa credenza senza pegno, perde l'amico, la roba e l'ingegno».
Lo zio Crocifisso se ne stava ginocchioni a piè dell'altare dell'Addolorata, con tanto di rosario in mano, e intonava le strofette con una voce di naso che avrebbe toccato il cuore a satanasso in persona. Fra un'avemaria e l'altra si parlava del negozio dei lupini, e della Provvidenza che era in mare, e della Longa che rimaneva con cinque figliuoli. - Al giorno d'oggi, disse padron Cipolla, stringendosi nelle spalle, nessuno è contento del suo stato e vuol pigliare il cielo a pugni.
- Il fatto è, conchiuse compare Zuppiddu, che sarà una brutta giornata pei Malavoglia.
- Per me, aggiunse Piedipapera, non vorrei trovarmi nella camicia di compare Bastianazzo.
La sera scese triste e fredda; di tanto in tanto soffiava un buffo di tramontana, e faceva piovere una spruzzatina d'acqua fina e cheta: una di quelle sere in cui, quando si ha la barca al sicuro, colla pancia all'asciutto sulla sabbia, si gode a vedersi fumare la pentola dinanzi, col marmocchio fra le gambe, e sentire le ciabatte della donna per la casa, dietro le spalle. I fannulloni preferivano godersi all'osteria quella domenica che prometteva di durare anche il lunedì, e fin gli stipiti erano allegri della fiamma del focolare, tanto che lo zio Santoro, messo lì fuori colla mano stesa e il mento sui ginocchi, s'era tirato un po' in qua, per scaldarsi la schiena anche lui.
- E' sta meglio di compare Bastianazzo, a quest'ora! ripeteva Rocco Spatu, accendendo la pipa sull'uscio.
E senza pensarci altro mise mano al taschino, e si lasciò andare a fare due centesimi di limosina.
- Tu ci perdi la tua limosina a ringraziare Dio che sei al sicuro, gli disse Piedipapera; per te non c'è pericolo che abbi a fare la fine di compare Bastianazzo. […]
Sull'imbrunire comare Maruzza coi suoi figliuoletti era andata ad aspettare sulla sciara, d'onde si scopriva un bel pezzo di mare, e udendolo urlare a quel modo trasaliva e si grattava il capo senza dir nulla. La piccina piangeva, e quei poveretti, dimenticati sulla sciara, a quell'ora, parevano le anime del purgatorio. Il piangere della bambina le faceva male allo stomaco, alla povera donna le sembrava quasi un malaugurio; non sapeva che inventare per tranquillarla, e le cantava le canzonette colla voce tremola che sapeva di lagrime anche essa.
Le comari, mentre tornavano dall'osteria, coll'orciolino dell'olio, o col fiaschetto del vino, si fermavano a barattare qualche parola con la Longa senza aver l'aria di nulla, e qualche amico di suo marito Bastianazzo, compar Cipolla, per esempio, o compare Mangiacarrubbe, passando dalla sciara per dare un'occhiata verso il mare, e vedere di che umore si addormentasse il vecchio brontolone, andavano a domandare a comare la Longa di suo marito, e stavano un tantino a farle compagnia, fumandole in silenzio la pipa sotto il naso, o parlando sottovoce fra di loro. La poveretta, sgomenta da quelle attenzioni insolite, li guardava in faccia sbigottita, e si stringeva al petto la bimba, come se volessero rubargliela. Finalmente il più duro o il più compassionevole la prese per un braccio e la condusse a casa. Ella si lasciava condurre, e badava a ripetere: - Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria! - I figliuoli la seguivano aggrappandosi alla gonnella, quasi avessero paura che rubassero qualcosa anche a loro. Mentre passavano dinanzi all'osteria, tutti gli avventori si affacciarono sulla porta, in mezzo al gran fumo, e tacquero per vederla passare come fosse già una cosa curiosa.
- Requiem eternam, biascicava sottovoce lo zio Santoro, quel povero Bastianazzo mi faceva sempre la carità, quando padron 'Ntoni gli lasciava qualche soldo in tasca.
La poveretta, che non sapeva di essere vedova, balbettava: - Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria!
Dinanzi al ballatoio della sua casa c'era un gruppo di vicine che l'aspettavano, e cicalavano a voce bassa fra di loro. Come la videro da lontano, comare Piedipapera e la cugina Anna le vennero incontro, colle mani sul ventre, senza dir nulla. Allora ella si cacciò le unghie nei capelli con uno strido disperato e corse a rintanarsi in casa.
- Che disgrazia! dicevano sulla via. E la barca era carica! Più di quarant'onze di lupini!
L’abbandono del nido e la commedia dell’interesse (tratto dal cap. IX)
Il povero vecchio non aveva il coraggio di dire alla nuora che dovevano andarsene colle buone dalla casa del nespolo, dopo tanto tempo che ci erano stati, e pareva che fosse come andarsene dal paese, e spatriare, o come quelli che erano partiti per ritornare, e non erano tornati più, che ancora c'era lì il letto di Luca, e il chiodo dove Bastianazzo appendeva il giubbone. Ma infine bisognava sgomberare con tutte quelle povere masserizie, e levarle dal loro posto, che ognuna lasciava il segno dov'era stata, e la casa senza di esse non sembrava più quella. La roba la trasportarono di notte, nella casuccia del beccaio che avevano presa in affitto, come se non si sapesse in paese che la casa del nespolo ormai era di Piedipapera, e loro dovevano sgomberarla; ma almeno nessuno li vedeva colla roba in collo.
Quando il vecchio staccava un chiodo, o toglieva da un cantuccio un deschetto che soleva star lì di casa, faceva una scrollatina di capo.
Poi si misero a sedere sui pagliericci ch'erano ammonticchiati nel mezzo della camera, per riposarsi un po', e guardavano di qua e di là se avessero dimenticato qualche cosa; però il nonno si alzò tosto ed uscì nel cortile, all'aria aperta.
