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Si tratta di un argomento piuttosto articolato, che solo per esigenze didattiche cercheremo di schematizzare, ben consapevoli che è difficile sezionare autori e opere ed etichettarli in maniera univoca.
L'Umanesimo che abbiamo definito antropocentrico ruota attorno a tre concetti di base:
1) Il dualismo fede/ragione o la doppia verità
Vi è un tipo di impostazione, che certamente non è compatibile con l'idea cristiana, quello della doppia verità, secondo cui tra ragione e fede esiste una insanabile contraddizione, e tuttavia entrambe sono da ritenersi, ognuna al proprio livello, vere e accettabili. C'è la verità della fede, e c'è la verità della ragione: l'una fa a pugni con l'altra, ma l'una e l'altra hanno diritto a sedere nel simposio della cultura. E' però abbastanza evidente che mentre la ragione potrà sedere su un trono, la fede dovrà accontentarsi di uno sgabello; due verità contrastanti infatti non possono essere davvero sullo stesso piano, e inevitabilmente si finirà col crederne vera solo una, solo quella razionale.
Il discorso della doppia verità è dunque una tappa transitoria, un momento necessariamente instabile verso una più decisa riduzione della fede a fattore accessorio e incerto, ininfluente sulla vita; chi la sostiene non osa confessarlo apertamente, vuoi per servilismo, vuoi per interiori resistenze, ma in realtà implicitamente ormai pensa che la fede non costituisce più un principio di intelligenza, una chiave interpretativa ultima per leggere il reale, non genera una cultura, un nuovo sguardo sulle cose. E' semplicemente un insieme di articoli, la cui credibilità va smorzandosi sempre più, riguardanti l'"al-di-là", un "cielo" che ha sempre meno a che fare con la terra.
Si tratta di una concezione normalmente attribuita al filosofo arabo Averroè, e poi nel mondo occidentale a Sigieri di Brabante, e in qualche modo anche ad Occam (diverso è il caso di Duns Scoto). Nel periodo umanistico rinascimentale essa è sostenuta, sempre con la riserva di cui sopra (ma siamo in questo caso confortati dall'autorevole tesi del Berti ) da Pietro Pomponazzi.
Pomponazzi (Mantova 1462 / Bologna 1525) divide in modo netto le verità razionali da quelle di fede, e finisce col ritenere affidabili solo le prime. Così, nel caso dell'uomo, afferma che non si può sapere se l'anima sia immortale, anzi la pura razionalità deve piuttosto pensare ad una sua mortalità. Può essere interessante sentire una delle motivazioni in merito:
è da escludere che esista un'anima immortale, dato che "di gran lunga maggiore è il numero degli uomini che si comportano da bestie anziché da uomini, e in tutte le regioni abitabili se ne troveranno pochissimi che vivono secondo ragione. E facendo un attento esame anche tra questi ultimi, si potrebbe dire senz'altro che neppure essi vivono secondo ragione, ma si afferma di loro solo ciò solo in paragone ad altri in tutto simili alle bestie, come si dice a proposito delle donne, che nessuna è saggia se non in paragone ad altre completamente sciocche" (De immortalitate animae, cap. 8).
Possiamo qui osservare tra l'altro come la stima di Pomponazzi per l'uomo concreto (e per la donna concreta!) non fosse molto alta ...
Così nel caso del rapporto tra Dio e creato, la ragione non può pervenire ad alcuna provvidenza in senso cristiano, cioè tale da garantire al tempo stesso la libertà del volere umano; esiste infatti tra provvidenza e libertà una insanabile contraddizione, che vede la ragione naturale incapace di decidere quale sia la giusta soluzione. Quella che presenta meno contraddizioni è la soluzione degli stoici, che però conduce a pensare che Dio sia «omnium crudelissimus, carnifex super carnifices, iniustissiumus et denique omni malitia refertus» (De fato, l.II, c.7), in quanto vuole il male, la sofferenza, le crudeltà che attraversano la vita e la storia umane.
