Rappresentanti della Scapigliatura

 

Emilio Praga (1839-1875)

 

Praga è certamente il poeta che più rappresenta la Scapigliatura non solo per la sua vita sregolata da bohémien e il suo anticonformismo, che sono solo un modo per manifestare il suo desiderio di rivolta contro la società borghese (di cui peraltro era di estrazione sociale), ma anche per il mancato sbocco di questa rivolta, che caratterizzò la Scapigliatura, che come già è stato accennato fu incapace di apportare dei nuovi valori nella cultura italiana. Come Boito, lo stesso Praga capisce l'esito fallimentare dell'esperienza scapigliata. Il carattere innovativo delle sue poesie si avverte già nella prima raccolta di poeie, Tavolozza dove emerge lo sperimentalismo pittorico.

In Penombre viene assimilata la lezione di Baudelaire, ma nell'ultima raccolta Trasparenze i toni maledettistici e l'anticlericalismo sono praticamente accantonati ed emergono motivi che precorrono il Decadentismo (soprattutto quello pascoliano); infatti negli ultimi anni della sua breve vita, Praga, quando oramai l'esperienza scapigliata poteva dichiararsi conclusa cerca nuovi valori ed ecco il rimpianto per il passato (personale), per l'infanzia "età di candida innocenza del mondo" cui sentimenti si fondono con la natura e si riesce a coglierne l'essenza spirituale.

La poesia, quindi dopo aver visto crollare davanti a sé ogni tentativo di realizzare l'Ideale, deve essere custode e umile celebratrice del mondo passato e degli affetti. (si noti come sono chiare le similitudini con il Pascoli).

 

La poesia Preludio è una sorta di manifesto della scapigliatura, in cui viene descritta la condizione spirituale di un’intera generazione intellettuale. Non hanno più una fede religiosa ed è per questo che rifiutano Manzoni pur avvertendone la grandezza. Nella seconda parte delinea la tematica baudelairiana: la Noia è carnefice dell’anima; il dualismo fra tensione verso l’ideale e la perdizione nel vizio. Nell’ultimo verso c’è la dichiarazione di poetica: “canto il vero”, cioè la realtà desolata della vita con le sue miserie.

 

Preludio  (1864, Penombre)

Metro: otto strofe di quattro versi cui primi tre sono endecasillabi e ilquarto un quinario, o un settenario con rima secondo lo schema ABAb

Noi siamo figli dei padri ammalati,
 aquile al tempo di mutar le piume,
 svolazziamo muti, attoniti, affamati,
                            sull'agonia di un nume.

Nebbia remota è lo splendor dell'arca,
 e già all'idolo d'or torna l'umano,
 e dal vertice sacro il patriarca
                            s'attende invano;

s'attende invano dalla musa bianca
 che abitò venti secoli il Calvario
 e invano l'esausta vergine s'abbranca
                            a lembi del Sudario.

Casto poeta che l'Italia adora,
 Vegliardo in sante visïoni assorto,
 tu puoi morir!... Degli antecristi è l'ora!
                            Cristo è rimorto!

O nemico lettor, canto la Noia,
 l'eredità del dubbio e dell'ignoto,
 il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia,
                            il tuo cielo, il tuo loto!

Canto litane di martire e d'empio;
 canto gli amori dei sette peccati
 che mi stanno nel cor, come in un tempio,
                            inginocchiati.

Canto le ebbrezze dei bagni d'azzurro,
 e l'Ideale che annega nel fango...
 non irrider, fratello, al mio sussurro
                            se qualche volta piango:

giacché più del mio pallido demone,
 odio il minio e la maschera al pensiero,
 giacché canto una misera canzone,
                          ma canto il vero!

 

Emerge, dalla lettura di questo componimento, una carica di disprezzo nei confronti di Manzoni al punto di desiderarne la morte ("casto poeta che l’Italia adora" tu puoi morir…) e del manzonismo, spinta dal desiderio rinnovamento ("siamo aquile al tempo di cambiar le piume"), e di ribellarsi alle tematiche della letteratura vigente, poiché "degli anticristi è l’ora". Viene derisa attraverso sapienti metafore la religione, poichè ormai l' uomo si è irrimediabilmente allontanato da Dio, poichè la ricchezza e il materialsmo hanno preso posto alla fede e invano sarà un recupero di questi valori.

L'antireligiosità e l'anticoformismo sono quindi espressi in queste prime quattro strofe. Nelle ultime quattro invece vengono elaborati in chiave scapigliata, nuovi temi di ispirazione "baudelariana": il lettore (il pubblico borghese) sentito come un nemico, ma nche come fratello, poichè affetto dagli stessi vizi; la Noia, il dubbio, l'ignoto, la crudeltà della realtà (l'Ideale che annega nel fango), il peccato, la degradazione della vita; e infine la consapevolezza della miseria della poesia (misera canzone) che ha ormai perduto la sua importanza, e i suoi aspetti didascaliscici, e non gli resta che demistificare e criticare la realtà cantando il "Vero".