Ma anche lì c'era della paglia sparsa per ogni dove, dei cocci di stoviglie, delle nasse sfasciate, e in un canto il nespolo, e la vite in pampini sull'uscio. - Andiamo via! diceva egli. Andiamo via, ragazzi. Tanto, oggi o domani!... e non si muoveva.
Maruzza guardava la porta del cortile dalla quale erano usciti Luca e Bastianazzo, e la stradicciuola per la quale il figlio suo se ne era andato coi calzoni rimboccati, mentre pioveva, e non l'aveva visto più sotto il paracqua d'incerata. Anche la finestra di compare Alfio Mosca era chiusa, e la vite pendeva dal muro del cortile che ognuno passando ci dava una strappata. Ciascuno aveva qualche cosa da guardare in quella casa, e il vecchio, nell'andarsene, posò di nascosto la mano sulla porta sconquassata, dove lo zio Crocifisso aveva detto che ci sarebbero voluti due chiodi e un bel pezzo di legno.
Lo zio Crocifisso era venuto a dare un'occhiata insieme a Piedipapera, e parlavano a voce alta nelle stanze vuote, dove le parole si udivano come se fossero in chiesa. Compare Tino non aveva potuto durarla a campare d'aria sino a quel giorno, e aveva dovuto rivendere ogni cosa allo zio Crocifisso, per riavere i suoi denari.
- Che volete, compare Malavoglia? gli diceva passandogli il braccio attorno al collo. Lo sapete che sono un povero diavolo, e cinquecento lire mi fanno! Se voi foste stato ricco ve l'avrei venduta a voi. - Ma padron 'Ntoni non poteva soffrire di andare così per la casa, col braccio di Piedipapera al collo. Ora lo zio Crocifisso ci era venuto col falegname e col muratore, e ogni sorta di gente che scorrazzavano di qua e di là per le stanze come fossero in piazza, e dicevano: - Qui ci vogliono dei mattoni, qui ci vuole un travicello nuovo, qui c'è da rifare l'imposta, - come se fossero i padroni; e dicevano anche che si doveva imbiancarla per farla sembrare tutt'altra.
Lo zio Crocifisso andava scopando coi piedi la paglia e i cocci, e raccolse anche da terra un pezzo di cappello che era stato di Bastianazzo, e lo buttò nell'orto, dove avrebbe servito all'ingrasso. Il nespolo intanto stormiva ancora, adagio adagio, e le ghirlande di margherite, ormai vizze, erano tuttora appese all'uscio e le finestre, come ce le avevano messe a Pasqua delle Rose.
La Vespa era venuta a vedere anche lei, colla calzetta al collo, e frugava per ogni dove, ora che era roba di suo zio. - Il «sangue non è acqua» - andava dicendo forte, perché udisse anche il sordo. A me mi sta nel cuore la roba di mio zio, come a lui deve stare a cuore la mia chiusa. Lo zio Crocifisso lasciava dire e non udiva, ora che dirimpetto si vedeva la porta di compare Alfio con tanto di catenaccio. - Adesso che alla porta di compare Alfio c'è il catenaccio, vi metterete il cuore in pace, e lo crederete che non penso a lui! diceva la Vespa all'orecchio dello zio Crocifisso.
- Io ci ho il cuore in pace! rispondeva lui: sta tranquilla.
D'allora in poi i Malavoglia non osarono mostrarsi per le strade né in chiesa la domenica, e andavano sino ad Aci Castello per la messa, e nessuno li salutava più, nemmeno padron Cipolla, il quale andava dicendo: - Questa partaccia a me non la doveva fare padron 'Ntoni. Questo si chiama gabbare il prossimo, se ci aveva fatto mettere la mano di sua nuora nel debito dei lupini!
- Tale e quale come dice mia moglie! aggiungeva mastro Zuppiddu. Dice che dei Malavoglia adesso non ne vogliono nemmeno i cani.
Il vecchio e il giovane: tradizione e rivolta (tratto dal cap. XI)
Una volta 'Ntoni Malavoglia, andando girelloni pel paese, aveva visto due giovanotti che s'erano imbarcati qualche anno prima a Riposto, a cercar fortuna, e tornavano da Trieste, o da Alessandria d'Egitto, insomma da lontano, e spendevano e spandevano all'osteria meglio di compare Naso, o di padron Cipolla; si mettevano a cavalcioni sul desco; dicevano delle barzellette alle ragazze, e avevano dei fazzoletti di seta in ogni tasca del giubbone; sicché il paese era in rivoluzione per loro.
'Ntoni, quando la sera tornava a casa, non trovava altro che le donne, le quale mutavano la salamoia nei barilotti, e cianciavano in crocchio colle vicine, sedute sui sassi; e intanto ingannavano il tempo a contare storie e indovinelli, buoni pei ragazzi, i quali stavano a sentire con tanto d'occhi intontiti dal sonno. Padron 'Ntoni ascoltava anche lui, tenendo d'occhio lo scolare della salamoia, e approvava col capo quelli che contavano le storie più belle, e i ragazzi che mostravano di aver giudizio come i grandi nello spiegare gli indovinelli.
- La storia buona, disse allora 'Ntoni, è quella dei forestieri che sono arrivati oggi, con dei fazzoletti di seta che non par vero; e i denari non li guardano cogli occhi, quando li tirano fuori dal taschino. Hanno visto mezzo mondo, dice, che Trezza ed Aci Castello messe insieme, sono nulla in paragone. Questo l'ho visto anch'io; e laggiù la gente passa il tempo a scialarsi tutto il giorno, invece di stare a salare le acciughe, e le donne, vestite di seta e cariche di anelli meglio della Madonna dell'Ognina, vanno in giro per le vie a rubarsi i bei mannari.