Né
può accettare un intervento miracoloso di Dio, fuori dalle leggi naturali, ma
la ragione deve limitarsi a constatare il caso, e la necessità naturale: ciò
che appare come soprannaturale è in realtà semplicemente insolito s strano,
ma ha una sua ben precisa causa nelle forme e nelle forze naturali dei corpi
celesti (è quanto sostiene nel De incantationibus); infine, per ciò
che riguarda l'etica, critica il fondamento trascendente del comportamento
morale: non bisogna fare il bene, essere virtuosi in vista di un premio, o per
timore di un castigo ultraterreno, ma per l'intrinseco valore della legge
morale (immanente).
Quindi la fede afferma l'immortalità, la Provvidenza, l'iniziativa
soprannaturale di Dio, il compimento trascendente dell'azione morale: la
ragione pensa esattamente il contrario, ed è in fondo alla ragione che
Pomponazzi, se a qualcosa crede, da credito.
Ma che tipo di ragione è questa, per poter essere così in contrasto con la
fede? Come spiegare che avendo entrambe per oggetto il reale, tali fattori di
conoscenza entrino in conflitto? Pomponazzi stesso descrive il suo tormento di
filosofo, incapace di approdare a delle vere certezze, con l'immagine di
Prometeo:
«Prometeo veramente è il filosofo che, mentre vuol conoscere i misteri di Dio, è roso da perpetue preoccupazioni e pensieri; non ha sete, non ha fame, non dorme,(..) è irriso da tutti,(..) perseguitato dagli inquisitori, curioso spettacolo per il volgo»
Incertezza e lacerazione caratterizzano il filosofo-Prometeo: si può dire che non solo la ragione è divisa dalla fede, ma anche che essa è divisa in sé stessa (con evidenza nel caso di provvidenza/libertà), incapace di semplicità e di unità, di adesione a una verità che possa riconoscere con certezza. Ma l'immagine di Prometeo è significativa: perché la ragione si è ridotta a tale incapacità? Forse proprio perché ha voluto rubare il fuoco agli dèi, cioè ha voluto carpire con violenza "i misteri di Dio"; con violenza, perché ha fatto dei propri ridotti criteri il metro assoluto, la misura con cui giudicare lo stesso Infinito. Si tratta insomma di una ragione non concepita come misurata dall'oggettivo, ma pensata come misura di tutto, e come tale incapace di dilatarsi ad accogliere la dimensione del non-pienamente-razionalizzabile, cioè del mistero.
Un'altra
considerazione: questo concetto di ragione implica un suo ripiegamento sulla
misura parziale, una sua incapacità di abbracciare il reale nella sua
totalità. La ragione non dispiega pienamente le sue ali (come direbbe
Eliot), non effettua più il periplo compiuto dei problemi, ma si accartoccia
su se stessa: tecnicamente questo è evidenziato dalla intrascendibile
immersione della ragione nell'ambito sensibile-fantastico. Impossibile
sollevarsi sopra i densi vapori di un'aurora sensibile-materiale, inutile
aspettare il pieno meriggio di una autentica apertura al vero totale e
assoluto.
Il fossato che viene scavandosi tra ragione, puramente filosofica, e fede, una
fede concernente un'altra realtà che non quella esperibile naturalmente (e non
un altro livello della stessa realtà), è tale da distruggere la cultura
unitaria, un possibile sguardo unificato sul reale, in cui la ragione è
lievitata e riplasmata dalla fede.
2) L'antropocentrismo come non dipendenza
Una
delle caratteristiche comunemente attribuite all'umanesimo è, come suggerisce
lo stesso nome, l'entusiasmo per la dignità dell'uomo, una decisa
sottolineatura del suo grande valore. Ma, come abbiamo già accennato, questa
esaltazione dell'uomo, se debitamente intesa (e non "a oltranza"), è
non solo compatibile col Cristianesimo, ma è da questi postulata; anzi è
giusto dire che è stato proprio il messaggio cristiano il primo a concepire il
valore dell'uomo.
