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di GIULIO CARLO ARGAN
Il critico istituisce un parallelo fra i modi propri della poesia del Tasso nella Gerusalemme e la pittura del Tintoretto: nell'una e nell'altra assistiamo all'aprirsi indefinito degli spazi, al drammatico animarsi della natura, ai continui intensi contrasti di ombre e di luci, onde le figure, i volti, i gesti, gli oggetti si rivelano soltanto nel raggio di luce che li illumina. Anche la bellezza appare concepita in modo analogo dai due artisti: soprattutto gli ornamenti attirano l'attenzione e l'interesse descrittivo, e la figura si atteggia entro un decoro di gesti che vuol essere il segno della dignità morale.
Se veramente, come pare, il primo disegno della Gerusalemme è stato concepito durante gli anni trascorsi a Venezia, mi pare che non possa negarsi che la composizione generale del poema abbia un carattere, un andamento tipicamente tintoretteschi. Se l'elemento fondamentale del Rinaldo è quella che comunemente si chiama la « unità di eroe », la Gerusalemme nasce con un'architettura, una composizione prestabilita. Sono note le obiezioni del Tasso nei confronti dell'azione frammentata in episodi brillantissimi, ma praticamente autonomi, del Furioso; ma è anche noto come lui, cosí sensibile ai suggerimenti autorevoli, abbia saputo resistere a quanti gli consigliavano di eliminare dal poema l'episodio di Olindo e Sofronia, posto proprio al principio e indipendente dallo sviluppo della trama epica. Evidentemente il Tasso avvertiva che quell'episodio patetico, quel tipico caso di peripezia o di rivolgimento di fortuna amorosa, posto lì in primo piano, serviva egregiamente a dare il tono a tutto il poema, o, per usare un termine pittorico, « faceva prospettiva ». Anche sentiva che la coerenza compositiva della sua opera non era affidata alla logica concatenazione dei fatti, ma allo sviluppo del carattere dei protagonisti attraverso le successive vicende; e che proprio perciò bisognava evitare di chiudere le azioni, di risolvere le situazioni: perché proprio attraverso il seguito di azioni inconcluse o rinviate emergeva quella che si potrebbe chiamare la intenzionalità, il movente interno del personaggio. Perciò anche nella Gerusalemme, come già nell'Aminta, v'è un legame, quasi una continuità tra le figure e il fondo: un fondo che talvolta è paesaggio, ma più spesso è un confuso, lontano groviglio di figure secondarie e di comparse in movimento. È da quel fondo che le figure maggiori di volta in volta emergono per recitare la loro parte; ed è in quel fondo che rientrano, per dar luogo ad altre scene, alla vicenda di altri protagonisti.
È un nuovo modo di composizione, e così ricca di prospettive arrischiate e sfuggenti, di contrasti di luce, ombre e controluci, così sapientemente calcolata pur nel suo impetuoso trascorrere da non potersi accostare che al modo delle composizioni pittoriche del Tintoretto. Come in queste, infatti, lo spazio non ha più una misura, un'architettura definita: ma è contrasto di vicino e di lontano, di eventi che accadono sotto i nostri occhi e di remotissimi sfondi, sicché si è come attratti nella sua dimensione fantastica e, seguendo il flusso irresistibile della vicenda drammatica, quasi condotti a perdersi in quegli sfondi agitati, convulsi. E a quel «furor» degli uomini si associa sempre un «furor» della natura, perché v'è una relazione profonda tra il mondo dei sentimenti umani e quello dei fenomeni naturali: nel Tasso come nel Tintoretto, la natura interviene sempre nel dramma, riassorbe la tempesta, il turbine dei sentimenti nel turbine degli elementi, crea un collegamento necessario tra quel troppo-vicino e quel troppo-lontano che sono gli estremi dello spazio compositivo. E quella commozione della natura si manifesta, nel poeta come nel pittore, in una violenta alternativa di luci e di ombre: in quello che, comunemente, si chiama il «luminismo».