Le ragazze sgranavano gli occhi, e padron 'Ntoni stava attento anche lui, come quando i ragazzi spiegavano gli indovinelli: - Io, disse Alessi, il quale vuotava adagio adagio i barilotti, e li passava alla Nunziata, - io quando sarò grande, se mi marito voglio sposar te.
- Ancora c'è tempo, rispose Nunziata seria seria.
- Devono essere delle città grandi come Catania; che uno il quale non ci sia avvezzo si perde per le strade; e gli manca il fiato a camminare sempre fra le due file di case, senza vedere né mare né campagna.
- E' c'è stato anche il nonno di Cipolla, aggiunse padron 'Ntoni, ed è in quei paesi là che s'è fatto ricco. Ma non è più tornato a Trezza, e mandò solo i denari ai figliuoli.
- Poveretto! disse Maruzza.
- Vediamo se mi indovini quest'altro, disse la Nunziata: Due lucenti, due pungenti, quattro zoccoli e una scopa.
- Un bue! rispose tosto Lia.
- Questo lo sapevi! ché ci sei arrivata subito; esclamò il fratello.
- Vorrei andarci anch'io, come padron Cipolla, a farmi ricco, aggiunse 'Ntoni.
- Lascia stare! gli disse il nonno, contento pei barilotti che vedeva nel cortile. Adesso ci abbiamo le acciughe da salare. Ma la Longa guardò il figliuolo col cuore stretto, e non disse nulla perché ogni volta che si parlava di partire le venivano davanti agli occhi quelli che non erano tornati più.
E poi soggiunse: «Né testa, né coda, ch'è meglio ventura».
Le file dei barilotti si allineavano sempre lungo il muro, e padron 'Ntoni, come ne metteva uno al suo posto, coi sassi di sopra, diceva: - E un altro! Questi a Ognissanti son tutti danari.
'Ntoni allora rideva, che pareva padron Fortunato quando gli parlavano della roba degli altri. - Gran denari! borbottava; e tornava a pensare a quei due forestieri che andavano di qua e di là, e si sdraiavano sulle panche dell'osteria, e facevano suonare i soldi nelle tasche. Sua madre lo guardava come se gli leggesse nella testa; né la facevano ridere le barzellette che dicevano nel cortile.
- Chi deve mangiarsi queste sardelle qui, cominciava la cugina Anna, deve essere il figlio di un re di corona bello come il sole, il quale camminerà un anno, un mese e un giorno, col suo cavallo bianco; finché arriverà a una fontana incantata di latte e di miele; dove, scendendo da cavallo per bere, troverà il ditale di mia figlia Mara, che ce l'avranno portato le fate dopo che Mara l'avrà lasciato cascare nella fontana empiendo la brocca; e il figlio del re col bere che farà nel ditale di Mara, si innamorerà di lei; e camminerà ancora un anno, un mese e un giorno, sinché arriverà a Trezza, e il cavallo bianco lo porterà davanti al lavatoio, dove mia figlia Mara starà sciorinando il bucato; e il figlio del re la sposerà e le metterà in dito l'anello; e poi la farà montare in groppa al cavallo bianco, e se la porterà nel suo regno.
Alessi ascoltava a bocca aperta, che pareva vedesse il figlio del re sul suo cavallo bianco, a portarsi in groppa la Mara della cugina Anna. - E dove se la porterà? domandò poi la Lia.
- Lontano lontano, nel suo paese di là del mare; d'onde non si torna più.
- Come compar Alfio Mosca, disse la Nunziata. Io non vorrei andarci col figlio del re, se non dovessi tornare più.
- La vostra figlia non ha un soldo di dote, perciò il figlio del re non verrà a sposarla; rispose 'Ntoni; e le volteranno le spalle, come succede alla gente, quando non ha più nulla.
- Per questo mia figlia sta lavorando qui adesso, dopo essere stata tutto il giorno al lavatoio, per farsi la dote. Non è vero Mara? Almeno se non viene il figlio del re, verrà qualchedun altro. Lo so anch'io che il mondo va così, e non abbiamo diritto di lagnarcene. Voi, perché non vi siete innamorato di mia figlia, invece d'innamorarvi della Barbara che è gialla come il zafferano? perché la Zuppidda aveva il fatto suo, non è vero? E quando la disgrazia vi ha fatto perdere il fatto vostro, a voi altri, è naturale che la Barbara v'avesse a piantare.
- Voi vi accomodate a ogni cosa, rispose 'Ntoni imbronciato, e hanno ragione di chiamarvi Cuor contento.
- E se non fossi Cuor contento, che si cambiano le cose? Quando uno non ha niente, il meglio è di andarsene come fece compare Alfio Mosca.
- Quello che dico io! esclamò 'Ntoni.
- Il peggio, disse infine Mena, è spatriare dal proprio paese, dove fino i sassi Vi conoscono, e dev'essere una cosa da rompere il cuore il lasciarseli dietro per la strada. «Beato quell'uccello, che fa il nido al suo paesello».
- Brava Sant'Agata! conchiuse il nonno. Questo si chiama parlare con giudizio.
- Sì! brontolò 'Ntoni, intanto, quando avremo sudato e faticato per farci il nido ci mancherà il panìco; e quando arriveremo a ricuperar la casa del nespolo, dovremo continuare a logorarci la vita dal lunedì al sabato; e saremo sempre da capo!
- O tu, che non vorresti lavorare più? Cosa vorresti fare? L'avvocato ?
- Io non voglio fare l'avvocato! brontolò 'Ntoni, e se ne andò a letto di cattivo umore.