Marsilio Ficino non può certo esser detto
umanista antropocentrico, tuttavia troviamo in alcune sue pagine un tono, da
cui risulta assente la considerazione del concreto stato di bisogno, di
indigenza dell'uomo. In Ficino anzi l'uomo, o meglio l'anima umana, sembra
avere un primato su Dio stesso. Dio appare nella sua concezione quale un
"estremo", diametralmente opposto alla materia: l'angelo e le
qualità sono realtà intermedie, ma ancora troppo legate ai rispettivi
"estremi" per poter essere la sintesi: è l'anima umana che riunisce
in sé l'inferiore e il superiore, "vera copula mundi", "massimo
miracolo della natura -che- facendosi intermediaria di tutte le cose, possiede
le facoltà di tutte" e perciò può esser detta "il centro della
natura, la catena del mondo, il volto del tutto, il nodo e la copula del
mondo" (Teol.Platonica, III,2). L'anima umana quindi quale centro e
sintesi del tutto: "Disponiamo ancora una volta la realtà di tutte le
cose in cinque gradi. Poniamo cioè Dio e l'angelo alla sommità della natura
(n.b.), il corpo e la qualità nel grado più basso, ma l'anima in mezzo"
(Teol. Platonica, III,2)
L'uomo poi, di cui Ficino celebra la grandezza, è delineato con
caratteristiche astratte, con tratti in qualche modo angelici, o comunque
illusoriamente positivi: "noi, che siamo animi di natura celeste, bruciati
dal desiderio della celeste patria", affermazione apparentemente
religiosa, anzi mistica, di una mistica che potrebbe anche essere
cristiano-tradizionale, se poi Ficino non aggiungesse: "sciogliamo dunque
al più presto questi duri ceppi, che ci legano alla terra, per essere pronti a
volare, liberi, verso la sede eterna, sollevati dalle platoniche ali e sotto la
guida di Dio.
Sembra qui che l'uomo abbia già in sè, nella sua natura, ciò che gli
occorre per realizzarsi, sia pur tendendo al "cielo": non deve
combattere contro l'orgoglio autocentrico, contro quella superbia che si annida
nel suo cuore, facendolo credere autosufficiente e "Dio per natura";
deve solo combattere (platonicamente) contro i "ceppi" che lo legano
alla terra, dando libero sviluppo alla propria intima e, a quanto pare,
incontaminata bontà. Non ha quindi da lasciarsi plasmare dalla grazia, Dio
svolge solo un compito (tutto sommato piuttosto modesto) di "guida".
Conferma di questo clima larvatamente antropocentrico è nel seguito del passo:
"verso quella sede ove, appena giunti, potremo contemplare in beatitudine
l'eccellenza della nostra natura" (Teol. Platonica, I,77).
L'anima, staccatasi dalla terra, non si perde forse nella contemplazione di Dio,
ma, al contrario può finalmente "contemplare l'eccellenza della propria
natura". Si potrebbe parlare qui di narcisismo; di certo abbiamo comunque
una tesi che, presa così com'è, inclina verso l'antropocentrismo.
L'esaltazione
ingenuamente (o acriticamente) ottimistica dell'uomo è visibile anche nella
rivendicazione della bontà della cosiddetta natura umana. Diciamo
"cosiddetta" perché è teologicamente esatto dire che la natura
umana è buona, ma è altresì vero che lo stato, la condizione storica,
attuale, effettiva della natura umana, lo stato effettivo della nostra attuale
umanità non è uno stato di integrità, di sanità, e ciò in seguito al
peccato originale. Ora, quando certi pensatori quattrocenteschi e
cinquecenteschi parlano di "natura" si riferiscono non alla natura in
sé (che è realmente buona), ma al suo stato storico-concreto, che versa
invece in una condizione di bisogno e di malattia. Perciò l'accento con cui
tale bontà viene celebrata è in disaccordo col Cristianesimo, che parla di
peccato originale. Si tende a pensare che "tutto ciò che nasce dalla
natura è bene" , la spontaneità così è automaticamente positiva ed
eticamente ineccepibile.
