Nicolò MACHIAVELLI (1469 - 1527)

Machiavelli scrisse il Principe tra il giugno e il dicembre del 1513, in un momento di ozio forzato della sua attività preferita: consigliare ai dirigenti della Repubblica di Firenze le decisioni da prendere. Il ritorno della famiglia de’ Medici a Firenze lo aveva privato della carica di segretario della seconda cancelleria e lo aveva confinato a Sancasciano senza denari, senza onori, ma soprattutto lontano dagli affari politici che sapeva analizzare con lucida intelligenza.

La nuova scienza della politica

In quei mesi stava redigendo i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, per dare una risposta al problema che appassionava gli umanisti: come poterono i Romani antichi conseguire il potere che sottomise tutti gli altri popoli? Il problema dI Machiavelli concerne il potere, di cui scopre il volto nascosto, fatto di inganno, di crudeltà, di simulazione e di violenza che gli studiosi antichi e medievali avevano cercato di isolare, facendo rientrare la politica nella categoria della morale.

La politica autonoma dalla morale

Machiavelli affermò risolutamente che l'attività del politico è autonoma rispetto alla morale: se il principe sembrerà ossequiente alle leggi e alla morale, tanto meglio, ma non deve esitare a ricorrere ai mezzi più terribili se sarà necessario per conseguire il suo fine, conservare o accrescere il suo potere.

Nella sezione dell'opera dedicata alle qualità del Principe (capp. XV - XXIII) è indicativo il capitolo XV («Di quelle cose per le quali gli uomini, e specialmente i principi, sono lodati o vituperati»). Machiavelli chiede scusa di affrontare un tema trattato con ben altra profondità dai trattatisti del passato. Ma volendo fare cosa utile a chi non è in grado di seguirlo, prenderà in esame la «realtà effettuale», piuttosto che l'immagine ideale del buon principe, perché, se è necessario, occorre imparare a non essere buoni. Lasciando da parte le qualità immaginarie, enumera le qualità dei principi che arrecano loro lode e biasimo. Sarebbe cosa lodevole avere tutte le qualità ritenute buone (liberalità, generosità, pietà, fedeltà, animosità, fierezza, integrità, religiosità, ...), ma, poiché la condizione umana non permette di avere tutto, basta al principe guardarsi dai vizi che gli possono fare perdere lo stato. Anzi, deve incorrere in quei vizi che gli permettano di salvare lo stato.

Secondo Machiavelli, il pensiero politico classico aveva il difetto di non considerare la realtà effettuale, perché cercava di ridurre l'àmbito del reale al dover essere. Machiavelli afferma che tale riduzione non è possibile: il reale sfugge alla presa dell'ideale. Occorre dunque riconoscere le esigenze del reale per non farsi travolgere. I mezzi per risolvere un problema vengono imposti al principe dalla circostanze in cui si trova ad agire. Egli può scegliere mezzi intrinsecamente malvagi, non perché condivida la malvagità, ma per ottenere il fine proposto. Tuttavia Machiavelli considera moralmente irrilevanti i mezzi che si usano, purché raggiungano lo scopo. Pertanto l'espressione «il fine giustifica i mezzi», anche se come tale non si trova nei suoi scritti, è confermata da tutta l'opera.

L'uomo di stato può fondarsi solo su ciò che è in suo potere, ossia sul timore che riesce ad incutere, e può puntare solo al suo scopo finale, cioè la conquista e il mantenimento del potere. Machiavelli non ritiene che il potere possa e debba avere un fine educativo, tale da indicare con le leggi e con l'esempio la direzione da prendere. È prigioniero della sua scoperta, che la prassi non si riduca alla morale e alla logica. Poiché gli uomini sono sempre gli stessi, facile preda delle passioni, occorre contrapporre ad essi la prassi di governo che deve essere efficace e risolutiva. Perché l'azione del principe sia efficace, occorre che non vi sia alcun potere indipendente (e, meno che meno, un potere superiore) da esso, in grado di limitarne l'arbitrio (come poteva essere la Chiesa o una magistratura indipendente dal potere esecutivo, giudicante secondo leggi anteriori e superiori al principe). Si afferma esplicitamente che lo stato è l'unica fonte del diritto e dei valori e che l'unico strumento adatto per l'esplicazione di tale potere è la forza bruta.

In politica dunque non c'è nulla di essenziale, definitivo e stabile. L'essenza della politica è la dura necessità di mantenere e accrescere il potere; le leggi e i regolamenti internazionali caratterizzano l'agire umano, ma con essi non si ottiene nulla. Bisogna ricorrere alla violenza che caratterizza il mondo degli animali. Perciò bisogna cercare una copertura del potere che appaia soddisfacente all'opinione pubblica (chiamata da machiavelli genericamente il «vulgo») e poi agire secondo la dura necessità del potere, che non ha di mira il bene dei governanti, bensì la permanenza di se stesso. La forza reale è il solo criterio di valutazione dei fatti.