Ma d'allora in poi non pensava ad altro che a quella vita senza pensieri e senza fatica che facevano gli altri; e la sera, per non sentire quelle chiacchiere senza sugo, si metteva sull'uscio colle spalle al muro, a guardare la gente che passava, e digerirsi la sua mala sorte; almeno così si riposava pel giorno dopo, che si tornava da capo a far la stessa cosa, al pari dell'asino di compare Mosca, il quale come vedeva prendere il basto, gonfiava la schiena, aspettando che lo bardassero! - Carne d'asino! borbottava; ecco cosa siamo! Carne da lavoro! E si vedeva chiaro che era stanco di quella vitaccia, e voleva andarsene a far fortuna, come gli altri; tanto che sua madre, poveretta, l'accarezzava sulle spalle, e l'accarezzava pure col tono della voce, e cogli occhi pieni di lagrime, guardandolo fisso per leggergli dentro e toccargli il cuore. Ma ei diceva di no, che sarebbe stato meglio per lui e per loro; e quando tornava poi sarebbero stati tutti allegri. La povera donna non chiudeva occhio in tutta la notte, e inzuppava di lagrime il guanciale. Infine il nonno se ne accorse, e chiamò il nipote fuori dell'uscio, accanto alla cappelletta, per domandargli cosa avesse.
- Orsù, che c'è di nuovo? dillo a tuo nonno, dillo!
'Ntoni si stringeva nelle spalle; ma il vecchio seguitava ad accennare di sì col capo, e sputava, e si grattava il capo cercando le parole.
- Sì, sì, qualcosa ce l'hai in testa, ragazzo mio! Qualcosa che non c'era prima. «Chi va coi zoppi, all'anno zoppica.»
- C'è che sono un povero diavolo! ecco cosa c'è!
- Bè! che novità! e non lo sapevi? Sei quel che è stato tuo padre, e quel che è stato tuo nonno! «Più ricco è in terra chi meno desidera.» «Meglio contentarsi che lamentarsi.»
- Bella consolazione!
Questa volta il vecchio trovò subito le parole, perché si sentiva il cuore sulle labbra:
- Almeno non lo dire davanti a tua madre.
Mia madre... Era meglio che non mi avesse partorito, mia madre.
- Sì, accennava padron 'Ntoni, sì, meglio che non t'avesse partorito, se oggi dovevi parlare in tal modo.
'Ntoni per un po' non seppe che dire: - Ebbene! esclamò poi, lo faccio per lei, per voi, e per tutti. Voglio farla ricca, mia madre! ecco cosa voglio. Adesso ci arrabattiamo colla casa e colla dote di Mena; poi crescerà Lia, e un po' che le annate andranno scarse staremo sempre nella miseria. Non voglio più farla questa vita. Voglio cambiare stato, io e tutti voi. Voglio che siamo ricchi, la mamma, voi, Mena, Alessi e tutti.
Padron 'Ntoni spalancò tanto d'occhi, e andava ruminando quelle parole, come per poterle mandar giù. - Ricchi! diceva, ricchi! e che faremo quando saremo ricchi?
'Ntoni si grattò il capo, e si mise a cercar anche lui cosa avrebbero fatto. - Faremo quel che fanno gli altri... Non faremo nulla, non faremo!... Andremo a stare in città, a non far nulla, e a mangiare pasta e carne tutti i giorni.
- Va, va a starci tu in città. Per me io voglio morire dove son nato; - e pensando alla casa dove era nato, e che non era più sua si lasciò cadere la testa sul petto. - Tu sei un ragazzo, e non lo sai!... non lo sai!... Vedrai cos'è quando non potrai più dormire nel tuo letto; e il sole non entrerà più dalla tua finestra!... Lo vedrai; te lo dico io che son vecchio! - Il poveraccio tossiva che pareva soffocasse, col dorso curvo, e dimenava tristamente il capo: - «Ad ogni uccello, suo nido è bello». Vedi quelle passere? le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà, e torneranno a farcelo, e non vogliono andarsene.
- Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro! rispondeva 'Ntoni. Io non voglio vivere come un cane alla catena come l'asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girar la ruota; io non voglio morir di fame in un cantuccio, o finire in bocca ai pescicani.
- Ringrazia Dio piuttosto, che t'ha fatto nascer qui; e guardati dall'andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono. «Chi cambia la vecchia per la nuova, peggio trova». Tu hai paura del lavoro, hai paura della povertà; ed io che non ho più né le tue braccia né la tua salute non ho paura, vedi! «Il buon pilota si prova alle burrasche». Tu hai paura di dover guadagnare il pane che mangi; ecco cos'hai! Quando la buon'anima di tuo nonno mi lasciò la Provvidenza e cinque bocche da sfamare, io ero più giovan di te, e non avevo paura; ed ho fatto il mio dovere senza brontolare; e lo faccio ancora; e prego Iddio di aiutarmi a farlo sempre sinché ci avrò gli occhi aperti, come l'ha fatto tuo padre, e tuo fratello Luca, benedetto! che non ha avuto paura di andare a fare il suo dovere. Tua madre l'ha fatto anche lei il suo dovere povera femminuccia, nascosta fra quelle quattro mura; e tu non sai quante lagrime ha pianto, e quante ne piange ora che vuoi andartene; che la mattina tua sorella trova il lenzuolo tutto fradicio! E nondimeno sta zitta e non dice di queste cose che ti vengono in mente; e ha lavorato e si è aiutata come una povera formica anche lei; non ha fatto altro, tutta la vita, prima che le toccasse di piangere tanto, fin da quando ti dava la poppa, e quando non sapevi ancora abbottonarti le brache, che allora non ti era venuta in mente la tentazione di muovere le gambe, e andartene pel mondo come uno zingaro.
In conclusione 'Ntoni si mise a piangere come un bambino, perché in fondo quel ragazzo il cuore ce l'aveva buono come il pane; ma il giorno dopo tornò da capo. La mattina si lasciava caricare svogliatamente degli arnesi, e se ne andava al mare brontolando:Tale e quale l'asino di compare Alfio! come fa giorno allungo il collo per vedere se vengono a mettermi il basto.