Possiamo esemplificare ricorrendo in primo luogo a Lorenzo
Valla (1407/57), con la sua rivendicazione della piena positività
del piacere. Che ci fosse da apportare una certa correzione all'ascetismo
medioevale, nella misura in cui esso era motivato dall'impostazione platonica
di un disprezzo del corpo (più che da una lotta contro la radice del peccato,
ossia la superbia autocentrica) è senz'altro vero. Infatti, a differenza che
per Platone, la materia, creata da Dio, è per la fede cristiana buona in sè
stessa, e il peccato passionale è comunque meno grave di quello calcolato,
come ben appare dalla plastica rappresentazione dell'Inferno dantesco. In
questo senso la tesi del Valla non è sotto ogni aspetto incompatibile con la
fede tradizionale. Ma è anche vero che una tale sottolineatura rischiava di
avvallare la bontà del "naturale" istinto del piacere, non giudicato
da un superiore criterio, non interno a una totalità il cui centro non si può
chiamare piacere.
Se la tesi del Valla fosse "innocente" perché avrebbe voluto usare
quest'unico termine, e non anche e più ancora, termini come felicità, gioia,
beatitudine? "Il piacere - afferma Valla - è un bene cercato donde che sia,
posto nella soddisfazione dell'anima e del corpo; quello all'incirca, che ha
voluto Epicuro, e i greci chiamano edonè" (De vero falsoque
bono, l.I).
Ed è un caso il suo esplicito rifarsi all'epicureismo, dottrina edonistica per
eccellenza? E' vero che alla fine egli ammette che l'epicureismo storico deve
cedere il passo alla fede cristiana, ma tale ammissione giunge col sapore di un
rimedio posticcio e non convincente. Si legga ad esempio quanto dice criticando
la "morte per la gloria": "Cosa importa al defunto ciò che non
sente? Tu celebri, al suono della lira o della cetra, sopra il mio sepolcro le
mie fatiche, la mia operosità, la mia morte, e le mie orecchie non odono. Sono
sulla bocca di tutto il popolo e le mie membra intanto si dissolvono. Queste
cose non giungono a me più dei fiori, dei gigli, delle rose, che si spargoo
sulla tomba. Non sollevano, non dilettano il corpo che giace, non gli danno
giovamento" (op. cit.).
Ciò che Valla critica qui è apparentemente solo la morte per la gloria, ma
non si può negare che il suo bersaglio polemico reale sia in fondo qualcosa di
più: qualsiasi speranza ultraterrena, che non sarà del tutto negata, ma verso
la quale sono nutriti evidentemente forti dubbi .
"Io non posso far meglio": essere altro da quello che sono, far
meglio cioè, implicherebbe essere un altro, avere
un'altra natura. Dio, che questi autori non negano esplicitamente, ma a cui non mostrano
nemmeno di credere per davvero, potrebbe darmi un'altra natura; ma fin tanto
che mi lascia questa, il mio comportamento ne scaturisce in modo spontaneo e
inevitabile. Non ho quindi niente da rimproverarmi. Si vede che un paragone tra
ciò che costituisce la mia profonda e vera natura umana e quella che è la mia
situazione effettiva, non è nemmeno preso in considerazione.
Il primato
dell'azione. Una ulteriore documentazione dell'impostazione
antropocentrica la possiamo vedere nel tema, sviluppato soprattutto nel primo
umanesimo, del primato della vita attiva su quella contemplativa. Il
Cristianesimo aveva certamente modificato il senso della contemplazione,
rispetto alla cultura greca, in quanto il contemplato per eccellenza non era
più concepito come un insieme di verità astratto-universali, oggetto della
pura intelligenza, ma come Verità fattasi carne, presente in una concretezza
storico-singolare. Aveva però mantenuto l'idea, già riconosciuta dai greci,
che il primo compito della ragione umana sia quello di adeguarsi al reale, a
ciò che realmente esiste (cioè sia quello di contemplare); e che solo in
seguito possa progettare su ciò che è utile e fattibile. Si può parlare
insomma, sia pur in diverse valenze, di un "adeguamento"
all'oggettivo, sia per la grecità, sia per la cultura cristiano-medioevale.
Prima di agire, di fare, occorre guardare, contemplare ciò che esiste, sia
esso gradevole o no, appaia esso utile o no.