Il benessere dei sudditi è un fatto accidentale. Le "provvidenze" dello Stato non servono ad altro che a ribadire la dipendenza del suddito nei confronti dello Stato. Non esistono altri fini che quelli dello Stato, il quale, nel corso degli ultimi cinque secoli (in modo particolarmente accelerato a partire dalla rivoluzione francese) assume su di sé tutti i compiti di assistenza, di previdenza, di produzione, di commercio, ecc., riducendo i sudditi alla mera funzione di destinatari dei propri provvedimenti, quasi si trattasse di minori, si minus habentes da controllare con cura dalla culla alla tomba. Viene meno la funzione pedagogica della legge. Poiché lo Stato non assume il compito di trasformare gli uomini indirizzandoli al bene, esso si limita a fare il 'poliziotto del traffico': non deve accontentare troppo i sudditi per non averli tutti contro; deve favorire in seno ai sudditi quegli orientamenti che rafforzano il suo potere, deprimendo le tendenze centrifughe; deve concedere tutti i palliativi in grado di far dimenticare la confisca della libertà, anche a costo di favorire il libertinaggio. La morale diviene una specie di media del comportamento dei cittadini e può variare a seconda dei tempi e dei luoghi: il diritto è il risultato di patteggiamenti tra le forze contrastanti.

Le virtù e i vizi

Soprattutto nel capitolo XVIII («In che modo e' principi abbino a mantenere la fede») tale separazione si fa pratica politica, quando, dopo aver illustrato il famoso esempio di Achille e il centauro Chirone e dopo aver suggerito le immagini della volpe e del leone, dice:

Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere.

Sancisce quindi una morale a parte, in cui il rispetto della parola data può - in molti casi, deve - venire meno, davanti alle mutate esigenze del principe. Il tutto sembra fondarsi su un pessimismo nei confronti della condizione umana, che Machiavelli pensa 'realisticamente' dominata da una cattiveria insanabile e genetica. Dice infatti

E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbano a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancorono cagioni legittime di colorare la inosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e monstrare quante pace, quante promesse sono state fatte irrite e vane per la infedelità de' principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato.

Machiavelli crede poco nella tradizionale distinzione fra virtù e vizio, perché non pertinente all'azione politica vincente; cerca di creare una nuova scala valoriale, in cui nulla sia ben definito e stabile, tranne lo scopo finale del principe, cioè il mantenimento del potere. Si comprende facilmente il motico per cui scompaiono dal panorama le virtù tradizionali, come pietà, fedeltà, integrità, umanità e religione (ne parla sempre nel cap. XVIII), per essere sostituite dall'unica vera virtù del principe, cioè la duttilità. Nell'accezione positiva è la capacità di adattarsi alle nuove circostanze che si è portati a vivere (e in questo Machiavelli è 'figlio' del suo tempo, come conferma la lettura dello scontro fra Ferraù e Rinaldo nel primo canto dell'Orlando furioso), ma che per il principe si risolve il più delle volte nella simulazione della virtù. Anzi, nel passo seguente sembra quasi incitare alla falsità, e in questo è 'profeta' dei politici attuali ...

A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che, avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utile: come parere pietoso, fedele, umano, intero, relligioso, et essere; ma stare in modo edificato con l'animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch'e' venti e le variazioni della fortuna li comandono, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato.

La fortuna

Come evidenzia nel capitolo XXV («Quanto possa la Fortuna nelle cose umane, et in che modo se li abbia a resistere»), Machiavelli crede che gli eventi futuri dipendono in parte dalla capacità di previsione e di calcolo politico che ha il principe, in parte dalla fortuna, ossia da quegli eventi come malattie e morti improvvise che non è possibile prevedere, ma che, quando accadono, occorre volgere a proprio vantaggio mediante un rapido calcolo delle conseguenze politiche di quegli eventi fortuiti. Imposta quasi una formula matematica:

Non di manco, perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o presso, a noi.

Inoltre, attraverso la similitudine del fiume in piena che deve essere arginato, crede che la fortuna si possa in qualche modo arginare con la virtù del principe, se non vuole essere trascinato da essa. È ovvio che la concezione dantesca e in generale medievale sia molto lontana da quella assolutamente terrena di Machiavelli: dietro al Caso, alla Sorte si nasconde, a volte in maniera misteriosa, la Provvidenza di Dio, che governa e dirige la storia dell'uomo e del mondo. Forse il parallelo più vicino alla concezione del Principe la ritroviamo in Boccaccio.

L'antropologia del Principe

Il Machiavelli approda così a un'amara concezione dell'umanità, delineando un particolare tipo uomo.

Non può superare i suoi sentimenti di vendetta:

« E chi crede che ne' personaggi grandi e' benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vecchie, s'inganna » (cap. VII)

Un uomo cinico, che deve saper dosare sapientemente il bene e il male:

« Perché le iniurie si debbono fare tutte insieme, acciò che, assaporandosi meno, offendino meno: e' benefizii si debbono fare a poco a poco, acciò che si assaporino meglio » (cap. VIII)

Facilmente manipolabile:

« Perché li uomini, quando hanno bene da chi credevano avere male, si obbligano più al beneficatore loro, diventa el populo subito più suo benivolo, che se si fussi condotto al principato con favori sua » (cap. IX)

Deve dipendere dallo Stato:

« E però uno principe savio debba pensare uno modo per il quale li sua cittadini, sempre et in ogni qualità di tempo, abbino bisogno dello stato e di lui: e sempre poi li saranno fedeli » (cap. IX)

Deve essere privo di idealità e di fermezza morale:

« Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e' figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e' si rivoltano » (cap. XVII)

Un uomo cupido e avaro:

« perché li uomini dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio » (cap. XVII)

Credulone, che si può imbrogliare facilmente:

« perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo » (cap. XVIII)

Un uomo senza memoria storica:

« Perché li uomini sono molto più presi dalle cose presenti che dalle passate, e quando nelle presenti truovono il bene, vi si godono e non cercano altro » (cap. XXIV)

Ma soprattutto gli uomini non cambiano mai e perciò la storia, antica e moderna, fornisce esempi per analizzare i casi analoghi.


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