La tensione faustiana del self-made man
(dalla parte I, capitolo IV)
Pareva di soffocare in quella gola del Petraio. Le rupi brulle sembravano arroventate. Non un filo di ombra, non un filo di verde, colline su colline, accavallate, nude, arsicce, sassose, sparse di olivi rari e magri, di fichidindia polverosi, la pianura sotto Budarturo come una landa bruciata dal sole, i monti foschi nella caligine, in fondo. Dei corvi si levarono gracchiando da una carogna che appestava il fossato; delle ventate di scirocco bruciavano il viso e mozzavano il respiro; una sete da impazzire, il sole che gli picchiava sulla testa come fosse il martellare dei suoi uomini che lavoravano alla strada del Camemi. Allorché vi giunse invece li trovò tutti quanti sdraiati bocconi nel fossato, di qua e di là, col viso coperto di mosche, e le braccia stese. Un vecchio soltanto spezzava dei sassi, seduto per terra sotto un ombrellaccio, col petto nudo color di rame, sparso di peli bianchi, le braccia scarne, gli stinchi bianchi di polvere, come il viso che pareva una maschera, gli occhi soli che ardevano in quel polverìo. - Bravi! bravi!... Mi piace... La fortuna viene dormendo... Son venuto io a portarvela!... Intanto la giornata se ne va!... Quante canne ne avete fatto di massicciata oggi, vediamo?... Neppure tre canne!... Per questo che vi riposate adesso? Dovete essere stanchi, sangue di Giuda!... Bel guadagno ci fo!... Mi rovino per tenervi tutti quanti a dormire e riposare!... Corpo di!... sangue di!... Vedendolo con quella faccia accesa e riarsa, bianca di polvere soltanto nel cavo degli occhi e sui capelli; degli occhi come quelli che dà la febbre, e le labbra sottili e pallide; nessuno ardiva rispondergli. Il martellare riprese in coro nell'ampia vallata silenziosa, nel polverìo che si levava sulle carni abbronzate, sui cenci svolazzanti, insieme a un ansare secco che accompagnava ogni colpo. I corvi ripassarono gracidando, nel cielo implacabile. Il vecchio allora alzò il viso impolverato a guardarli, con gli occhi infuocati, quasi sapesse cosa volevano e li aspettasse. Allorché finalmente Gesualdo arrivò alla Canziria, erano circa due ore di notte. La porta della fattoria era aperta. Diodata aspettava dormicchiando sulla soglia. Massaro Carmine, il camparo, era steso bocconi sull'aia, collo schioppo fra le gambe; Brasi Camauro e Nanni l'Orbo erano spulezzati di qua e di là, come fanno i cani la notte, quando sentono la femmina nelle vicinanze; e i cani soltanto davano il benvenuto al padrone, abbaiando intorno alla fattoria. - Ehi? non c'è nessuno? Roba senza padrone, quando manco io! - Diodata, svegliata all'improvviso, andava cercando il lume tastoni, ancora assonnata. Lo zio Carmine, fregandosi gli occhi, colla bocca contratta dai sbadigli, cercava delle scuse. - Ah!... sia lodato Dio! Voi ve la dormite da un canto, Diodata dall'altro, al buio!... Cosa facevi al buio?... aspettavi qualcheduno?... Brasi Camauro oppure Nanni l'Orbo?... La ragazza ricevette la sfuriata a capo chino, e intanto accendeva lesta lesta il fuoco, mentre il suo padrone continuava a sfogarsi, lì fuori, all'oscuro, e passava in rivista i buoi legati ai pioli intorno all'aia. Il camparo mogio mogio gli andava dietro per rispondere al caso: - Gnorsì, Pelorosso sta un po' meglio; gli ho dato la gramigna per rinfrescarlo. La Bianchetta ora mi fa la svogliata anch'essa... Bisognerebbe mutar di pascolo... tutto il bestiame... Il mal d'occhio, sissignore! Io dico ch'è passato di qui qualcheduno che portava il malocchio!... Ho seminato perfino i pani di San Giovanni nel pascolo... Le pecore stanno bene, grazie a Dio... e il raccolto pure... Nanni l'Orbo? Laggiù a Passanitello, dietro le gonnelle di quella strega... Un giorno o l'altro se ne torna a casa colle gambe rotte, com'è vero Dio!... e Brasi Camauro anch'esso, per amor di quattro spighe... - Diodata gridò dall'uscio ch'era pronto. - Se non avete altro da comandarmi, vossignoria, vado a buttarmi giù un momento... Come Dio volle finalmente, dopo un digiuno di ventiquattr'ore, don Gesualdo poté mettersi a tavola, seduto di faccia all'uscio, in maniche di camicia, le maniche rimboccate al disopra dei gomiti, coi piedi indolenziti nelle vecchie ciabatte ch'erano anch'esse una grazia di Dio. La ragazza gli aveva apparecchiata una minestra di fave novelle, con una cipolla in mezzo, quattr'ova fresche, e due pomidori ch'era andata a cogliere tastoni dietro la casa. Le ova friggevano nel tegame, il fiasco pieno davanti; dall'uscio entrava un venticello fresco ch'era un piacere, insieme al trillare dei grilli, e all'odore dei covoni nell'aia: - il suo raccolto lì, sotto gli occhi, la mula che abboccava anch'essa avidamente nella bica dell'orzo, povera bestia - un manipolo ogni strappata! Giù per la china, di tanto in tanto, si udiva nel chiuso il campanaccio della mandra; e i buoi accovacciati attorno all'aia, legati ai cestoni colmi di fieno, sollevavano allora il capo pigro, soffiando, e si vedeva correre nel buio il luccichìo dei loro occhi sonnolenti, come una processione di lucciole che dileguava. Gesualdo posando il fiasco mise un sospirone, e appoggiò i gomiti sul deschetto: - Tu non mangi?... Cos'hai? Diodata stava zitta in un cantuccio, seduta su di un barile, e le passò negli occhi, a quelle parole, un sorriso di cane accarezzato. - Devi aver fame anche tu. Mangia! mangia! Essa mise la scodella sulle ginocchia, e si fece il segno della croce prima di cominciare, poi disse: - Benedicite a vossignoria! Mangiava adagio adagio, colla persona curva e il capo chino. Aveva una massa di capelli morbidi e fini, malgrado le brinate ed il vento aspro della montagna: dei capelli di gente ricca, e degli occhi castagni, al pari dei capelli, timidi e dolci: de' begli occhi di cane carezzevoli e pazienti, che si ostinavano a farsi voler bene, come tutto il viso