Vediamo ora affiorare una diversa impostazione, che in qualche modo anticipa il
tipico attivismo moderno, cioè il primato dell'utile sul vero, la posizione di
un progetto pratico non fondato su un giudizio, su una certezza più grande,
abbracciante il tutto, ma basato su conoscenze settoriali, analitiche. Il
fondamento ultimo del progetto (/dei progetti) non sarà perciò la verità
oggettiva e ultima, a cui ci si adegua; sarà invece la propria decisione, un
colpo di reni (della volontà) circa il senso della vita e delle cose, privo di
giustificazione conoscitiva, privo di supporto evidenziale-logico
corrispondente.
Ad esempio in Poggio Bracciolini (1380/1459) troviamo una motivazione del
primato dell'azione sulla contemplazione che fa pensare ad una mentalità
precristiana: se occorre darsi da fare, agire con operosità insonne, è per
dominare una realtà "esterna" che viene vista come ostacolante,
ostile, quasi una cieca fatalità che l'uomo deve affrontare a colpi di
volontà. La realtà quindi non viene più vista come permeata dalla
Provvidenza, e risplendente di un Disegno buono e bello (sia pur rivelantesi
nella misteriosa dimensione della Croce), e quindi anzitutto da contemplare con
occhi e mente sgranati, senza difendersene: si è già deciso che essa sia, se
non del tutto negativa, almeno oscura, non significativa, non attraversata da
un senso fin nei suoi dettagli. Una sorta di plastilina da modellare, e non un
segno carico di promessa, e da coltivare a partire da ciò che in esso è già
dato. Dello spirito anticontemplativo di Bracciolini è testimonianza anche la
sua polemica contro i monaci, che egli ritiene condurre una vita oziosa e
parassitaria: dove si vede che tutta la speranza è posta nell'azione
dell'uomo, in un'azione che fa leva sulle forze umane, tant'è che non ha gran
valore chiedere, con la preghiera che Dio agisca, rendendo fecondo e non vano
l'umano operare.
Anche in Coluccio Salutati (1331/1406) troviamo l'elogio del sapere volto alla prassi
(come il diritto) e della vita attiva, per la sua utilità alla società; così
pure in Lorenzo Valla un giudizio di deprezzamento per la contemplazione. Per
il filologo romano non è lecito credere che la contemplazione sia suprema
forma di vita perché si tratta della vita degli dei, del divino: in realtà
noi non siamo certi che gli dei esauriscano la loro vita nel contemplare, anzi
è più probabile che la loro vita sia piuttosto un fare, che un guardare (De
vero falsoque bono, l.II). Quindi non si dica che il contemplare è perfetto
perché gli dei contemplano, ma piuttosto che Aristotele pensava che gli dei
contemplassero per la stima che lui aveva della contemplazione. Ma a ben
guardare tale stima non era, secondo il Valla, per l'intrinseco valore della
medesima, quanto per il risultato ottenibile a suo mezzo: "Non volevi apparire cupido di gloria, volevi sembrare amante degli studi,
pur amando gli studi non per se stessi, ma soprattutto per la gloria" (op.
cit.).
Nel medesimo brano Valla equipara il valore della contemplazione filosofica a
quello "delle donnette e dei fanciulli" al mercato; il problema
infatti è per lui non l'oggetto del guardare/considerare, quanto il riverbero
di piacere soggettivo, che non sarebbe qualitativamente diverso nei due casi. Così la contemplazione non è un guardare al senso delle cose,
ma è solo un frivolo divertimento, valevole soltanto per il piacere
che ne deriva. Guardare la realtà è più una forma di piacere, che una forma
di conoscenza, ha valore affettivo, non rivelativo, soggettivo e non oggettivo.
Il reale non è in tal modo visto come carico di senso, nè vi può essere nei
suoi confronti alcun impegno drammaticamente serio.