Luministica è infatti la visione del Tasso non meno di quella del Tintoretto: nella Gerusalemme predominano i notturni, i crepuscoli, le «ombre miste d'una incerta luce» o tinte di «rossi vapor»; o «nere e folte» entro le selve «orride e spesse»; e dell'armi si vedono soli i bagliori, come fossero di diamante; le vesti sono veli mossi e trasparenti, che rendono più attraenti le bellezze che celano; dei volti, più che i lineamenti, vediamo il pallore o il rossore. Perché il luminismo del Tasso, come quello del Tintoretto, non è affatto veder le cose colpite da un lume particolare invece che immerse nel lume universale; ma è una specie di vibrazione, di febbrile movimento cosí delle persone che dello spazio infinito. E infatti ciò che quel luminismo mette in evidenza, quasi trapassasse l'involucro fisico dei corpi e rivelasse quel che avviene al di dentro, non è affatto ciò che i teorici del tempo chiamavano gli « accidenti » della forma, ma una forma o una bellezza interna, l'ardore dell'animo, la «bellezza » dei sentimenti. Non è difficile accorgersi che, a voler dare figura all'ideale' di donna descritto dal Tasso, non si potrebbe che ricorrere alle' figure femminili del Tintoretto: nelle quali soltanto la nobiltà del portamento vela la natura ardente e sensibile, dando quasi un senso morale a quella loro sensualità appena dissimulata. E anch'esse sono piuttosto raccontate che rappresentate: sorprese nel gesto, che rivela il moto dell'anima, che messe in posa davanti all'artista. Perciò la loro bellezza ha bisogno di una vicenda, di una situazione drammatica: soltanto nel dramma, nell'espressione viva del sentimento, la loro beltà cessa di essere causa di ammirazione per diventare causa di emozione.
Del resto, tanto nel Tintoretto che nel Tasso, l'immagine di quella bellezza è quasi interamente affidata al commento, alla valutazione sottile che ne dà l'artista. Di quelle figure, molto più che la perfezione delle forme, vediamo i gesti, le vesti intessute d'oro, i bagliori dei preziosi monili, il brillar della luce sull'oro dei capelli, lo splendore degli occhi, e via dicendo. L'antitesi già allusa da Tiziano, in quel suo quadro giovanile che va sotto il nome di Amor Sacro e Amor profano ma che gli antichi inventari registrano come figurazione della beltà ornata e beltà disadorna, è ormai risolta a tutto vantaggio della beltà ornata: e il Tasso stesso, nel suo tardo dialogo della bellezza, la identificherà senz'altro col decoro. Ma guardando più a fondo, non avremo difficoltà a riconoscere che quel particolare modo di aggettivazione, che nel Tasso e nel Tintoretto serve a descrivere e magnificare la bellezza, non è che il prodotto di una valutazione o di un giudizio, e per di più di natura morale: è la qualità del sentimento che adorna la forma e le dà il suo splendore. Un esempio solo: l'«alta» beltà di Sofronia tradisce i suoi «alti pensieri e regi»; le sue «bellezze altere e sante» si manifestano nelle «ischive maniere e generose» , nella «onesta baldanza», nell'«altero» aspetto. E, ovviamente, quella bellezza-decoro, che deve manifestare la nobiltà e l'ardore del sentimento, è proprio come la bellezza dell'arte, che deve nascondere l'artificio: non si sa se «caso od arte il bel volto compose», poiché «di natura, d'amor, dei cieli amici / le negligenze sue sono artifici». E cosí è nel Tintoretto dove l'immagine è sempre affidata al suggerimento pittorico più che all'evidenza plastica, a ciò che si sottintende piuttosto che a ciò che si dice; e non perché il suo discorso non sia fluente e perfino oratorio, ma perché l'aggettivo che adorna, commenta, valuta e qualifica finisce per prendere il sopravvento sul sostantivo e surrogare ad esso la sua qualità impalpabile, il suo accento valutativo.
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