supplichevole anch'esso. Un viso su cui erano passati gli stenti, la fame, le percosse, le carezze brutali; limandolo, solcandolo, rodendolo; lasciandovi l'arsura del solleone, le rughe precoci dei giorni senza pane, il lividore delle notti stanche - gli occhi soli ancora giovani, in fondo a quelle occhiaie livide. Così raggomitolata sembrava proprio una ragazzetta, al busto esile e svelto, alla nuca che mostrava la pelle bianca dove il sole non aveva bruciato. Le mani, annerite, erano piccole e scarne: delle povere mani pel suo duro mestiere!... - Mangia, mangia. Devi essere stanca tu pure!... Ella sorrise, tutta contenta, senza alzare gli occhi. Il padrone le porse anche il fiasco: - Te', bevi! non aver suggezione! Diodata, ancora un po' esitante, si pulì la bocca col dorso della mano, e s'attaccò al fiasco arrovesciando il capo all'indietro. Il vino, generoso e caldo, le si vedeva scendere quasi a ogni sorso nella gola color d'ambra; il seno ancora giovane e fermo sembrava gonfiarsi. Il padrone allora si mise a ridere. - Brava, brava! Come suoni bene la trombetta!... Sorrise anch'essa, pulendosi la bocca un'altra volta col dorso della mano, tutta rossa. - Tanta salute a vossignoria! Egli uscì fuori a prendere il fresco. Si mise a sedere su di un covone, accanto all'uscio, colle spalle al muro, le mani penzoloni fra le gambe. La luna doveva essere già alta, dietro il monte, verso Francofonte. Tutta la pianura di Passanitello, allo sbocco della valle, era illuminata da un chiarore d'alba. A poco a poco, al dilagar di quel chiarore, anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi, come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si movevano per la china, e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso, mentre scendeva passo passo verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente, e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in piedi. Nell'aia la bica alta e ancora scura sembrava coronata d'argento, e nell'ombra si accennavano confusamente altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un'altra striscia d'argento lunga si posava in cima al tetto del magazzino, che diventava immenso nel buio. - Eh? Diodata? Dormi, marmotta?... - Nossignore, no!... Essa comparve tutta arruffata e spalancando a forza gli occhi assonnati. Si mise a scopare colle mani dinanzi all'uscio, buttando via le frasche, carponi, fregandosi gli occhi di tanto in tanto per non lasciarsi vincere dal sonno, col mento rilassato, le gambe fiacche. - Dormivi!... Se te l'ho detto che dormivi!... E le assestò uno scapaccione come carezza. Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto... gli sembrava di tornarci ancora, quando portava il gesso dalla fornace di suo padre, a Donferrante! Quante volte l'aveva fatta quella strada di Licodia, dietro gli asinelli che cascavano per via e morivano alle volte sotto il carico! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto! Mastro Nunzio allora suonava il deprofundis sulla schiena del figliuolo, con la funicella stessa della soma... Erano dieci o dodici tarì che gli cascavano di tasca ogni asino morto al poveruomo! - Carico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d'allora; Speranza che cominciava a voler marito; la mamma con le febbri, tredici mesi dell'anno!... - Più colpi di funicella che pane! - Poi quando il Mascalise, suo zio, lo condusse seco manovale, a cercar fortuna... Il padre non voleva, perché aveva la sua superbia anche lui, come uno che era stato sempre padrone, alla fornace, e gli cuoceva di vedere il sangue suo al comando altrui. - Ci vollero sette anni prima che gli perdonasse, e fu quando finalmente Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo... la fabbrica del Molinazzo... Circa duecento salme di gesso che andarono via dalla fornace al prezzo che volle mastro Nunzio... e la dote di Speranza anche, perché la ragazza non poteva più stare in casa... - E le dispute allorché cominciò a speculare sulla campagna!... - Mastro Nunzio non voleva saperne... Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. "Fa l'arte che sai!" - Ma poi, quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva comprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva di misurarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi, come avesse nelle gambe la canna dell'agrimensore... E ordinava "bisogna far questo e quest'altro" per usare del suo diritto, e non confessare che suo figlio potesse aver la testa più fine della sua. - La madre non ci arrivò a provare quella consolazione, poveretta. Morì raccomandando a tutti Santo, che era stato sempre il suo prediletto e Speranza carica di famiglia com'era stata lei... - un figliuolo ogni anno... - Tutti sulle spalle di Gesualdo, giacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent'anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. - Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! - Tanta carne al fuoco! tanti pensieri, tante inquietudini, tante fatiche!... La coltura dei fondi, il commercio delle derrate, il rischio delle terre prese in affitto, le speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui!... - Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del figliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!... - Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d'inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell'aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all'ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. - Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un'ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all'osteria! - trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranza, o le querimonie del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi - le liti fra tutti loro quando gli affari non andavano