La medesima polemica è rinvenibile in Leon Battista Alberti (1404/72), con la
sua lode dell'homo faber, ma soprattutto con la sua contrapposizione della
attiva "virtù" alla "fortuna": il rapporto delle energie
umane non è più concepito come relativo alla Iniziativa (buona) di Dio, come
risposta al suo manifestarsi, ma come un affrontare, con l'impeto fattivo e
riplasmatore della propria attività, la "fortuna", entità
impersonale non ben definita, ma tendenzialmente ostile e minacciosa; il che,
se non presuppone una chiara negazione della Provvidenza, almeno introduce un
elemento di confusione e di imbastardimento in una visione della realtà, che
si dice ancora cristiana. Leggiamo un brano in cui l'Alberti in pratica nega il
valore della preghiera, attribuendo alla sola azione dell'uomo il suo successo
o insuccesso:
« Dacché gli uomini per la loro sciocca inettitudine si sono tirati addosso gravissimi malanni, è nata la consuetudine di rivolgersi subito agli dei. (..) Eppure, se tu sfuggirai le cause dei mali, non avrai in nessun caso bisogno che gli dei ti levino dai guai. (..) Se fossero gli dei medesimi a causare i mali, non smetterebbero affatto per le tue preghiere » (da I libri della famiglia)
3) La natura come opacità e spazio del nascondimento
Accanto e in corrispondenza con la "esaltazione a oltranza" dell'uomo, l'umanesimo laicista sviluppa il tema della natura non più come segno, trasparire dell'Altro, luogo del suo manifestarsi, epifania cosmica dell'Infinito, ma quale oggetto da manipolare, e come opacità greve, chiusa in se stessa. Si tratta di un discorso, che sarà compiutamente svolto dalla cultura filosofica del '600, ma che già affiora nel '500.
Alludiamo
ad esempio alla tesi dell'infinità della natura, che si affaccia già con il Cusano.
Di questo autore abbiamo già detto come non sia giusto classificarlo
univocamente nel filone di una modernità antropocentrica. Di fatto però la
sua cosmologia, che pur sembra anticipare con felice intuizione le tesi
portanti dell'astronomia scientifica moderna, con la negazione del
geocentrismo, della circolarità delle orbite celesti, della differenza
qualitativa tra le sostanze celesti e i quattro elementi terrestri, assesta un
colpo molto forte all'immagine medioevale del cosmo, lasciando aperta la strada
a interpretazioni di segno anticristiano. In particolare l'idea di un cosmo
infinito, che comunque egli non è univoco nell'affermare mal si attaglia, al
di là delle sue intenzioni, con l'idea cristiana del mondo naturale come
segno, parola carica di senso: perché qualcosa sia intelligibile occorre
infatti che sia finito, senza contare che uno spazio infinito è
psicologicamente connesso da un lato con un'idea di spreco possibile, per
l'inesauribilità delle risorse disponibili, dall'altro con un'idea di
nascondimento, a cui abbiamo alluso nell'esergo di questo paragrafo. Invece di
essere, cioè, luogo di comunicazione, come se non solo "il tempo" si
fosse "fatto breve", ma anche lo spazio si fosse fatto corto, lo
spazio della natura diventa fattore di separazione, di opacità impenetrabile,
di mascheramento.
Se in Cusano si può trovare una tendenza solo implicita in tal senso, in Giordano
Bruno, che dice di rifarsi a lui, il sentimento del cosmo è
chiaramente sganciato dal Cristianesimo: una vivente natura infinito, in cui
Dio si esaurisce, essendone racchiuso senza residui, è troppo evidentemente
panteistica, perché si possa nutrire qualche dubbio sull'intento del Nolano.
Ma più ancora, una testimonianza del nuovo clima antropocentrico, nella sua
volontà di dominio su una natura non più vista come teofanica, lo troviamo
nel fiorire della magia, dell'alchimia e dell'astrologia tra '400 e '500:
con esse il nuovo tipo umano "laico" intende acquisire una padronanza
tendenzialmente totale sulla realtà fisica e le sue forze. Il che è evidente
nel caso di magia e alchimia, miranti direttamente a modificare la materia a
proprio arbitrio, ma è vero anche nel caso dell'astrologia, le
"conoscenze" della quale non erano considerate una pura curiosità
speculativa, ma dovevano essere utilizzate ai fini dell'azione di successo.
Basta scorrere alcune pagine delle opere dei cultori di tali scienze occulte
per avvertire in loro una concezione non più cristiana, e non di rado anzi
inclinante verso il satanismo.
E che dire della volontà di parlare oscuramente, per non essere compreso dal
volgo, e tener nascosto il segreto della propria arte magica?