Il modello baudeleriano si unisce alle antitesi care a Boito per sottolineare con durezza l’impossibilità storica di tornare, anche nella poesia, all’ordine antico e in questa chiave forse, più che in quella di un preciso progamma realistico, è da leggere il verso finale (Bolzoni).

 


 

Arrigo Boito   (1842-1918)

 

Per Boito, la fase Scapigliata non durò a lungo: già nel 1875, infatti, con il successo della seconda redazione del Mefistofele a Bologna, egli era ormai un uomo perfettamente inserito nei circoli della Milano bene. Il senso di comunità e le abitudini anticonformiste (egli stesso racconta di essersi concesso all'uso di hascisc e morfina per una settimana intera al punto di non riconoscere più il fratello!) che tanto lo aveva entusiasmato nei primi anni di attività scapigliata  viene già avvertito come un fallimento in due poesie: A Giovanni Camerana (1865) e A Emilio Praga (1866). Nella poesia dedicata a Praga, Boito dice "Ho perduto i miei sogni ad uno ad uno / com'oboli di cieco" e l'unica via di uscita appare come la morte. Nella poesia dedicata  a Camerana, invece, si delinea una sorta di autoritratto del poeta che afferma la necessità logica di certe scelte linguistiche, ma vengono sottolineati tutti gli aspetti beffardi con cui Boito ha vissuto l'esperienza scapigliata, in un cero senso rinnegandola ("Io pur fra i primi di cotesta razza / urlo il canto anemico e macabro / poi, con rivolta pazza, / atteggio a fischi il labbro").

Da alcuni suoi scritti emerge una concezione aristocratica dell'arte: viene esaltata la figura del "genio" che si eleva dalla massa: "Ma che un popolo grosso e materiale debba giungere un giorno a scuoprire i sublimi misteri dell'ultime opere di Beethoven, è tale un'idea da non mi dar pace né tregua".

Il richiamo ai poeti  del Romanticismo europeo, e la lezione dei parnassiani francesi, sono da parte di Boito scelte culturali, artistiche che vogliono rompere con il provincialismo della poesia italiana.

La rottura con questo clima culturale "languido e lacrimoso" si configura anche come aristocratica contrapposizione tra il "genio", l'artista e il popolo. Per questo le tematiche delle sue poesie sono strane, bizzarre e le scelte linguistiche e metriche difficili. In Ballatella lo stesso Boito afferma di  essersi impegnato nella stesura di questa poesia per puro esercizio formale (« [...] lo scopo [...] non è né filosofico, né religioso: ho voluto semplicemente esercitarmi nella scabrosa rima in -iccio »).

In conclusione si può affermare che l'adesione di Boito alla Scapigliatura fu essenzialmente formale (e non fu il solo, per esempio Dossi e Verga) e una sua concreta partecipazione attiva fu solo iniziale. Lo sperimentalismo metrico e ritmico (che fu un tentativo piuttosto velleitario ed esasperato) di Boito non riuscì tuttavia a rinnovare la poesia italiana, e la sua produzione resta da ascrivere al gusto tardoromantico. Presupposto anche "l'adeguamento" ad una società alto-borghese l'unico aspetto scapigliato che si può salvare di Boito è la  ricerca del rapporto tra arti diverse (poesia e musica). Infatti Boito ebbe una grande importanza nel panorama musicale italiano in quanto fu un sostenitore del rinnovamento del melodramma.Testo

 

Anche Dualismo è una poesia manifesto, perché pone al centro la lacerazione tra due opposti inconciliabili: l’uomo è un angelo e un demonio. Rifiuta la modernità e la bruttezza determinata dai nuovi ideali.

Il poeta aspira ad un’arte che realizzi la bellezza ideale, ma poiché tale bellezza è impossibile, può solo cantare il vero, la squallida realtà.

 

Dualismo (1863, Libro dei versi)

Metro: strofe di 7 settenari, di cui l'ultimo, tronco, rima con l'ultimo della strofa seguente. In ogni strofa i vv 1 e 3 sono sdruccioli, e rimano fra loro i vv 2-4, 5-6

 
   Son luce e ombra; angelica
farfalla o verme immondo,
sono un caduto chérubo
dannato a errar sul mondo,
o un demone che sale
affaticando l'ale,
verso un lontano ciel.

   Ecco perché nell'intime
cogitazioni io sento
la bestemmia dell'angelo
che irride al suo tormento;
o l'umile orazione
dell'esule dimone
che riede a Dio, fedel.

   Ecco perché m'affascina
l'ebbrezza di due canti
ecco perché mi lacera
l'angoscia di due pianti,
ecco perché il sorriso
che mi contorce il viso
o che m'allarga il cuor.