bene. - Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. - Nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. - Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l'impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l'occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi per dire soltanto "vi saluto"; le strette di mano inquiete, coll'orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall'ira, spumanti bava e minacce - la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore... - Ci hai lavorato, anche tu, nella roba del tuo padrone!... Hai le spalle grosse anche tu... povera Diodata!... Essa, vedendosi rivolta la parola, si accostò tutta contenta e gli si accovacciò ai piedi, su di un sasso, col viso bianco di luna, il mento sui ginocchi, in un gomitolo. Passava il tintinnìo dei campanacci, il calpestìo greve e lento per la distesa del bestiame che scendeva al torrente, dei muggiti gravi e come sonnolenti, le voci dei guardiani che lo guidavano e si spandevano lontane, nell'aria sonora. La luna ora discesa sino all'aia, stampava delle ombre nere in un albore freddo; disegnava l'ombra vagante dei cani di guardia che avevano fiutato il bestiame; la massa inerte del camparo, steso bocconi - Nanni l'Orbo, eh?... o Brasi Camauro? Chi dei due ti sta dietro la gonnella? - riprese don Gesualdo che era in vena di scherzare. Diodata sorrise: - Nossignore!... nessuno!... Ma il padrone ci si divertiva: - Sì, sì!... l'uno o l'altro... o tutti e due insieme!... Lo saprò!... Ti sorprenderò con loro nel vallone, qualche volta!... Essa sorrideva sempre allo stesso modo, di quel sorriso dolce e contento, allo scherzo del padrone che sembrava le illuminasse il viso, affinato dal chiarore molle: gli occhi come due stelle; le belle trecce allentate sul collo; la bocca un po' larga e tumida, ma giovane e fresca. Il padrone stette un momento a guardarla così, sorridendo anch'esso, e le diede un altro scapaccione affettuoso. - Questa non è roba per quel briccone di Brasi, o per Nanni l'Orbo! no!... - Oh, gesummaria!... - esclamò essa facendosi la croce. - Lo so, lo so. Dico per ischerzo, bestia!... Tacque un altro po' ancora, e poi soggiunse: - Sei una buona ragazza!... buona e fedele! vigilante sugli interessi del padrone, sei stata sempre... - Il padrone mi ha dato il pane, - rispose essa semplicemente. - Sarei una birbona... - Lo so! lo so!... poveretta!... per questo t'ho voluto bene! A poco a poco, seduto al fresco, dopo cena, con quel bel chiaro di luna, si lasciava andare alla tenerezza dei ricordi. - Povera Diodata! Ci hai lavorato anche tu!... Ne abbiamo passati dei brutti giorni!... Sempre all'erta, come il tuo padrone! Sempre colle mani attorno... a far qualche cosa! Sempre l'occhio attento sulla mia roba!... Fedele come un cane!... Ce n'è voluto, sì, a far questa roba!... Tacque un momento intenerito. Poi riprese, dopo un pezzetto, cambiando tono: - Sai? Vogliono che prenda moglie. La ragazza non rispose; egli non badandoci, seguitò: - Per avere un appoggio... Per far lega coi pezzi grossi del paese... Senza di loro non si fa nulla!... Vogliono farmi imparentare con loro... per l'appoggio del parentado, capisci?... Per non averli tutti contro, all'occasione... Eh? che te ne pare? Ella tacque ancora un momento col viso nelle mani. Poi rispose, con un tono di voce che andò a rimescolargli il sangue a lui pure: - Vossignoria siete il padrone... - Lo so, lo so... Ne discorro adesso per chiacchierare... perché mi sei affezionata... Ancora non ci penso... ma un giorno o l'altro bisogna pure andarci a cascare... Per chi ho lavorato infine?... Non ho figliuoli... Allora le vide il viso, rivolto a terra, pallido pallido e tutto bagnato. - Perché piangi, bestia? - Niente, vossignoria!... Così!... Non ci badate... - Cosa t'eri messa in capo, di'? - Niente, niente, don Gesualdo... - Santo e santissimo! Santo e santissimo! - prese a gridare lui sbuffando per l'aia. Il camparo al rumore levò il capo sonnacchioso e domandò: - Che c'è?... S'è slegata la mula? Devo alzarmi?... - No, no, dormite, zio Carmine. Diodata gli andava dietro passo passo, con voce umile e sottomessa: - Perché v'arrabbiate, vossignoria?... Cosa vi ho detto?... - M'arrabbio colla mia sorte!... Guai e seccature da per tutto... dove vado!... Anche tu, adesso!... col piagnisteo!... Bestia!... Credi che, se mai, ti lascerei in mezzo a una strada... senza soccorsi?... - Nossignore... non è per me... Pensavo a quei poveri innocenti... - Anche quest'altra?... Che ci vuoi fare! Così va il mondo!... Poiché v'è il comune che ci pensa!... Deve mantenerli il comune a spese sue... coi denari di tutti!... Pago anch'io!... So io ogni volta che vo dall'esattore!... Si grattò il capo un istante, e riprese: - Vedi, ciascuno viene al mondo colla sua stella... Tu stessa hai forse avuto il padre o la madre ad aiutarti? Sei venuta al mondo da te, come Dio manda l'erba e le piante che nessuno ha seminato. Sei venuta al mondo come dice il tuo nome... Diodata! Vuol dire di nessuno!... E magari sei forse figlia di barone, e i tuoi fratelli adesso mangiano galline e piccioni! Il Signore c'è per tutti! Hai trovato da vivere anche tu!... E la mia roba?... me l'hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!... Io ho il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla... In tal modo seguitava a brontolare, passeggiando per l'aia, su e giù dinanzi la porta. Poscia vedendo che la ragazza piangeva ancora, cheta cheta per non infastidirlo, le tornò a sedere allato di nuovo, rabbonito. - Che vuoi? Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone... come quando ero un povero diavolo senza nulla... Ora ci ho tanta roba da lasciare... Non posso andare a cercar gli eredi di qua e di là, per la strada... o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire che i figliuoli che avrò poi, se Dio m'aiuta, saranno nati sotto la buona stella!...
(Baldi-Giusso,
Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, edizione modulare, volume
"Carducci e Verga", pp. 163-164)
Le virtù eroiche Gesualdo
La sua alienazione umana
La critica alla «religione roba»
La scomparsa del valore famiglia
La morale eroica dell'individualismo
L'interiorizzazione del conflitto valori-economicita
Il punto di vista "alto" |
La problematicità di Gesualdo. Il capitolo IV della prima parte del romanzo descrive una giornata tipo di Gesualdo. Si divide in due parti. La prima (di cui diamo solo qualche esempio significativo) è tutta dominata dall'attivismo infaticabile dell'eroe, che bada a mille affari, vede tutto, provvede a tutto, non sente il caldo atroce, il digiuno, la fatica, pur di raggiungere l'obiettivo per lui sacro di accrescere e difendere la roba. In questo la figura di Gesualdo, come già quella di Mazzarò, assume qualcosa di grandiosamente epico: le sue virtù eroiche sono la potenza demiurgica di creare ricchezza, la capacità di ascesi e di sacrificio, il tendere continuamente a superarsi. C'è anche in Gesualdo qualcosa di "faustiano": come gli dice il vecchio che incontra per strada, dà 1’«anima al diavolo» pur di avere la roba. Ma proprio per questo la sua figura è fortemente problematica. Oltre all'alone eroico, c'è in lui qualcosa di cupo e di sinistro, di disumano e spaventoso, nel suo concentrare tutta la vita, ossessivamente, a quell'unico fine, escludendo qualunque altra realtà. Si noti il paesaggio che lo circonda, che ha una fisionomia infernale: veramente Gesualdo è un "dannato", sperimenta l'inferno, escludendosi dalla vita, per raggiungere i suoi fini. Questo è l'aspetto negativo della «religione della roba»: la totale alienazione, il sacrificio di ogni umanità. E la prova che la «religione della roba» non è da Verga celebrata, come interpretava il Russo, ma guardata con atteggiamento duramente critico.
Il volto disumano della lotta per la vita. La seconda parte vede invece il momento del riposo, nella quiete della sera, nel paesaggio amato della Canziria. La tensione "faustiana" si attenua ed emerge dalla memoria dell'eroe tutto il suo passato. Ma anche qui, nel suo lungo monologo interiore, espresso mediante l'indiretto libero, affiora tutta la negatività della sua ascesa, il prezzo durissimo che egli ha dovuto pagare, e soprattutto il volto disumano della lotta per la vita. Persino la famiglia, a differenza dei Malavoglia, non è più un rifugio: i conflitti si insinuano anche al suo interno, in particolare nei rapporti con la figura paterna. Non è solo un conflitto di interessi, ma più in generale di visioni del mondo. Mastro Nunzio rappresenta la mentalità tradizionalista e immobilista («fa l'arte che sai»), propria di una società pre-moderna; Gesualdo, al contrario, ha la nuova mentalità dinamica e individualistica del mondo moderno, fondata sull'intraprendenza e il mutamento. Il conflitto Gesualdo-Nunzio riprende quello tra 'Ntoni e padron 'Ntoni; ma vi è una capitale differenza: il vecchio padron 'Ntoni rappresenta il grembo protettivo, caldo di affetti, del "nido" familiare, che può sempre offrire un rifugio dai traumi della lotta per la vita; Nunzio invece è un uomo arido, privo di affetti e di generosità, tutto interno anch'egli alla logica dell'interesse, e quindi non può più offrire il rifugio della famiglia. Questo valore è escluso dall'orizzonte del Gesualdo, diviene impossibile, in conseguenza del pessimismo sempre più aspro e coerente dello scrittore.
Lotta per la vita e valori. In questo bilancio retrospettivo, l'alienazione e la disumanizzazione appaiono a Gesualdo giustificate proprio dalla morale eroica dell'individualismo: egli si sforza di convincersi che valeva la pena di pagare quel prezzo per ottenere quei fini. Ma questa giustificazione è messa in crisi da Diodata. La donna, con il suo amore e la sua fedeltà, rappresenta una dimensione alternativa a quella in cui vive alienato Gesualdo, la dimensione dei valori autentici e disinteressati. È l'ultimo residuo dei valori che resiste nel mondo disumano della «roba» e del «progresso». Ma quei valori sono ormai totalmente impossibili, impraticabili: Gesualdo è costretto a rinunciare alla donna che lo ama e che egli ama per seguire l'interesse, sposando Bianca Trao. Per questo nascono in lui un forte senso di colpa ed un lacerante conflitto interiore. Si scorge qui come l'opposizione valori-economicità, che nei Malavoglia si proietta nei due poli contrapposti della famiglia protagonista e del villaggio, nel Gesualdo interiorizzi nell'eroe stesso (Luperini). In Gesualdo resiste un fondo "malavogliesco" di affetti e di virtù etiche autenticamente vissute, ma la logica di cui è prigioniero gli impone di soffocarlo. Ed egli lo fa aggrappandosi sempre alla morale eroica dell'individualismo («E la mia roba?... me l'hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono?»). Ma il conflitto resta aperto in lui, e continuerà a perseguitarlo sin sul letto di morte.
L'impianto narrativo. Si può notare da queste pagine l'impianto narrativo diverso rispetto ai Malavoglia. Scompare l'impostazione "corale", e spicca la figura solitaria dell'eroe. Non vi è più la regressione in un punto di vista "basso", popolare, con gli effetti di deformazione e di straniamento che ne conseguono. Il punto di vista narrativo è "alto", come rivelano le descrizioni paesistiche, dense di valore simbolico. Prevalgono il dialogo diretto, che dà un taglio nettamente "drammatico" al racconto, oppure la focalizzazione interna sull'eroe (il lungo monologo interiore in indiretto libero). Ed è l'autore che porta al personaggio la sua cultura e il suo linguaggio, ne interpreta e traduce pensieri e sensazioni. |
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