   Ecco perché la torbida
ridda de' miei pensieri,
or mansueti e rosei,
or vïolenti e neri;
ecco perché con tetro
tedio, avvicendo il metro
de'carmi animator.

   O creature fragili
del genio onnipossente!
Forse noi siamo l'homunculus
d'un chimico demente,
forse di fango e foco
per ozïoso gioco
un buio Iddio ci fe'.

   E ci scagliò sull'umida
gleba che c'incatena,
poi dal suo ciel guatondoci
rise alla pazza scena,
e un di a distrar la noia
della sua lunga gioia
ci schiaccerà col piè.

   E noi viviam, famelici
di fede o d'altri inganni,
rigirando il rosario
monotono degli anni,
dove ogni gemma brilla
di pianto, acerba stilla
fatta d'acerbo duol.

   Talor, se sono il demone
redento che s'indìa,
sento dell'alma effondersi
una speranza pia
e sul mio buio viso
del gaio paradiso
mi fulgoreggia il sol.

   L'illusïon — libellula
che bacia i fiorellini,
— l'illusïon — scoiattolo
che danza in cima ai pini,
— l'illusïon — fanciulla
che trama e si trastulla
colle fibre del cor,

   viene ancora a sorridermi
nei dì più mesti e soli
e mi sospinge l'anima
ai canti, ai carmi, ai voli;
e a turbinar m'attira
nella profonda spira
dell'estro ideator.

   E sogno un'Arte eterea
che forse in cielo ha norma,
franca dai rudi vincoli
del metro e della forma,
piena dell'Ideale
che mi fa battere l'ale
e che seguir non so.

   Ma poi, se avvien che l'angelo
fiaccato si ridesti,
i santi sogni fuggono
impauriti e mesti;
allor davanti al raggio
del mutato miraggio,
quasi rapito, sto.

   E sogno allor la magica
Circe col suo corteo
d'alci e di pardi, attoniti
nel loro incanto reo.
E il cielo, altezza impervia,
derido e di protervia
mi pasco e di velen.

   E sogno un arte reproba
che smaga il mio pensiero
dietro le basse immagini
d'un ver che mente al Vero
e in aspre carme immerso
sulle mie labbra il verso
bestemmiando vien.

   Questa è la vita! l'ebete
vita che c'innamora,
lenta che pare un secolo
breve che pare un'ora;
un agitarsi alterno
fra paradiso e inferno
che non s'accheta più!

   Come istrïon, su cupida
plebe di rischio ingorda,
fa pompa d'equilibrio
sovra una tesa corda,
tale è l'uman, librato
fra un sogno di peccato
e un sogno di virtù.

 

Anche questa lirica, come Preludio di Praga, è considerata una sorta di manifesto della poesia scapigliata. Questa poesia è fortemente improntata ancora su una tematica ancora romantica, ovvero la contrapposizioni di termini astratti: reale-ideale, bene-male (tematica che attraversa tutta l'opera di Boito, si riscontra, infatti, in Lezione d'anatomia). Tuttavia il linguaggio usato in questa lirica resta tradizionale, caratterizzato da latinismi e parole dotte e lo stesso autore ammette la propria incapacità di realizzare una nuova forma artistica (E sogno un'Arte eterea/che forse in cielo ha norma,/ franca dai rudi vincoli/del metro e della forma,/piena dell'Ideale/che mi fa battere l'ale / e che seguir non so). Sembrerebbe a prima vista, come suggerisce la Bolzoni, una dichiarazione predecadente; ma in realtà l'Arte eterea di Boito si riduce a gioco "intellettualistico" di metro e forma. La struttura dualistica si ripete in tutta la poesia. Nel poeta, si presentano le figure contrapposte di un chérubo (angelo) dannato e di un demone redento.

Il demone redento si sente ancora speranzoso e fiducioso, ma la sua è solo un'illusione che potrà sospingere la sua anima a volare e a rallegrare i suoi giorni mesti e soli, ma la consapevolezza dell'inafferrabilità dell'Ideale porta a ridestare l'angelo fiaccato che sogna un'altro universo quello dei piaceri e della vita dissoluta (E sogno allor la maga Circe...), ma la tristezza permane e le bestemmie a Dio sono cariche di veleno. Si desidera allora un Arte reproba che possa estraniarlo dalla realtà "d'un ver che mente al Vero" che è la causa di una spontanea bestemmia.

La poesia è ricca di allegorie di parallelismi e sono presenti riferimenti alla divina commedia e al Faust di Goethe. Inoltre vi è sotto velata una nota d'ironia: la rappresentazione di un Dio che si prende gioco dell'uomo, il riferimento alla maga Circe che trasforma gli uomini in "cervi e pardi".

La vita per il poeta è "ebete" una contraddizione struggente poiché ogni tentativo di comprenderla è velleitario: « Questa è la vita! l'ebete / vita che c'innamora, / lenta che pare un secolo / breve che pare un'ora».


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